29 giugno 2012

La ribellione obbedientissima di don Milani



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23 giugno 2012

Monumento "Uomo Pensante" a Ferrara

 
Inaugurato un nuovo monumento a Ferrara: la scultura "Uomo Pensante" di Roberto Lucato e Roberto Lando

Una monumentale scultura intitolata “Uomo Pensante” è stata donata al Liceo Ariosto di Ferrara in occasione dell’esposizione “La forma del pensiero” per la Settimana della Cultura.
L’installazione, realizzata dagli artisti trevigiani Roberto Lucato e Roberto Lando, è stata collocata nell’ampia area verde che gravita sul Quadrivio rossetti ano della città di Ferrara, dove rimarrà in permanenza. Visibile dalle cancellati di Corso Ercole I d’Este l’opera scultorea “Uomo Pensante” allude al valore universale del pensiero con un evidente riferimento alla forza reattiva della libertà mentale.
In un momento attuale così delicato per l’umanità, inabissata nel baratro della decadenza etica, politica e sociale, l’artista Roberto Lucato propone una valida alternativa alla crisi del XXI secolo, l’unica possibile via d’uscita dalla “notte” dell’uomo: l’Uomo Pensante, un simbolo di rinascita e un nuovo punto di partenza per tutti.


Info:
www.robertolucato.it


Ufficio Stampa:
Sabrina Falzone

www.sabrinafalzone.info

22 giugno 2012

Episcopivs Troianvs - Sinossi di Antonio Gelormini



EPISCOPIVS TROIANVS – Sinossi

 
Kaspar Jr. Van Wittel era letteralmente catturato dall’imponenza affascinante delle Alpi, mentre ne sorvolava le cime innevate e mentre si apprestava a sfogliare le pagine nascoste di una storia senza fine.
Il Gran Tour di Kaspar jr. si dipana sulle tracce accattivanti di linee architettoniche familiari e lungo i riverberi di sentimenti devozionali insistentemente tramandati. Un percorcorso tracciato negli anni della sua infanzia olandese dai racconti di una nonna “incantevole”, che come un filo d’Arianna lo guideranno dalla Firenze di Raffaello alla Roma dei Papi, dalla Napoli carolingia alla familiare Reggia vanvitelliana di Caserta. Fino al cuore dell’entroterra dauno: Troia.
La serpens longa dell’Antica Daunia (così velenosamente stigmatizzata da Federico II), che da Castra Hannibalis quando ancora Aecae, nei disegni strategici bizantini diventerà fulcro del processo di ridefinizione delle sedi episcopali meridionali.
Episcopius troianus “racconta” il Palazzo Vescovile di Troia. Attraverso le sue vicissitudini, quelle dei Vescovi che l’hanno abitato, quella di un’originale pala d’altare del Solimena, nonché della tribolata vicenda di preziosi volumi e codici emigrati “forzosamente” verso biblioteche più blasonate, racconta anche la parabola di una Diocesi e di una Città, che hanno rappresentato un pezzo di storia importante di questo suggestivo angolo di Puglia.
 
 
Antonio V. Gelormini, EPISCOPIVS TROIANVS – Gelsorosso Ed. Bari, 2012
 
 
Il progetto “Taccuini”
 
“EPISCOPIVS TROIANVS – Il taccuino di Troia” è l’avvio di un progetto editoriale dedicato alla cultura e all’identità di paesi e territori. Un progetto che intende caratterizzarsi per la focalizzazione di un singolo bene culturale (un edificio, un’opera d’arte o un reperto storico di particolare importanza), noto o sconosciuto, per ricostruire intorno ad esso tutta l’atmosfera e il sentimento del territorio che lo possiede.
E’ la storia che prende forma, per esempio, in una chiesa, in un palazzo, in una collina, dando vita e riconoscibilità all’intera zona circostante. E poiché il solo luogo, la sola destinazione non bastano a dar senso a tutto quel che vi si trova, i temi e i titoli del progetto vogliono essere intensamente culturali e paesaggistici, prim’ancora che meramente geografici.
 

20 giugno 2012

Giustizia o vendetta? - Quarta parte


 GIUSTIZIA O VENDETTA? - quarta parte


Il 22 ottobre 2009 ha fatto scalpore la morte di Stefano Cucchi, morto in seguito a un pestaggio in carcere. Proprio di questi giorni sono gli ultimi aggiornamenti. Allora ne parlarono ampiamente giornali a tg, perché alle spalle di questo povero giovane c’è stata una famiglia forte e coraggiosa.
Dice Luigi Morsello nel suo libro “La mia vita dentro”: “La cronaca recente ha raccontato di un comandante di reparto di un istituto del nord che rimproverava un sottoposto per aver malmenato un detenuto extracomunitario. Non perché avesse commesso un reato ma per averlo fatto in modo maldestro: «Queste cose non si fanno in sezione ma di sotto!» Ossia nelle stanze d’ingresso, lontano da sguardi indiscreti”.
Anche a me è capitato di raccogliere la testimonianza di un agente di custodia, il quale mi ha parlato di alcuni suoi colleghi che si mettono in quattro o cinque a picchiare un detenuto e ha aggiunto: «Questo non è coraggio: è vigliaccheria”.

Unendo tutte queste impressioni e questi dati, dobbiamo davvero chiederci cosa vogliamo
sia il carcere: un luogo che riabiliti l’uomo o una catena di montaggio dei pezzi peggiori?
Quando chiediamo giustizia invochiamo davvero la virtù, il principio etico che essa racchiude? Oppure vogliamo solo eliminare qualcuno che è scomodo, dimenticandoci della sua esistenza?
Non dobbiamo languire nel pensiero utopico che disegni un panorama scevro da reati; tutti vorremmo che così fosse, ma dobbiamo fare i conti con la realtà. Una realtà che ci mostra, fin dagli esordi dell’uomo, le sue nefandezze e le sue pecche.
Dobbiamo pensare a come fare a recuperare, ricostruendo una vita, in un modo tale che trovi consapevolezza e responsabilità.
Mentre, laddove il recupero non è possibile, il carcere si faccia luogo di tutela, di reclusione, ma mantenendo una forma di detenzione che abbia rispetto dell’uomo.



© Miriam Ballerini                                                                                                  fine





FONTI CITATE:

Gli altri Piero Sansonetti

La mia vita dentro Luigi Morsello

Famiglia cristiana


Mezzo busto giornalino della Casa circondariale Busto Arsizio

18 giugno 2012

La crisi del 1929 e la crisi del 2009




 
LA CRISI DEL 1929 E LA CRISI DEL 2009
Riflessioni sul fallimento del sistema supercapitalistico




Siamo di fronte ad una grave frattura economica che imperversa imperterrita dall’ottobre del 2009 e che ci ricorda da lontano quella particolare congiuntura che fu la Crisi del 1929. Siamo consapevoli delle gravi difficoltà che ogni governo deve affrontare per contenere i debiti pubblici e per rivitalizzare le energie di produzione e i sistemi bancari, che sono la causa indiretta di questo flagello economico, insieme agli apparati finanziari supernazionali e multinazionali. Ora operare dei tagli troppo netti, delle potature troppo energiche che vanno a colpire puntualmente la base radicale dell’albero sociale significa far seccare proprio la società. I primi ad essere tagliati sono i giovani, da tutto, dal mondo del lavoro, dalla possibilità di realizzarsi, per non parlare degli operai, quei pochi che vi sono rimasti, visto che sono diventati una specie in via di estinzione, le donne, gli anziani, i pensionati, quei pochi fortunati che riescono ad arrivare a questa mitica pensione, in una parola i ceti più deboli. Sono tagliati i servizi, dall’Istruzione alla Sanità. Chi deve pagare, in pratica, l’enorme buco derivante dai malaffari globalistici, dalla corruzione imperante, dal fallimento di un sistema che è diventato insostenibile, soprattutto per le giovani generazioni? È sempre il povero. Nessun ministro pota i rami alti, le corporazioni, le “caste”, tanto per adusare un termine molto caro ai riformatori, quelle sette sociali che hanno dominato e dominano dal fascismo ai fascismi dell’Italia democratica sino allo sfascismo totale che oggi ci colpisce. E tra queste caste si è creato un neonobiliare ceto politico che gode di immunità neofeudali. Chi risente di più allora di queste restaurazioni che portano il nome e la bandiera di riforme sono i giovani, gli anziani, le donne, le famiglie che non arrivano più a fine mese, le famiglie mancate dei giovani che sono impossibilitati ad averne una, le famiglie sfasciate da anni di consumismo sfrenato, di illusorio materialismo, altro che dal comunismo, dall’egoismo, altro che altruismo, dall’individualismo, le famiglie abortite, divorziate, ridotte alla fame. Non è il caso di citare l’oramai noto “articolo 1” della Costituzione Italiana. È il caso invece di ribadire che tutte le riforme a partire dalla immobile “mobilità”, che è diventata precarizzazione, frantumazione, rigidità, esclusione, disoccupazione, sono un attentato al lavoro, al lavoro dei giovani che è precario, ma anche al lavoro degli arruolati in un esercito di intellettuali allo sbaraglio, alla confusione, allo spostamento, alla fuga dai posti abituali di lavoro per raggiungere mete senza meta, alla fuga di cervelli dalla nazione. Fin quando l’emorragia di braccia e di cervelli poteva colpire il Sud, era anche comprensibile. Ma oggi vediamo che il tarlo dell’emigrazione colpisce anche la Lombardia. Allora dobbiamo cominciare a preoccuparci: l’Italia è finita! Quando assistiamo alla chiusura delle aziende, al fallimento, alla rassegnazione della piccola e media impresa, che da anni è stata la spina dorsale dell’economia italiana, allora dobbiamo cominciare a preoccuparci, perché l’Italia è davvero finita! La ricchezza di uno Stato si misura non tanto dai PIL delle banche e delle balene in un oceano senza fondali, ma dal lavoro e dalla produzione. Più c’è lavoro, più ci sono entrate, più lo Stato è ricco e può ridistribuire. E le tasse non le pagano gli industriali, o le banche, o le multinazionali, ma gli imprenditori ed i cittadini percettori di reddito, quei cittadini che si stanno impoverendo e tra un poco non potranno più pagare le tasse stesse. Accanto al debito pubblico si sta sviluppando vertiginosamente il debito privato: la maggior parte delle famiglie sono indebitate. La ricchezza delle nazioni, sappiamo che è data dal primario, cioè dall’agricoltura, che in Italia è finita da anni, dal secondario, cioè dall’industria, ed anche questa è finita ed infine dal terziario, cioè dagli uffici. Questo abbiamo appreso dalle lezioni di economia. Oggi, però, il mondo si è capovolto: è il terziario che fa la ricchezza. Il terziario, cioè il mondo dei servizi, quel marasma bancario-finanziario, è diventato il primario. Tutta la ricchezza globale delle nazioni è determinata da istituti finanziari, che sono privati. Tutte le banche sono private, anche quelle che erano pubbliche. In pratica tutto il mondo economico mondiale è detenuto da una cricca supercapitalistica globale. Il valore della moneta era dato dalla quantità di riserve auree. Questo abbiamo appreso dalle lezioni di economia. Ed oggi da chi è dato? Dallo spreed, dall’inflazione senza contegno. Oggi assistiamo ad una crisi che non è solo economica, ma morale, politica, religiosa e chi più ne ha, più ne metta. La vera causa della crisi è morale: l’avarizia di chi vuole arricchirsi, la corruzione dilagante ed imperante. Non è il sistema bancario-finanziario in sé il problema, ma come questo è gestito e da chi è gestito e si sa che dove cova Mammona è più facile che l’uomo cada, anche il più onesto. Quando una mela comincia a marcire, non c’è più niente da fare, prima o poi si corromperà. Così è per la società, d’altronde la storia si ripete. È Lenin affermava: «Se vogliamo distruggere una nazione, dobbiamo distruggere la sua morale: poi la nazione ci cadrà in grembo come un frutto maturo». Aveva ragione! È caduto il millenario, insuperabile, invincibile Impero Romano per la corruzione morale, civile, politica, religiosa, perché non dovrebbe decadere questo sistema? Verranno secoli bui, peggiori del Medioevo, perché almeno nel Medioevo c’erano forti i valori religiosi, che oggi abbiamo perso. Tutte le ideologie erano pericolose e sono state smantellate, ed oggi questo mondo asettico, apolitico, asociale, arazionale a cosa ci porterà? Al vero «Tramonto dell’Occidente». Tutte le istituzioni sono state smantellate: la famiglia, le chiese, gli stati, le nazioni, l’individuo stesso, che non ha più valore come persona, di fronte ai miti materialistici dei soldi e del lavoro, che hanno trionfato per generazioni, ma che oggi hanno dimostrato la loro vera vacuità. Questi miti illusori sono peggiori di quelli delle razze e degli eroi che avevano dominato il Novecento, quel pazzo Novecento, che ci ha lasciato alle spalle due guerre mondiali e i più feroci totalitarismi. La società di massa ci ha portato agli stermini di massa, ma il popolo può redimersi, se lo vuole, può riconquistare il suo ruolo, la sua sovranità, perché il popolo non è la massa, un aggregato indistinto di individui atomici, ma è un corpus politicum. Questo sistema non è neppure liberale, né liberistico, né capitalistico, ma rappresenta una dittatura del supercapitalismo mondiale. Il grande Adamo Smith nella Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, cosa aveva sostenuto? La ricchezza è data dalla produzione, ma produttivo è soltanto il lavoro, che crea dei beni reali, non fittizi. Tutti gli scienziati, i politici, i governanti, i professori, in pratica tutti i produttori di ricchezza immateriale, quae tangere non possumus, cioè intangibili, concorrono indirettamente alla ricchezza. Non sono fonte di ricchezza, perché una nazione tanto sarà ricca quanto minore è il numero degli oziosi. Lo stato deve lasciare libero ogni individuo di conseguire il massimo benessere personale, così assicurerà automaticamente il massimo benessere collettivo. Ma vi sembra questo un sistema liberale? La profezia del superato Marx si sta avverando: i capitalisti diminuiscono di numero ed aumentano di potenza economica, mentre i proletari, tra i quali annoveriamo tutti i nuovi poveri del terzo millennio, visto che gli operai sono spariti come classe, aumentano di numero e diminuiscono di benessere economico. Un sistema insostenibile come questo, che viene perpetrato, porterà inevitabilmente alla guerra, alla distruzione, alla miseria, al caos sociale, alla rivoluzione, a forme di neototalitarismi, di neofascismi. La superborghesia globale però, citiamo un passo del famigerato Manifesto, che per secoli ha fatto paura, non ha previsto che «i rapporti borghesi di economia e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna, che ha creato per incanto mezzi di produzione e mezzi di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate». Le ragioni che portarono al «giovedì nero» del 1929, non sono dissimili da quelle che hanno portato al nero del 2009 in continuità ad oggi: la febbre di speculazione finanziaria che raggiunse vertici estremi. Le banche continuavano in politiche di agevolazioni creditizie. E non dissimili sono neppure le conseguenze della crisi: I crediti non furono più impiegati nella produzione reale, bensì nella speculazione, soprattutto quella edilizia, vedi le bolle di sapone immobiliare, nonché borsistica, vedi i grandi ondeggiamenti a caduta libera delle gaussiane campane dei flussi finanziari dei “venerdì neri” odierni. A ciò si aggiunge: restrizione dei crediti bancari e finanziari, fallimenti di piccole e medie imprese industriali e commerciali, vedi la catena di suicidi imprenditoriali che somiglia molto a quella degli anni ’30, contrazione della produzione, disoccupazione, depressione, paralisi della produzione. Dopo questa importante lezione storica avremmo dovuto capire che il supercapitalismo non è stabile, ma ciclico: vedi, ad esempio, dalla rinascita dell’anno 1000 alla crisi del ‘300, dall’espansione del ‘500 alla crisi del ‘600, dall’espansione del ‘700 al decollo dell’’800, con interruzioni e riprese varie, fino alla crisi del primo Novecento che ci ha portato alla prima Guerra Mondiale ed alla crisi del ’29, che ci ha portato alla Seconda. Questa crisi a cosa ci porterà? In questi casi non possiamo dire che Historia magistra vitae, perché non ascoltiamo la storia, anzi tendiamo ad ignorarla, a commettere sempre gli stessi errori, per cui ci sono quelli che Vico definiva i “corsi ed i ricorsi”. Se il capitalismo metteva capo ad uno strano meccanismo, per cui, ad un certo punto si registrava una “povertà nell’abbondanza”, andava pertanto modificato.

Dopo la grave crisi del 1929, tre furono sostanzialmente le risposte: quella marxista, quella totalitarista e quella keynesiana. Riguardo alla prima ricordiamo solo lesempio russo: Stalin avvia i Piani quinquennali, che a partire dal 1928, trasformano lUnione Sovietica, da paese agrario in moderno stato industriale. La collettivizzazione agraria a prezzo di inaudite sofferenze e traumi sociali, come la liquidaqzione dei kulaki, porta ad una rivoluzione agraria. Riguardo alla seconda ricordiamo il caso italiano. Leconomia fascista si ispirava generamente al corporativismo hegeliano, rielaborato da Giovanni Gentile, il quale contrappose allindividualismo liberale e democratico, fonte di disgregazione sociale, lesigenza di una solidarietà collettiva. La solidarietà tra le classi viene contrapposta alla marxista lotta di classe e si esprime nella teorizzazione dello stato corporativo. Fu proprio nella gravissima congiuntura del 1929 che leconomia fascista cambiò rotta e lallora ministro delle finanze, Giuseppe Volpi, conte di Misurata, inaugurò un periodo di interventismo statale nelleconomia e di protezionismo. Nel quadro generale di quegli interventi statali fu importante listituzione di due organi: lIMI e lIRI. In Germania la grande crisi portò al nazismo. Keynes nella Teoria generale dellimpiego, dellinteresse e della moneta del 1936, aveva proclamato la fine del laissez faire. Si poteva evitare il dilemma tra socialismo e capitalismo con una coraggiosa politica di interventi per incentivare i consumi. Mentre il metodo tradizionale, nel 1929, come oggi, consisteva nel ridurre i salari, o nel licenziamenti di massa, Keynes indicò unaltra strada: diminuzione del tasso di interesse, crediti a lungo termine, investimenti da parte dello stato. Il progetto di Keynes fu sostanzialmente applicato dal presidente Americano Roosevelt, col suo grandioso “New Deal”. Tutte queste risposte hanno in comune un solo denominatore: socialismo. E di socialismo fu accusato Roosevelt da Hoover, nel 1936, «di voler ridurre in ceppi gli uomini liberi». Oggi quali sono le risposte, se non il tentativo di cacciare la pestifera Grecia dallEuropa per non rischiare un inevitabile contagio. Ci vorrebbe un nuovo New Deal, una nuova NEP. Non il supercapitalismo, nè il sistema stacanovista cinese, che rappresenta il lato più becero del comunismo, che non è lo sfruttamento del lavoratore fino allesaurimento ed allalienazione totale. Non questo aveva predicato Marx nel suo Capitale. Or ora tagliare le risorse nel momento più critico per il popolo significa tagliare l’albero sociale, significa condannare questa società, le famiglie alla miseria e con la miseria l’economia non si riprenderà mai, né la produzione, né la vendita, né la trasformazione. Ci sarà una lunghissima depressione, o un’iperinflazione. Chi credete voi che comprerà le cose: forse il ricco? I ricchi tendono a tesaurizzare ed adorano i loro tesori. È la massa che da sempre rende pingue l’economia. Tagliando una parte del sociale inevitabilmente tutti ne saranno colpiti. Queste riforme, paragonate alla “guerra lampo”, al diktat dei vincitori, frutto di decreti economici più che di una vera e propria esigenza di razionalizzazione delle risorse, non risolvono i profondi problemi della vita italiana perché non partono dalla base. La ricchezza proviene dalla produzione e questa dal lavoro. Noi siamo passati dalle baby pensioni alle pensioni antiquarie. L’Italia è un paese di gerontocrati, che non danno spazio ai giovani, perché animati da un dissennato attivismo, debbono lavorare fino alla fossa, mentre la disoccupazione giovanile aumenta. Tutte queste riforme partono dai tavoli ministeriali di gerontocrati. Questo “Congresso di Vienna” indebolisce le prassi democratiche e parlamentari. Siamo in piena Restaurazione dell’Ancien Régime, senza il risentimento delle giovani e fresche energie che in questi anni si sono sviluppate, una generazione opaca ed inerte. Malgrado la larga distribuzione di potere d’acquisto sul mercato nazionale più sotto forma di redditi di professioni ausiliare della produzione che non sotto forma di salari industriali o agricoli, la sproporzione è crescente tra l’accumulazione capitalistica, anzi supercapitalistica e multinazionalistica, accresciuta dalla concentrazione finanziaria delle banche e la possibilità d’acquisto dei mercati nazionali. L’esperienza disastrosa della crisi attuale ha reso vegliardi tutti gli Stati sui sintomi continuamente rinnovati d’ingorgo dell’economia, di depressione, chiamata ormai recessione. Queste riforme, questi taglieggiamenti non risolveranno niente: il fondo del problema resta immutato. La crisi è elusa giorno per giorno, ma le sue basi rimangono, ed essa è soffocata solo a prezzo di una politica mondiale che si ripercuote sulle condizioni di sviluppo di tutti i paesi, industrializzati e non. La crisi è elusa con questi tagli alle risorse intellettuali, al capitale umano, oltre che finanziario. Il mondo post-industriale rischia di trasformarsi di getto in un’età della pietra, in un mondo pre-industriale, caratterizzato dal feudalesimo supercapitalistico globale. Si può perdere tutto, però, ma non i cervelli pensanti di questa era, gli unici a poter risollevare le sorti di questo mondo in crisi. La vecchia generazione, quella della “società senza padre”, come la definiscono gli psicologi, ci ha portato a questo paradossale sistema storico. D’altronde la vecchia generazione è vissuta senza padre, perché i padri sono morti in guerra, ma ci ha portato ad una “società senza figli”, una società sterile, nella quale neppure Freud redivivo ci avrebbe capito nulla. E d’altra parte Freud ci aveva avvisato nel Disagio della civiltà. Accanto all’homo homini deus, c’è l’hobbesiano homo homini lupus. Ma oltre al Thanatos «c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi, nella lotta con il suo avversario, altrettanto immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?». La lezione hobbesiana ci ha insegnato che l’uomo, quanto più si avvicina alla stato di natura e questo può avvenire anche in casi, come questo, di grave crisi economica e sociale, tanto più si affida ciecamente ai suoi capi assoluti e li adora e li segue, fino alla morte. Speriamo che nel mondo non torni a vigere il Fuhrerprinzip. La nuova generazione ha un immane fardello storico da sopportare, ma ha soprattutto un grande compito. Uscire dalla crisi significa inevitabilmente tornare alle origini: alla civiltà contadina che per secoli è durata. Prendiamo ad esempio solo due parole, due idealtipi, come li chiamava Weber, Cristianesimo e Socialismo. Il socialismo è un sistema più stabile del capitalismo, perché assicura almeno a tutti l’indispensabile per vivere, ma d’altronde il socialismo senza religione è cieco, è sordo ed è muto di fronte al prossimo. Il Cristianesimo è la religione dell’Amore e l’amore, unito al socialismo diventerà una forza invincibile per risolvere ogni crisi, perché, come il grande vate scrisse «Omnia vincit Amor». Nessuno naturalmente ha la bacchetta magica, o la panacea per curare tutti i mali. Questa potrebbe essere solo una sentiero. Lasciamo questo intervento con una bella riflessione di J. K. Galbraith, tratta da Il grande crollo, Torino 1972: «Un dio irato ha forse dotato il capitalismo di contraddizioni interne. Ma, se non altro, ripensandoci, è stato così benevolo da far andare sorprendentemente d’accordo riforme sociali e migliore funzionamento del sistema […]. Non è quello di dire se e quando le sventure del 1929 si ripeteranno. Una delle importanti lezioni di quell’anno deve essere ormai chiara: la sventura attende coloro che … pretendono ci conoscere per rivelazione il futuro».
Vincenzo Capodiferro

07 giugno 2012

Giustizia o vendetta? Prima parte


GIUSTIZIA O VENDETTA? - prima parte -
di Miriam Ballerini

L’articolo 27 della Costituzione italiana cita: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Al momento in cui sto scrivendo questo pezzo, cioè a giugno 2012, la popolazione carceraria italiana sta sfiorando i 70.000 detenuti, con un totale di posti che si aggira sui 44.000.
Il sovraffollamento è solo uno dei problemi delle carceri e dei suoi occupanti.
Nel 2006 ebbi modo di entrare in una casa circondariale, quella del Bassone di Como. Dove feci un’intervista all’allora direttrice dr.ssa Francesca Fabrizi; al capo degli educatori dr. Mauro Imperiale. Quindi alle guardie e a otto detenute.
Da questo lavoro ne nacque un romanzo d’invenzione, con a latere un lungo reportage di quanto effettivamente visto e vissuto.
Facendo molte presentazioni del libro in questione, ho avuto modo di mettermi a confronto con persone dalle molteplici reazioni; per poi comprendere che l’atteggiamento verso i detenuti e chi sbaglia, può essere suddiviso, essenzialmente, in tre posizioni:

  • Chi sbaglia non ha più alcun diritto. Non ne voglio sapere assolutamente nulla. Merita che gli sia data una punizione e gettata la chiave.
  • Di carcere non ne so nulla e vorrei capire.
  • Ho avuto modo di informarmi e ritengo vada data un’altra possibilità a chi sbaglia. O comunque, laddove questo non sia possibile, il detenuto venga trattato in modo civile, perché è e rimane un essere umano.
Premettendo che va mantenuto integro il doveroso rispetto che va alle vittime di tutti i crimini, prestiamo attenzione a chi subisce un sopruso, chiedendo a gran voce giustizia. Se andiamo a fondo del concetto di giustizia, vediamo che questa è volta, se tale deve essere, a rieducare chi sbaglia. A fargli comprendere il proprio errore e a disporlo su una strada diversa da quella fin’ora perseguita.
Mentre  chi pretende giustizia, ha di questa un concetto del tutto distorto, che è solo quello di punizione e di inibizione psicologica dell’altro che deve sparire. Deve passare la vita rinchiuso perché ha sbagliato e quindi deve soffrire per espiare.
A questo punto anche il sacrificio della vittima diventa vano. Ci troviamo di fronte a una persona che, ad esempio, è morta per nulla, se la sua dipartita non è servita nemmeno a recuperare un altro essere umano.
Dice Pietro Sansonetti, rispondendo alla lettera di un ragazzo che aveva perso la zia investita da un camion, su “Gli altri” uscito il 18 marzo 2010: “La verità però è che la “vendetta” è considerata da quasi tutta l’opinione pubblica come uno strumento essenziale per regolare il vivere civile. È considerata un risarcimento, un disincentivo, un elemento di giustizia. La giustizia non è pensata come qualcosa che aiuta chi ha ricevuto un torto, o chi è stato derubato, o chi viene tenuto a vivere in condizioni non dignitose. Quindi come qualcosa di positivo, un aiuto dello Stato al singolo, al debole. La giustizia viene vista come punizione. La punizione (cioè lo strumento della vendetta) diventa per noi l’elemento fondamentale della civiltà. Io invece credo che la punizione sia l’elemento fondamentale della inciviltà. Cioè sia esattamente ciò che fin qui ha limitato lo sviluppo della civiltà umana, ha frenato e incattivito le comunità. Voi non credete che sia così?”

...continua

05 giugno 2012

2 giugno: Renzo Talamona cavaliere della Repubblica


2 GIUGNO: RENZO TALAMONA CAVALIERE DELLA REPUBBLICA
Importante riconoscimento tra gli altri a Varese

Il 2 Giugno a Varese la festa della Repubblica ha conservato la stessa sobrietà e parcità che nel resto della nazione. Dopo un breve ed intenso esordio a Piazza della Repubblica con la parata di reviviscenza dell’inno mameliano, nelle stanze dello storico palazzo della settecentesca Villa Recalcati, sede della Prefettura, si è svolta una significativa cerimonia di premiazioni e di importanti riconoscimenti. Il saluto solenne del Prefetto Giorgio Zanzi, innanzi notevoli autorità civili e militari, tra le quali senatori e l’assessore regionale Raffaele Cattaneo, ed una folta folla di convenuti, ha aperto la pubblica funzione nella sala Ambrosoli, in quell’antico albergo, che la mitica Varese Liberty non si era lasciato sfuggire. E proprio quella Villa aveva ospitato per molto tempo in un cippo funerario il cuore dell’eroe di Polonia, Taddeo Kosciuszko (1746-1817), un cuore palpitante di patriottismo e di populismo. Tra gli altri medagliati all’onore il novantenne Fermo Formenti, deportato nel 1943 al lager nazista di Laufen. In questo suggestivo contesto che ha udito il toccante addio del questore Marcello Cardona, trasferito a Livorno, è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica il professore Renzo Talamona, insieme ad altri dodici cittadini benemeriti, trai quali Livio Ghiringhelli, altro nome illustre della provincia varesina, già docente alle scuole superiori, nonché preside del Liceo Scientifico e del Liceo Classico, storico e saggista. Quello del Talamona è stato un riconoscimento dovuto e sentito, almeno da quanti lo hanno conosciuto e lo hanno ammirato, per le sue notevoli doti umane e culturali. Renzo Talamona è nato nel 1944 a Varese, nello storico quartiere di Bizzozzero. Come egli stesso racconta, Varese, prima di essere stata unificata dal fascismo in un quadro architettonico neoclassico ed elevata a provincia dallo stesso Benito Mussolini, era un insieme di paesi, che sorgevano, come nell’antica Roma sui colli, e tra questi vi era l’ameno poggio di Bizzozzero. Ed egli lì ha vissuto per la maggior parte della sua vita, consacrata alla dura missione dell’insegnamento, assistendo alle sconvolgenti trasformazioni di quel posto, ancora conservando una bellezza intoccabile, subite nel corso di un mezzo secolo, che per la sua intensità di avvenimenti forse supera di gran lentissime ere. Solo dal 1988 al 2009 è stato docente di materie classiche, greco e latino, al memorabile Liceo Classico Cairoli di Varese, lasciando un segno indelebile di profonda cultura e di umanità ed aprendo un solco di ricerca e di amore per la sapienza. E d’altronde se si può ancor oggi parlare di umanità, ciò è dovuto proprio a quell’ancestrale embrione della cultura classica greca e latina. Oggi la cultura italica si sta attorcigliano fino a voler rompere quel cordone ombelicale che ci lega profondamente a quell’ideale bacino. Ma non sarà così facile: dovremmo cancellare il nome stesso di Umanesimo, gloria d’Italia. Renzo Talamona è un humanista, nel più alto senso del termine. Egli è un cultore, ma non solo, è un viveur degli ideali classici, che per secoli hanno animato intere generazioni di intellettuali. Renzo Talamona ha dato la vita per la ricerca, che è soprattutto ricerca intellettuale e morale, oltre che storica. I frutti dei suoi studi sulla storia di Varese e delle sue tradizioni, sulla storia dell’istituzione del Liceo Classico Cairoli, possiamo ravvisarli in numerosi suoi scritti, sparsi in libri e riviste. Uscirà una sua monumentale Storia di Bizzozzero e di Varese. Renzo Talamona per anni ha sondato le profondità degli archivi lombardi, soprattutto milanesi, memore della lezione muratoriana, che la storia la fanno i documenti ed i monumenti. Ma non è questa semplice storia che ci fa ricordare Talamona, perché egli è la storia, è il greco, è il latino. Se l’ideale di Socrate era «una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta», noi possiamo dire che egli ha incarnato pienamente questo progetto. Noi abbiamo conosciuto Talamona negli ultimi anni del suo ministero cairolino, eppure egli accogliendoci con quel catoniano amore paterno, sostenendoci nella drammatica esperienza cattedrante, ci ha lasciato un segno così forte che pare che lo avessimo conosciuto da anni ed anni. Quando esuli approdavamo, seppur per poco tempo, ed ai salici appendevamo le nostre cetre, nella più illustre scuola di Varese, vilipesi ma non affranti, ecco rinfrancarci col suo fare modesto, schivo, ma ricco di virtù, con quella delicatezza, quella pascaliana finezza. Renzo Talamona è stato per noi un luminoso faro, un pozzo smisurato al quale attingevamo il sapere. Anche dopo quella breve esperienza, è rimasta indelebile ed intatta una sincera amicizia, un profondo legame con lui, difensore della cultura classica contro le aberrazioni presenti, che vogliono sostituire l’inglese, un barbarico volgo, alla nostra lingua universale, attentando al grande filone letterario italiano che affonda le sue radici nell’Umanesimo e nel Rinascimento. Ed in un tempo in cui rischia di rompersi quella felice catena che ci riannoda al passato ed ai modelli classici, in cui la trionfante tecnologia offusca il nome stesso d’uomo, rischiando di farlo precipitare in un vero evo di oscurantismo e di barbarie, non in un Medioevo, che invece fu ricco di valori culturali e religiosi, ecco che Renzo Talamona rappresenta un continuatore ed un depositario vivente di quell’anello di congiunzione alla celeste tradizione che ci lega alle nostre salde radici. Un albero che viene tagliato alle radici non ha lunga vita. Così anche noi insegnanti insieme a tante generazioni di suoi allievi abbiamo riconosciuto la sua luminosità nella tenebra della cultura dei giorni nostri. Abbiamo in lui riconosciuto quella imponente gravitas. E quando negli ultimi tempi lo scorgevamo, immerso nei suoi studi e nelle sue inquietezze familiari, ci pareva come Parmenide, il «maestro venerando e terribile»! L’ideale classico dell’atarassia in Renzo si libra e si unisce con quello della cristiana virtus. Come possiamo dimenticare quella sua famelica passione quando ci recammo in Grecia classica con gli allievi? Ad ogni pietra si fermava, ad ogni lapidea scritta, per ore. Ed abbracciava quelle contuse colonne. E lì, sopra quel mitico ed antichissimo oracolo di Delfi si soffermò a meditare! «Conosci te stesso!» sapeva bene che la scientia sui è la scienza più difficile da studiare. Quegli stessi allievi poi, quando andò in pensione, regalarono al maestro una gita nei luoghi del cuore, nella sua amata Grecia. Ecco perché quello del 2 giugno rappresenta per il Talamona un importante coronamento, un traguardo felice, un significativo riconoscimento che Varese, la sua città, gli ha donato, con affetto e riconoscenza. E noi ci uniamo volentieri a questo unanime coro per ringraziarlo di tutto quello che ha fatto e che farà, ma soprattutto per quello che è.


Vincenzo Capodiferro

04 giugno 2012

La trama moderna di Pino Pascali

LA TRAMA MODERNA DI PINO PASCALIdi Antonio V. Gelormini

La creatività nelle sue suggestive declinazioni, in Puglia come
altrove, è elemento piuttosto diffuso, quotidianamente coltivato con
spontaneo sforzo di sopravvivenza.
Spesso trasportato dal vento, cullato dalla danza leggera delle api,
delle rondini e dei falchi pellegrini, accarezzato dai crepuscoli e
travolto dai mezzogiorni accecanti; rassicurato dal frinire delle
notti d'estate o esaltato da quello "ozioso" delle ore più calde.
Ma anche custodito nel guscio di un paguro, nelle sforzo dinamico di
un granchio o da quello più cadenzato di una tartaruga, entrambi
richiamati dai riflessi sciabordanti di un mare più saporito, ricco di
storia, di storie e di poesia.
È il filo d'Arianna di un'espressione artistica comune, che si fa
sintesi nell'attività incessante di quel piccolo ragno che con le sue
braccia tesse e ritesse una trama raffinata, affascinante, vitale e
nel contempo "ingannatrice". O è il possente colpo di coda di un
cetaceo, che riesce a dare propulsione al principio rigenerante di una
madre declinata al maschile: il mare. Sulle cui sponde mediterranee, a
Polignano a Mare, oggi vede rinascere un luogo di morte, un antico
mattatoio, trasformato in moderna e vitale conchiglia di arte
contemporanea.
Nel segno, nel ricordo e finalmente nell'orgoglio condiviso per Pino
Pascali, nasce in Puglia il primo Museo di Arte Contemporanea.
Nasce
in riva al mare, dando spazio e visibilità per primi ad altri artisti,
mossi dalla medesima vena creativa, e nasce sotto lo stesso cielo di
Mr. Volare, un altro grande cantore dell'innovazione e della libertà
creativa senza tempo: Domenico Modugno.
"La collezione Pascali arriverà nel nuovo museo a Settembre", dice ad
Affaritaliani Rosalba Branà, Direttrice del Museo della Fondazione
Pino Pascali e artefice tenace della realizzazione di un sogno ora
realtà, "inauguriamo questo spazio con la mostra di altri artisti, per
dire che questa sarà la casa non solo di Pino Pascali, ma l'approdo di
incessanti ricerche e di rinnovate proposte artistiche senza confini e
senza censure".
Una testimonianza di bellezza che, insieme all'Assessore alla Cultura,
Turismo e Mediterraneo, Silvia Godelli, anche il Presidente della
Regione, Nichi Vendola, ha voluto stigmatizzare: "Nella corda di
violino, Pino Pascali, tesa tra tra e cielo, tra passato e futuro. Un
artista meraviglioso e un giovane straordinario, a cui il miglior modo
per esprimere la nostra gratitudine sarà continuare a scommettere su
quelli come lui".

(
gelormini@affaritaliani.it)

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...