19 dicembre 2014

FUTURISTI E VERSI MALTUSIANI di marcello de santis

FUTURISTI E VERSI MALTUSIANI
di
marcello de santis


Nei primi anni del novecento, scese in Italia dalla Francia  Filippo Tommaso Marinetti, che venne a portare e a propagandare il Futurismo, che poi si allargò a macchia d'olio fino a giungere anche nella lontana Russia, (Majakovski e altri).


Filippo Tommaso Marinetti

Tra le tante novità pazze e innovative in poesia che portò la nuova visione della letteratura, introdotte, grazie all'intento - sbandierato in serate futuriste in varie città d'Italia - di distruggere la letteratura tradizionale ormai vecchia e decrepita, venne di moda anche scrivere dei versi (quartine in ottonari, per lo più) con l'ultima parola tronca. 
Il 5 febbraio 1909 dunque, Marinetti, scrisse il testo del Manifesto del Futurismo; e lo pubblicò a Parigi nell'anno 1909, il 20 di febbraio. su Le Figaro.


la prima pagina di Le Figaro
che riportava il Manifesto del Partito Futurista

Idee innovative che cominciavano con il primo articolo

1- Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo,
    l'abitudine all'energia e alla temerità.


e finiva con l'undicesimo ed ultimo

11-  Noi canteremo le locomotive dall'ampio petto,
       il volo scivolante degli areoplani.
      E' dall'Italia che lanciamo questo manifesto di violenza
      travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il Futurismo


Ne accolse le idee e ne fece ampia propaganda la rivista Lacerba, che nacque a Fi-renze nel 1913 per opera di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, coadiuvati dal grande Aldo Palazzeschi. La rivista, che usciva ogni quindici giorni, divenne in questo modo la culla del Futurismo Italiano.
E' qui che nascono i primi versi maltusiani, nei quali pian piano non ci fu poeta e o scrittore che non si cimentasse.

Presero il nome di "maltusiani" derivando il vocabolo da Thomas Robert Malthus, un economista inglese poco conosciuto da noi, che nelle sue teorie sosteneva come necessaria la limitazione delle nascite, ma coll'astinenza sessuale.
All'epoca a questo fine era in voga il coitus interruptus, il più diffuso e conosciuto sistema anticoncezionale.
Le poesie di cui stiamo parlando nacquero spontaneamente derivando la non completezza dell'ultima parola dell'ultimo verso proprio da quel metodo.
E come l'uomo non conclude il rapporto sessuale tirandosi indietro al momento dell'orgasmo finale allo stesso modo il poeta non conclude la poesia interrompendosi l'ultima parola.
La struttura è semplicissima: siamo di fronte a una quartina (cui ne segue un'altra) che sempre inizia con un nome, seguito da ... "è quella cosa", per spiegare poi nei tre versi rimanenti cos'è appunto quella cosa.
I due versi centrali, il secondo e il terzo, fanno rima tra di loro; il quarto ed ultimo finisce con una parola tronca; e quando questa non è una tronca è una parola accentata (blu, più, su, giù, ecc...).
Facendo degli esempi vedremo poi anche i temi delle quartine, che sono quasi sempre ironici, grotteschi, o riferiti a personaggi - politici e non  - per prenderli in giro. E siccome fu il signor Malthus a propugnare l'interruzione del rapporto sessuale quando i partner erano giunti sul più bello, (per evitare una fecondazione indesiderata), vogliamo darvi un esempio di maltusiano in una delle tante quartine, in cui si definisce il verso che da lui prende il nome (e guarda caso proprio definendo il rapporto suddetto e l'organo relativo: il pungetto - pungolo; latino: stimulus):
Maltusiano è quella cosa
ch'ogni cosa agguanta e inguanta,
il pungetto bene impianta
ma si ferma sul più bel
.
  (da: Almanacco Purgativo, 1914)
E' giusto far risalire questa moda di poetare al sistema del coitus interruptus del dr Malthus; però non bisogna trascurare un  fatto altrettanto importante: circa cento anni prima, si era nel 1834, un certo Ferdinando Ingarrica, che era un giudice del regno borbonico alla Gran Corte Criminale del Palazzo di Giustizia di Salerno, fece stampare a Napoli un bel pacchetto di anacreontiche in un libretto dal titolo: "Opuscolo che contiene la raccolta di cento anacreontiche su di talune scienze, belle arti, virtù, vizj, e diversi altri soggetti, composto per solo uso de' giovanetti".
Oltre che redigere testi di condanna per delinquenti destinati alla forca o ad altre pene, il giudice dunque era amante della poesia; in particolare di brevi poemetti didattici che facevano divertire il lettore per gli argomenti trattati; e che ebbero un gran successo in tutta Napoli.
Erano chiamati, questi versi, anacreontiche, dal nome del poeta greco Anacreonte, appunto, ed erano in voga già dalla metà del secolo XVIII; il divertimento, oltre che dall'argomento trattato, veniva anche dal modo in cui esso veniva esposto in poesia.


Busto di Anacreonte (da originale greco, metà del V sec. a. C. circa)
poeta greco 570 a.C. circa - 485 a.C
 A lui si deve la poeia" che porta il suo nome,
un genere  che caratterizzò il XVIII secolo in Europa.

Sentite come  il giudice descrive la Religione:

Religione tu a noi insegni
Come adorasi il Gran Dio;
Ah potessi ognora io
Colla faccia in terra star!

Chi seconda i tuoi precetti
Rasserena mente e core,
Vive ben; né mai timore
Della Morte debbe aver
Dal nome del suo autore queste brevi poesie a un certo punto vengono chiamate "Ingarrichiane". Come possiamo vedere dall'esempio appena fatto si tratta di brevi composizioni in versi ottonari, che destano una certa comicità; già queste presentano l'ultimo verso sincopato, tagliato, troncato.
Il libro si diffuse rapidamente per tutta Napoli e destò interesse e riprovazione allo stesso tempo, e commenti e pareri non sempre positivi; anzi ce ne furono di duri e durissimi; ciò nonostante tantissime furono le poesie scritte da autori che preferivano non firmarsi, per sottrarsi appunto agli eventuali biasimi.



Mi è facile pensare che stante gli argomenti a volte scabrosi e più spesso trattanti temi politici o sociali, per mettere più o meno alla berlina questo o quel personaggio, versi per natura sarcastici - mordaci, per usare un termine del tempo - mi piace pensare dicevo che venissero declamati anche da attori comici sui palcoscenici dei cafè chantant.
Insomma la cosa fece scalpore anzichenò; alcune case editrici minori ci misero su il carico da undici, come si dice: si appropriarono del fenomeno culturale e del libro fecero copie non autorizzate. Ciò che causò la disapprovazione della Corte che si sentì oltraggiata, tanto che i famigliari del giudice per ovviare in qualche modo al diffondersi della pubblicazione tentarono di ritirare dalla circolazione più copie possibile dell'Opuscolo.

Leggiamo un'altra composizione

"L'ubriaco"

L'Ubriaco è l'uom schifoso
Che avvilisce la natura;
Tutto dì la sepoltura
Per Lui aperta se ne sta.

Il far' uso del liquore
Con dovuta temperanza
L'Estro sveglia, e con possanza
Spinge l'Uomo a poetar.


Ma la cosa non si arrestò; il fenomeno si sparse per tutto il Regno di Napoli, e molte persone le imparavano a memoria per declamarle ad ogni occasione. E non solo le anacreontiche del giudice ma anche quelle apocrife che venivano ugualmente stampate; erano talmente ben fatte da parere farina del sacco dell'Ingarrica.
Come tutte le cose passeggere anche l'Ingarrica con i suoi versi matti venne dimenticato; anche se negli anni futuri talvolta veniva ricordato per il fatto di non avere scritto solo scemenze, ma "di aver detto verità sacrosante in forma sciocca".

Ma ritorniamo ai versi maltusiani che la rivista Lacerba, diffuse, come detto, visto che a cimentarsi col metodo furono moltissimi autori e sostenitori e rappresentanti del Futurismo.



Lacerba, nata come detto nel 1913, ebbe breve durata, ché già nel 1915 terminò le pubblicazioni. I suoi rappresentanti, i futuristi, e i suoi direttori, Papini e Soffici, erano soliti trovarsi al Caffè delle Giubbe Rosse, a Firenze, (insieme agli altri letterati che non condividevano le idee rivoluzionario del Futurismo), per declamare le loro opere e/o scambiarsi opinioni e/o preparare gli articoli da pubblicare e le serate da fare nei vari teatri della penisola. Non mancò per l'occasione una quartina sul famoso ritrovo per i letterati fiorentini, dove i futuristi erano i casinisti per eccellenza con le loro costanti escandescenze naturali:

Giubbe Rosse è quella cosa
che ci vanno i futuristi
se discuton non c'è cristi
non puoi più giocare a dam


Su Lacerba appaiono i primi versi maltusiani, che scrissero sia Giovanni Papini che Ardengo Soffici.
Questi, nella rubrica che teneva sulla rivista, proprio nel 1913 pubblicò per primo alcune poesie di Luciano Folgore.
Ecco una sua quartina che a qualcuno apparve blasfema.
Padreterno è quella cosa
Che ti veglia giorno e notte
Ma che poi se ne strafotte
Delle tue calamità.
 (Luciano Folgore, 1913)

A questa ne seguirono altre; anche dei due direttori, che si decisero ad affrontare il fenomeno di petto; e fu proprio la rivista stessa a editare un Almanacco Purgativo con versi maltusiani. Fu scritto in occasione dell'esposizione di pittura futurista che si tenne a Firenze dal novembre 1913 al gennaio 1914.
Costava cinquanta centesimi.

Sono andato a cercare un'antica mia copia dell'Almanacco, scartabellando tra i libri ben ordinati nelle varie scansie della mia libreria, lassù in alto, dove tengo i libri antichi e rari, ormai introvabili - gran parte sono opere degli autori di quell'ultimo quindicennio dell'ottocento e dei primi quindici anni del novecento; e alfine l'ho trovato.
Leggo nella prima di copertina: ... è uno di quei rari documenti che possono resti-tuire intatto il gusto, il sapore di un'epoca...
Una pubblicazione scapigliata e burlesca, come la definisce Soffici, l'Almanacco è quindi il canto del cigno non solo di un gruppo d'avanguardia, ma di un'intera dimensione  di vita che sarà di lì a poco sconvolta dalla guerra e mai più ricostituita.


eccolo il mio prezioso volumetto
acquistato nei miai anni belli della giovinezza.

L'ho riletto volentieri, ci sono voluti pochi minuti; e vi ho ritrovato ciò che avevo letto in gioventù: di tutto e di più; ma quello che a noi qui interessa sono le prime 60 pagine (il volumetto ne ha appena 150), in cui al centro di ogni pagina c'è stampigliato a grossi numeri e lettere il calendario di tutti i mesi, nella parte alta ci sono detti o frasi celebri di autori classici italiani e stranieri (Machiavelli, Leopardi, Balzac, Strindberg, Pascal, etcc.) e in basso due per pagina affiancati maltusiani domenicali.

Ne riporto qualcuno;

     nel mese di marzo

mezzogiorno è quella cosa
per cui sparasi il cannone,
tutti vanno a colazione
rimettendo l'oriol


     nel mese di giugno

cimitero è quella cosa
dove stanno solo i morti
non si sono ancora accorti
che i lor cari stanno altrov


     nel mese di ottobre

moralista è quella cosa
che del fico vuol la foglia
ma se poi gli vien la voglia
vuole il frutto al femminil
L'ultima quartina maltusiana, che chiude questa breve raccolta in cui si sbeffeg-gia più di uno dei personaggio in voga allora, da Papini a Carrà a Prezzolini a Soffici, da Pratella a Russolo a D'annunzio, è nella pagina del mese di dicembre, ed è de-dicata al libro; eccola

almanacco è quella cosa
che si fa una volta all'anno
gli anni vengon gli anni vanno
ma ti resta l'almanacc

Ho chiuso con nostalgia questo volumetto che sa di antico, e che per un quarto d'ora mi ha riportato malinconicamente indietro negli anni, alla mia trentina, dico, quando ho cominciato a studiare a fondo quel periodo d'oro della nostra letteratura, compreso il bistrattato Futurismo entrando in quel mondo sulla scia del grande poeta di Marradi, Dino Campana, coi suoi inimitabili e immortali Canti Orfici. Che ho a-mato come nessun'altra opera letteraria,

Ma bando alla melanconia, per dirla con un termine obsoleto o quasi, e torniamo a noi.
Uno degli autori futuristi che scrisse maltusiani più degli altri è Luciano Folgore


Luciano Folgore  Roma 1888-1966
pseudonimo dello scrittore Omero Vecchi
futurista, tra le sue opere Il canto dei motori
con la quale esordì nel 1912
ma si ricorda soprattutto per la sua vena satirica
e per i suoi versi estrosi ed estemporanei
e per i componimenti in quartine malusiane

Molte delle quartine più sopra pubblicate sono le sue, ma qui ne vogliamo riportare un'altra molto bella e a doppio senso nemmeno troppo celato

l'obelisco è quella cosa
che si drizza sulle piazze
ne van matte le ragazze
perché duro e volto in su


Non mancarono, come già ai tempi del giudice di Salerno, Ferdinando Ingarrica anche poeti da strapazzo, poeti dilettanti e non, che ne scrissero, e anche di belli; eccone uno di un anonimo molto simpatico:

La saliera è quella cosa
che ha la forma di un occhiale;
da una parte ci sta il sale
e dall’altra ci sta il pep
.


Ettore Petrolini, Roma 1884-1936
(in un fotomontaggio eseguito negli anni 20)
L'attore romano partecipava spesso alle famose serate futuriste
quando queste venivano organizzate nella capitale.

Attore comico e drammaturgo e sceneggiatore; ma fu anche poeta e scrittore delle sue gag di avanspettacolo, e non mancò di scrivere versi maltusiani alla stregua dei futuristi. Ne scrisse molti nel suo Manuale dello chauffeur; mentre altri ne contiene l'altra sua opera Ti è piaciato?, in numero di ventisette, per l'esattezza; descrive tra i molti, ad es., la lingua l'amore il farmacista il cagnolino.
Leggete questo sulla moglie: una chicchera:

È la moglie quella cosa
che per lusso e per vestito
spende il doppio del marito
e si chiama la metà.


Ce n'è uno nel quale si autodefinisce:

Petrolini è quella cosa
che ti burla in ton garbato,
poi ti dice: ti à piaciato?
se ti offendi se ne freg

Ai giorni d'oggi la rivista Golem, quando era diretta da Stefano Battezzaghi (come ci informa Pier Paolo Rinaldi), ha riproposto diversi maltusiani parlando appunto di Ingarrica e dei Futuristi.
Versi maltusiani che si sono adeguati ai tempi moderni prendendo di mira perso-naggi attuali; e poteva mancare dunque il cavaliere per eccellenza?
Eccone uno il cui autore è l'autore de Il nome della Rosa.

Berlusconi è quella cosa
che ci dà TV ogni sera
poi per non patir galera
organizza Forzital
.
  (Umberto Eco)

Bene amici che mi leggete: ho detto tutto o quasi sull'argomento. Forse mi resta ancora una cosa, eccola.
Riporto le parole di una celebre canzone del 1918, Come pioveva, il cui autore è il celebre Michele Testa, in arte Armando Gill (Napoli 1877-1945) che ne scrisse anche la musica.
E come questa se ne contano a centinaia, a partire dagli anni cinquanta in avanti, Che cosa sono quelle parole tronche a fine quartina, se non residui o reminiscenze delle famose ingarrichiane o maltusiane?

C'eravamo tanto amati
per un anno e forse più,
c'eravamo poi lasciati
non ricordo come fu.

Ma una sera c'incontrammo
per fatal combinazion,
perchè insieme riparammo,
per la pioggia, in un porton.

Elegante nel suo velo,
con un bianco cappellin,
dolci gli occhi suoi di cielo,
sempre mesto il suo visin.


                        marcello de santis

15 dicembre 2014

Paratissima 2014 di Marco Salvario - seconda e ultima parte


 PARATISSIMA 2014 - SECONDA PARTE



Albino Caramazza

Un dolce piacere ritrovare e “assaporare” le opere di Albino Caramazza realizzate con collage di bustine di zucchero: miracoli di pazienza e abilità, d’intuizione e capacità di scomposizione e ricomposizione. Un artista sessantenne che sa offrire una produzione briosa e sapiente, affrontando e vincendo la sfida apparentemente impossibile di tradurre, con un materiale apparentemente limitante e inadatto, opere come il “Cristo morto” del Mantegna senza cadere né nella caricatura né nella pura riproduzione.



Maria Ritorto

Quest’artista, presente fedelmente a molte delle edizioni di Paratissima con un ben curato spazio espositivo, dimostra la capacità di affrontare e vincere sfide con materiali ostili e scorbutici.
Le sue opere si caratterizzano per l’agile verticalismo, per l’elastica armonia, per l’elegante fluidità: sono di legno (radice di erica, albicocco) e sembrano di fuoco e di vento.
Ogni anno, tra le migliaia di opere esposte, le creazioni della professoressa Maria Ritorto si fanno riconoscere come creazioni uniche e fortemente personali, tutte originali e diverse, tutte profondamente intrise di un marchio personale unico.
Rimando a quanto già detto negli articoli degli anni passati, confermando la mia stima e la mia ammirazione.



Lele De Bonis

“Freedom” è una nuova installazione di Lele De Bonis e colpisce per vitalità e slancio. Tra le migliaia di opere esposte a questa edizione di Paratissima, è una delle poche aperte a un messaggio scanzonato di gioia ed entusiasmo, una liberazione carnale e animalesca dai vincoli della società, un ritorno a certi aspetti sociali degli anni sessanta. Uno slancio fanciullesco, puro, una riscoperta dell’istinto, della libertà: “Freedom”, appunto.
Volendo fare un confronto con la precedente produzione dell’artista, viene da immaginare che le sue creature metalliche abbiano rotto il pesante lucido guscio/armatura e che sia eruttata fuori un’anima pura, scatenata, decisa a recuperare il tempo perduto. La corsa verso la libertà di questi corpi nudi ed evasi, diventa per lo spettatore un messaggio violento e assoluto, con il quale non si può mediare. Libertà è libertà e, chi non si sposta o non si adegua, è lasciato indietro e viene travolto. La vera libertà dovrebbe finire dove inizia la libertà altrui, ma lo slancio assoluto non ha limiti e rischia di diventare prevaricazione.
Mediazione tra il presente e il passato di Lele De Bonis è l’altra opera esposta, “Waiting man”, anch’essa capace di generare emozioni e di farci meditare sulla nostra natura di uomini, creature così complicate e al tempo stesso così semplici nei rapporti con il mondo che ci circonda.
Un uomo, il suo cane, l’attesa.


Nancy Caprioli

Grande suggestione trasmettono i netti segni neri su sfondo bianco di Nancy Caprioli nelle tre opere di acrilico su tele presentate. Ricerche curate, sorprendenti, ipnotiche, quadri che definirei “da meditazione”, tratti sicuri che si sviluppano in geometrie precise e asimmetrie e che, come frattali, generano sempre nuove immagini. Una trama che, distendendosi, echeggia una musica in cui ritmi, armonie e arie secondarie, affiancano e accompagnano i motivi principali. Un paradosso di forme che tendono all’infinito eppure non perdono la loro stretta appartenenza al nucleo centrale. Lavori di un creativo tecnicismo che si possono osservare per ore senza stancarsi, senza riuscire a padroneggiarne completamente lo sviluppo.



Guido Roggeri - “Guro”

Scultore e ceramista, interpreta con intelligente modernità forme e motivi classici. Leggo che l’approccio alla materia di Guido Roggeri è basato su tecniche antiche, ad esempio, etrusche o giapponesi.
A Paratissima mi ha fortemente colpito la terracotta “Il Centauro”, opera viva e plastica: sembra di udire echeggiare il grido feroce, rabbioso, che la creatura metà uomo e metà bestia sta lanciando. Peccato che l’opera non avesse un’area intorno per permettere al pubblico una visione agevole sotto ogni prospettiva, ma gli spazi erano quelli che erano e a essi artisti e i visitatori hanno dovuto adattarsi.
Da segnalare anche altre opere esposte da Guido Ruggeri: “Explorer” e “I cinque elementi”, presentati non in lastre separate come nel progetto iniziale, ma in un’efficace struttura cubica.



Alessandro Ghezzi

Un’analisi attenta la merita Alessandro Ghezzi, artista che, in questa epoca di geni auto referenziati, ha la modestia e l’onesta di definirsi, con semplicità, un appassionato di disegno e di pittura ad acquerello. Non si sminuisca: sarà un dilettante, ma ha tanto talento e occhi da artista di rango. La capacità di creare scene, di suggerire quanto non è dettagliato, rende le sue opere, e in particolare penso al semplice e suggestivo acquerello su cartoncino “Nella tempesta di neve”, lavori ottimi e convincenti.



Alessia Chirico

Fotografa, pittrice e scultrice: personalità irrequieta e a tutto tondo Alessia Chirico!
Già nella pittura tenta e prova, con risultati alterni ma di buona media e con punte ragguardevoli, tecniche molteplici: grafite, acquarello, china, tempera, matita sanguigna, china, olio, acrilico e persino fusaggine.
A Paratissima 2014 ha esposto interessanti sculture, sempre in una commistione di materiali che affascina e disorienta al tempo stesso. La faccia di bronzo, “faccia di bronzo” in senso letterale e senza riferimenti a politici, che scaturisce dalla corteccia del legno nell’opera “Metamorfosi”, è esempio di abilità tecnica e creatività. L’opera esposta più rappresentativa della scultrice è, però, “L’altra metà dell’anima”, dove donna e pianta, femminilità e natura, chiaro e scuro, apparenza ed essenza, essere e divenire, si scontrano e si uniscono in un connubio forzato e traumatico.



Silvia Perrone

Nei volti di donna ritratti da quest’artista, si esalta la capacità di sapere ispirare semplicità e immediatezza con quella che è, invece, una ricerca profonda di armonia ed espressività. Tocchi violenti di colore, anomalie nei tratti che distraggono e confondono nell’interpretazione.
Nell’opera “Red”, un’ombra bianca, forse l’ampia tesa di un cappello, copre a metà la sorpresa di un giovane volto femminile dallo sguardo stupito e dalle labbra schiuse di un rosso vivo come le unghie verniciate nello stesso colore. Sensualità indifesa o maliziosa? Una donna preda o cacciatrice?



Alessandro Sevà

Impossibile restare indifferenti davanti alle due opere urlanti dalla tela, prigioniere ma non dome, del “Titano imprigionato” e del “Prometeo incatenato”. Strazio e rabbia, promessa di rivincita, maledizione e sfida lanciata senza timore agli dei. Bocche aperte in un grido che nessuna minaccia può fare tacere e che mai si muterà in preghiera, occhi che dardeggiano odio, la rabbia di chi è stato sconfitto e che non si riconosce vinto.
In questa interminabile crisi che sta prostrando e negando la libertà e il futuro a troppi giovani e non solo ai giovani, nel non arrendersi dei personaggi di Alessandro Sevà si cela un forte messaggio e un’esortazione a credere in se stessi, a pretendere che la propria vita sia restituita, a non rassegnarsi.


Da non dimenticare!

Gianni Lopez e il suo “Personal Jesus”. Un Cristo in cemento armato e terracotta che sembra deciso a schiodarsi e a scendere dalla croce. Ha ragione: farsi crocifiggere non è servito a molto.
Pietro Antonucci e le sue classicheggianti nature morte che interpretano il passato con occhio moderno.
Le fantastiche creazioni di Paola Cabutti, personaggi complessi ed enigmatici.
La pittura a olio di Fiorella Gelain, capace di dare alle immagini una vibrazione che porta dalla realtà al ricordo.

I lavori a china del siciliano Fabio Crupi, grande evocatore che calamita lo sguardo dello spettatore e lo lascia libero di correre seguendo le proprie intuizioni verso strade infinite.
I nudi intrappolati della brava Giuli, “Le tre invocazioni” di Antonio Crisà e le immagini femminili di Marcella Savino: corpi di donne interpretati e colti dalle diverse tecniche e sensibilità di ogni autore.

Sempre da seguire la torinese Isotta Cuccodoro, con opere che si evolvono un percorso di ricerca ed estasi.
Gli oli su tela inscatolati (liberatelo!) di Flavio Ullucci, divertenti e angoscianti.
Le aggressive e interessanti opere in olio e acrilico di Diego Pomarico.

Le sculture da viaggio di Dario Ghibaudo dalla grande eleganza.
Le opere in legno di Francesco Sciacca.
Italo Cammarata con i volti in vaso di “Beautiful mind etrusca”.

Ancora olio su tela per i quadri di Chiapusio Carla e acrilico su tela per Mara Destefanis.
Ottima la scultura “Cerca nella borsa”, cui sarebbe dovuta essere riservata un’illuminazione migliore, della venticinquenne Francesca Malvaso.

Per chiudere, da ammirare “Fenomenologia Di un’Opera D’Arte" di Matteo Ferreri. Un grande olio su tela, irruente e sincero, che potrebbe essere il manifesto di una nuova scuola. Ci si può chiamare Matteo e creare qualcosa che vada oltre le parole e la vuota retorica.

A tutti, arrivederci a Paratissima 2015!

Marco Salvario

ADDIO MANGO. CI MANCHI! di Vincenzo Capodiferro



ADDIO MANGO. CI MANCHI!

È venuto a mancare improvvisamente il nostro Mango: una voce che grida ne deserto. Mango è nome di frutti esotici. E quanto di esotico vi è nella sua musica, nelle sue parole, dolci e penetranti. Lagonegro piange il suo eroe. Era cresciuto in questa terra, figlio delle soglie del Tirreno Mare. È stata un crocevia di culture diverse e albori diversi. Dal Monte di Sirino al mare, al seno di Maratea, fino al Golfo di Sapri, quella fatidica Sapri, ove la spigolatrice guardava i suoi trecento eroi morire, guidati da Pisacane, come Leonida, declina una costa irregolare ed ispida. Dal Fortino era passato Garibaldi. Garibaldi riuscì nella sua impresa dei Mille, ma Pisacane no: non ebbe l’appoggio degli inglesi. Anche Leonida, con Trecento spartani si sacrifica per salvare la Grecia. Dei morti alle Termopili gloriosa è la memoria e la tomba un’ara. Ma gli eroi di Pisacane non hanno un’ara, sono stati trucidati. Il loro sangue è schizzato sulle bionde messi di quella Messenia. In questa breve fascia hanno avuto luce i popoli Sirini: dalla Siritide risalirono la china. La storia antica racconta che venendo dall’Asia portarono i Libri Sacri della dea Siri. Forse quei libri sono quelli che noi oggi ammiriamo come i poemi omerici. Da questa omerica terra, tanto impervia ed aspra, è potuta nascere questa gemma. De Andrè canta: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. Da questo sud del sud, dal cuore del mondo provengono Mango e Papaleo. La sua musica risuonerà per sempre, ma non lo vedremo più! Mango aveva 60 anni. La morte improvvisa l’ha portato via su di un palco a Policoro, l’antica terra di Berlangieri, della Foresta impenetrabile e inaudita.  Tutti sono rimasti col fiato mozzo. Manzoni potrebbe dire: così percossa attonita, la terra al nunzio sta. I lirici antichi cantavano: muore giovane colui che al cielo è caro. Mango è poeta e vate, il suo canto è poesia, dolce melodia che affascina gli auri. Ora al cielo canta, tra angioli cantori. I cori degli angeli accolgono questa voce unica al mondo. E Mango muore mentre canta “Oro”. Quel dio malvagio e biondo, l’Oro, ce l’ha strappato via! Mammona è venuto di nascosto, e repente l’ha portato via. Per invidia l’ha portato via.  Per il dolore il fratello è morto. Grida la terra il dolore, il dolore della mancanza. Mango ci manchi, ma non ci mancherà la tua voce, che risuonerà per sempre. Dai nostri cuori, dalle nostre menti, il pensiero va a Monna Lisa, la Dama misteriosa, sepolta in Lagonegro. Le tue canzoni ci raccontano la sua storia. Noi non dimentichiamo quando la nostra nonna Maria era ricoverata all’Ospedale di Lagonegro tanti anni fa. Il suo letto era vicino a quello di tua Madre. E tu venisti a trovarla. E le dicesti con la tua voce stridente e dolcissima: non dire che sei la madre di Mango! Quale grande esempio di umiltà è rimasto impresso nei nostri cuori. E come potevi impedire ad un cuore di madre di elogiare i propri figli? È impossibile! Così fan tutte le mamme. La tua lapide si ergerà nei Sepolcri, accanto alle tombe di Spiride Savini, la santa di Lagonegro e di Monna Lisa, la dama misteriosa che fece impazzire Leonardo. E noi tutti, Lucani sparsi nella faccia della terra, ai salici di Babilonia abbiamo appeso le nostre cetre. E come potevamo noi cantare i nostri canti in terra straniera? Ma quando sentiamo Mango ci sentiamo a casa! Noi siamo nati a Lagonegro. Quando vediamo Papaleo, vediamo uno di noi. Questi sono i nostri eroi. Un popolo senza i suoi eroi è morto. È morto Mango, è morta una parte di noi.

Vincenzo Capodiferro

TOMMASO BIFOLCO, SCRITTORE E POETA di Vincenzo Capodiferro


TOMMASO BIFOLCO, SCRITTORE E POETA

Penna promettente, ironica e maestosa


Tommaso Bifolco è nato a Potenza nel 1992. Frequenta la Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università della città locale. Ha già pubblicato “Il silenzio della Tempesta”, una raccolta di poesie, nel 2012, e “Polvere di Farfalle”, una raccolta di aforismi nel 2013. Sta lavorando ad altre raccolte ed ad un romanzo. È stato inserito in diverse antologie, tra cui “Impronte” nel 2013 e “Poeti contemporanei” nel 2014. Come dice egli stesso «Il poeta è un fiore appassito, ma pur sempre un fiore». E la poesia diviene «dolce luce soffusa, che nel silenzio abbaglia il sole» (p.1). la poesia stessa è illuminazione originaria. Ci viene in mente Ungaretti, col suo: M’illumino d’immenso. La poesia è una luce che rifulge nelle tenebre, ma la luce deve risplendere dentro di noi e non fuori di noi. La lanterna dell’anima è l’occhio, se l’occhio è buono vede bene, se non è buono vedrà torbido. «Un povero poeta, strano, solitario, a volte,/ seduto in un angolo tremante piange./ Un poeta, sofferente dei suoi sbagli,/ non chiede senso, ma consuma ogni sua lacrima». A volte la poesia deriva dal dolore, ma la fonte stessa della poesia è l’amore, poiché dolore è mancanza d’amore, perciò diciamo anche che amore è dolore. L’arte è sempre, come sosteneva Croce, espressione di un sentimento: d’altronde non tutti i sentimenti sono esprimibili, poiché tra essere e pensiero, come diceva Derrida, vi è sempre una différence. Heidegger pensava che il linguaggio è la dimora entis. L’amore e il dolore sono come il Sole e la Luna che animano il cielo poetico sotto cui si dipana il giovane Tommaso, un giovane promettente. Un suo aforisma recita: «Vorrei gustare il sapore del veleno, ma preferisco l’angoscia, pur essendo lenta e costante, mantiene in vita». I re antichi, per non morire avvelenati, assumevano a piccole dosi veleno in modo da divenire assuefatti. L’angoscia è, così, un veleno mortale che viene assunto ogni giorno. La vita stessa è angoscia, lo diceva Kierkegaard. L’angoscia è la situazione in cui si svolge il dramma dell’umana esistenza, perché l’uomo vive solo dell’istante, perciò è astrazione dell’eterno, questo è il peccato originale. E Schopenhauer anche: tutto è dolore e noia. Dei sette giorni della settimana sei sono dolore e il settimo è noia. E Leopardi scrive il “Sabato del villaggio”.  Il sabato del villaggio ci richiama il Shabat della creazione, quando Dio ha compiuto il suo lavoro, e si è riposato, esclamando: è cosa buona e giusta! In Tommaso scorgiamo questo pessimismo velato: piacer, figlio di affanno,  verseggia Leopardi. Ma c’è anche una forte ironia. L’ironia è dominatrice nell’altra sua opera “Polvere di Farfalle”, ove gli aforismi, che ricordano sempre Schopenhauer, sono accompagnati dalla potenza viva di immagini. Bellissima idea! Vi sono sempre due canali comunicativi: quello discorsivo, che è mediato, e quello iconico che è immediato. Gli aforismi sono pensieri condensati. C’è uno svolgimento di pensiero in questo libro molto interessante e notevole. Lo possiamo consigliare usando le parole stesse di un suo aforisma: «Non c’è niente di meglio che immergersi nelle parole di un libro, nell’odore di carta che ti accarezza le narici per demolire ogni tua sofferenza, ogni pensiero, ogni tormento. Il problema è che alcuni personaggi vivono le tue stesse cose» (p. 194). E proprio a proposito di Schopenhauer leggiamo: «Certi esseri umani, se vogliamo essere precisi, bipedi, a detta di Schopenhauer, sono l’incipit di una vita inutile». Schopenhauer riprende la definizione che diede Platone dell’uomo: l’uomo è un bipede implume. In altri termini: l’uomo è un pollo senza piume. La sottile ironia è rivelatrice del vero. Il perduto “De Risu” d’Aristotele, tanto vagheggiato da Eco ne “Il nome della Rosa”, Rosa pristina nomen, ci farebbe proprio da eco di questa sonora potenza della risata, ma anche del sorriso. Il riso è strettamente legato al pianto. La potenza del comico è co-originaria a quella del tragico. L’ironia, come insegna il grande Socrate, è il significato di un atteggiamento psicologico che offre lo spettacolo di un confronto tra ignoranze presuntuosa, fondata sul sapere di sapere, e, invece, dotta ignoranza, umile, fondata sul sapere di non sapere. L’ironia è virtù, perché in medio stat virtus. L’ironia sta tra la violenza dello scherno e l’asprezza della satira. Il primo estremo è individuale, il secondo è sociale. Chi veramente ironizza compatisce senza accanimento e motteggia solo per educare.

Vincenzo Capodiferro

09 dicembre 2014

Paratissima 10 – di Marco Salvario - prima parte


Paratissima 10 – di Marco Salvario

Ogni anno l’organizzazione di Paratissima deve lottare con le unghie e con i denti per trovare i suoi spazi, combattendo contro la burocrazia e contro i problemi economici. Quest’anno ha dovuto affrontare spese di decine di migliaia di euro per recuperare strutture devastate dall’impunita barbarie che ormai comanda a Torino. Tra il MOI al Lingotto, utilizzato negli ultimi anni, e il Palazzo di Torino Esposizioni al Valentino, la scelta è caduta su quest’ultimo solo perché lì i lavori di ripristino erano meno onerosi.
Peccato! Paratissima aveva fatto una sua bandiera della capacità di individuare e recuperare spazi espositivi nuovi, mentre l’utilizzo della struttura di Palazzo Esposizione è un percorrere strade già tracciate da altri e perdere parte della propria diversità: auguriamoci non siano i tasselli di un’omologazione di fatto, la perdita delle peculiarità che erano il suo marchio distintivo.
Questo non toglie che l’ambiente, creato appositamente per ospitare mostre e manifestazioni, si sia rivelato adatto e sia stato gestito ottimamente.
Dispiace vedere che l’età degli artisti, almeno questa è la sensazione, continui ad aumentare, come se la generazione che sta maturando, delusa, demotivata e nata stanca, neppure sul piano della creatività reagisca alla propria condizione. Non vale per tutti, vale per troppi.
I problemi non hanno impedito che la risposta del pubblico nei quattro giorni di apertura, dal 5 all'8 novembre 2014, sia stata grandiosa: se giovedì pomeriggio, con alcuni espositori ancora impegnati a sistemare le proprie opere, il pubblico era già numeroso, il sabato ho rinunciato ad affrontare la coda di persone lunga duecento metri che era in attesa davanti all’ingresso.

Prima di iniziare la mia personale analisi dell’evento, come per gli anni passati premetto alcune puntualizzazioni.
Le segnalazioni e i giudizi che leggerete in quest’articolo sono pareri personali e riguardano solo opere di artisti che mi hanno colpito favorevolmente. Se vi ho citati, è perché mi siete piaciuti. Se non si parla di voi, cari artisti di ogni età, rendetevi conto che l’offerta era ampia e composita. Ho camminato quattro ore, ma non ho visto tutto: sicuramente nel mio non visto ci saranno state opere che avrei potuto apprezzare e lodare, invece il destino ha voluto diversamente.
Mi sono soffermato esclusivamente su opere di pittura, scultura, grafica e fotografia, mentre non parlerò di multimedialità, moda, design, musica ecc.
L’elenco che segue non è una classifica: è venuto fuori così, dalla sistemazione casuale delle fotografie che avevo scattato.


Simone Benedetto

Con quest’artista avevo iniziato l’analisi di Paratissima 2013 e con lui inizio Paratissima 2014.
Inutile fare giri di parole: Simone Benedetto è bravo, piace, sa provocare ed esprimere il suo disagio, usa l’arte come un megafono. Ormai lo si deve considerare un maestro e un esempio da seguire per chi cerca di farsi strada in un mondo artistico dove molti si cimentano, ma pochissimi riescono a ritagliarsi un proprio spazio.
L’opera che ha destato maggiore interesse tra quelle esposte è stata “Welcome”: un acquario alto 180 centimetri e con base quadrata di 80x80. Nell’acquario, tra tanti pesciolini agitati, un corpo sospeso, morto, probabilmente affogato. La sua immobilità grigia nel movimento colorato dei pesci. La morte dell’uomo e, intorno, la natura che vive e riconquista i suoi spazi. L’uomo che, nonostante i suoi sforzi di dominare, soccombe e, nella morte, ritrova serenità e compostezza.
Le luci tenui di Paratissima, non volontà artistica ma triste necessità legata al risparmio, creavano nell’acqua giochi cangianti di chiaroscuri e riflessi.
Nello spazio giustamente dedicatogli come vincitore del “Toro d’Acciaio”, miglior artista di Paratissima 2013, anche le installazioni “Identity for sale”, dove la denuncia di Simone Benedetto è contro la società di internet, giungla moderna dove cui ognuno può vedere la propria identità personale assorbita, clonata, comprata, catturata in una trappola disumanizzante che trasforma gli uomini in una merce senza diritti.



Renato Sabatino

Simone Benedetto aveva presentato a Paratissima l’anno scorso il suo intrigante “Piovrilla”, opera acquistata dal bioparco Zoom: quest’anno sembra seguirne le orme Renato Sabatino, finalista nel progetto ZOOMaginario con l’opera HG-80, per dirla tutta: “Gerrhosaurus Hydrargyrum, Hg-80”. “Animale fantastico”, lo definisce l’autore, realizzato con “mercurio alieno” e, conclude malizioso, si tratta di “un animale potenzialmente feroce ma di natura pacifica.”
In questa natura contraddittoria di drago che intimidisce e domestico compagno di giochi, “Hg-80” è opera riuscita e convincente, anche se non troppo originale.
Lavori diversi, realizzati dallo stesso autore, sono le due terrecotte “Compressione cubica” e “Compressione cilindrica”, dove trionfa l’allegoria della creazione artistica trasformata in una riproduzione industriale, materia destinata ad annullarsi e riciclarsi, come autovetture pressate in blocchi di ferraglia e plastica da smaltire.
La perfezione della realizzazione geometrica e cromatica lascia piacevolmente meravigliati.



Silvia Manazza

Tra gli originali alla ricerca pazza e geniale di nuovi materiali con cui esprimere la propria creatività, mi mancava Silvia Manazza, artista dal curriculum di tutto rispetto, con la sua opera “Italia, Inizio III millennio consolle con specchiera, stile post-consumismo”, realizzata con stoffa riciclata da vecchi materassi.
Opera simpatica, ironica, ben strutturata, che s’inserisce in un processo di studio e ricerca complesso e attento. Nel ricreare forme di un passato ricco e ostentato con materiali comuni e anch’essi prossimi all’abbandono per soluzioni sempre più moderne (chi, oltre a me, dorme ancora su materassi di lana?), si gioca il fragile equilibrio tra il bisogno di mantenere i valori di un passato che sarebbe da superficiali volere dimenticare e l’adattarsi a un presente che, nel momento in cui lo si fissa in una creazione, è già anch’esso superato.
Molto intensa e inquietante l’opera “Voce bianca”, in cera, stoffa e tulle. Risata o grido, innocenza o sguaiata provocazione, in una figura di sposa bambina o in un’anima senza riposo o in una creatura non nata, che lacera lo spazio e il tempo.

PATRIZIA MONACÒ. ARTISTA INFINITA… di Vincenzo Capodiferro

Red and orange- tecnica mista su tela cm 50x70. 2007
Patrizia Monacò
PATRIZIA MONACÒ. ARTISTA INFINITA…

Patrizia Monacò, pittrice e poetessa, è nata a Cosenza nel 1964, vive a Potenza. A soli otto anni già ha vinto il "Microfono d'Argento", messo in palio dalla Rai, sul tema "A mio padre". A quindici anni diviene allieva di bottega del maestro Donato Pace di Avigliano e frequenta il suo studio per alcuni anni. E poi dal 1982 fino ai nostri giorni inizia una scalata di mostre e di premi, in che denota un talento veramente grandioso. Come è difficile spaziare dalla poesia alla pittura, le quali, come diceva Lessing, sono forme di arte così eterogenee. Patrizia è un’artista completa, perché l’arte, nel suo più recondito senso è poesia, e poesia, è - da poiesis - creazione. Nell’arte ci avviciniamo sempre di più alla creazione, a quello spirito creativo che il Creatore stesso ha immesso dentro di noi fin dalla nascita. Ecco perché gli antichi dicevano: “poeta nascitur”. Poeta si nasce, perché se non si ha quel talento, che l’eterna Sapienza ha donato, affinché l’uomo lo facesse fruttificare, non lo si può inventare. I sofisti e i comportamentisti affermavano che tutto si può ottenere tramite l’educazione, eppure se non c’è quell’inclinazione naturale, è impossibile che l’uomo diventi artista, o scienziato, o genio, con tutto lo sforzo che egli ci possa mettere. Molti hanno scritto di Patrizia, ed anche penne note. Noi riportiamo una nota sintetica di Rino Cardone: «Patrizia Monacò spazia in maniera sovente, nella sua eterogenea vita artistica, dalla letteratura al colore, dal segno al verso, con un'adeguata "disinvoltura estetica", con la quale la pittrice manifesta una ecletticità di proposta, che nel tempo, ha spaziato dalla poesia visuale alla pittura dadaista, dall' action painting, alla cosiddetta arte povera. Lo sviluppo e la distribuzione dei segni sono al tempo stesso di tipo "endogeno" ed "esogeno": rivolte ovverosia, in pari misura verso l'interno e verso l'esterno con un equilibrio di tratti e un bilanciamento di linee, che pur si traducono in una forte espressività creativa». Di lei scrive Lucio Attorre: «È opinione che le rivoluzioni si compiano o attraverso incessanti ma progressivi sviluppi o attraverso repentini e bruschi rovesciamenti identitari, dunque o per logico divenire o per insolubile cesura. A quale dei due modelli voglia aderire Patrizia Monacò è difficile ipotizzarlo, ma di certo ricordiamo di averla lasciata entro una dimensione di “astratto lirico”, mentre ora la sua vena si nutre di “informale segnico”. Al geometrismo panteistico, subentra una decisa ricerca cromatica, disposta sulla superficie telata ora per larghe fasce,ora per grumi,ora per spruzzi e filamenti. Più che Pollock, la transizione verso il segnico sembra raccogliere le suggestioni dello spazialismo inquieto di Emilio Vedova». Patrizia Monacò si definisce “artista del profondo”. “Vuole risvegliare le coscienze sonnolenti dell'uomo contemporaneo”, poiché il fine supremo dell’arte stessa è Illuminazione creatrice. “Con i suoi dipinti ella interpreta l’uomo e il suo animo dalle multiformi sfaccettature. Le sue tele parlano, interpellano una interpretazione e una riflessione”. E ciò è quanto più importante poiché, come diceva Heidegger, “l’uomo contemporeo non pensa più”. E tanto più oggi, quando le nouvelles generazioni, i nativi digitali, sono completamente assorti in un mondo preconfezionato e virtualistico. Non pensiamo più, ma “siamo pensati” da internet, dalla televisione e da tutta la feccia dei comunicatori di massa. Di più noi abbiamo colto questo aspetto dell’Infinito in Patrizia: essa è artista completa, infinita, che si rapporta perciò all’Infinito. Per questo Schelling scriveva: «Ogni magnifico dipinto nasce quasi per la soppressione della muraglia invisibile che divide il mondo reale dll’ideale, ed è solo, per così dire, la finestra attraverso la quale appaiono completamente quelle forme e regioni del mondo della fantasia, che traspare solo imperfettamente attraverso quello reale».
Vincenzo Capodiferro

01 dicembre 2014

IL PAPA A STRASBURGO : “EUROPA SENZ’ANIMA!” di Antonio Laurenzano

                          


                       
IL PAPA A STRASBURGO : “EUROPA  SENZ’ANIMA!”  
Azzerare vincoli e tecnicismi burocratici per sconfiggere ogni egoismo - La centralità dell’Uomo e della sua dignità - Il ruolo sociale del lavoro - La solitudine dei più deboli -                                             
di Antonio Laurenzano

“No all’Europa dei consumismi esasperati e dei tecnicismi burocratici!”. E’ il monito  che  Papa Francesco, invocando il coraggio della solidarietà, ha lanciato nella sua recente visita al Parlamento europeo di Strasburgo. Un severo “J’accuse” nei confronti di un’unione di burocrati senza volto, di Governi senz’anima che non esitano a calpestare la dignità dell’uomo e del suo lavoro, a ignorare i più deboli, dai giovani senza lavoro agli anziani, dai poveri agli immigrati. ”L’essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo, usa e getta”. Una situazione sociale non più tollerabile e che, pur in presenza di un processo di allargamento dell’Unione, ha alimentato una crescente sfiducia dei cittadini europei verso le istituzioni comunitarie “impegnate a fissare regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose.”
“L’Europa è malata di solitudine, acuita dalla crisi economica i cui effetti perdurano ancora con conseguenze drammatiche”. Da Strasburgo il Papa ha rivolto ai cittadini europei un “messaggio di speranza e di incoraggiamento”, con l’invito a “tornare alla ferma convinzione dei padri fondatori dell’Ue” che avevano disegnato per il Vecchio Continente un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme  per superare egoismi e divisioni e favorire la pace e la comunione fra tutti popoli del continente”. Al centro di questo ambizioso progetto politico vi era “la fiducia nell’Uomo, non in quanto soggetto economico, ma persona dotata di una dignità trascendente”.
                 L’Europa non fa più sognare. Il “modello europeo” è da tempo avvolto in una fitta cortina di incertezze e contraddizioni, un modello che alimenta inquietudini, crea insicurezze, genera paure, crisi di identità nazionali. Un’Europa intergovernativa, spesso litigiosa, senza un governo capace di rispondere con politiche adeguate alle attese e ai bisogni dei cittadini.  E se l’Europa non avanza, retrocede! Si sta miseramente sgretolando il tasso di unità che ha tenuto finora in vita le tante diversità dell’ Unione.  “L’Europa della malinconia”! E’ profondo il disagio percepito in gran parte dell’Unione. L’ euroscetticismo domina  da tempo la scena europea. E’ latitante una governance economica in grado di garantire, con la stabilità del sistema monetario, la crescita economica e quindi lavoro e occupazione.
Alla costruzione della comune casa europea mancano due pilastri fondamentali. Prima di tutto l’unità politica: l’Europa unita non può essere soltanto quella dei mercati e dell’euroburocrazia, deve fondarsi su istituzioni dotate di una forte legittimità democratica. E poi quel fitto tessuto di autonomie, di identità territoriali distinte che, come in un mosaico, vanno a comporre una più generale identità europea.
L’anima dell’Europa, da riscoprire e valorizzare, è proprio in questa miscela di unità e diversità, in una nozione dell’identità che si basa non sull’appartenenza etnica ma sulla comunanza di bisogni, di interessi, e anche di valori: i valori della solidarietà, della sussidiarietà, del dialogo, dell’integrazione tra etnie, religioni e culture diverse.
E Papa Francesco a Strasburgo ha tracciato la strada per uscire da politiche autodistruttive per spezzare le paure e riannodare il filo della storia: “L’Europa va ricostruita non intorno all’economia ma alla sacralità della persona umana e dei suoi valori inalienabili.”
 

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...