27 febbraio 2009

IL PRIMATO DELLA PIETA’
di Nino di Paolo
© FARA Editore 2008 ISBN 978 88 95139 47 0
€ 14,00 Pag.192


Il primato della pietà è una raccolta di racconti molto particolare, infatti ogni brano ha come titolo una delle “opere di misericordia” elencate dalla Chiesa come manifestazione concrete di Carità, come ci dice lo stesso autore nella prefazione.
Non può che trovarmi d’accordo questo approccio alla scrittura che ci ricorda manifestazioni di vera pietas nei confronti degli altri, senza per questo essere tacciati di “buonismo”.
La prima parte del libro ci presenta racconti autobiografici, e in questi 7 primi scritti ho trovato una forte manifestazione di coraggio da parte dell’autore. Di Paolo si è messo a nudo, raccontandoci episodi della propria vita intimi, personali. Ci ha presentato la sua famiglia d’origine, quindi quella costruita insieme alla moglie. Le sue idee politiche, la vita divisa fra due comunità diverse fra loro: Casalanguida, il paese d’origine della sua famiglia e Pero, dove tutt’ora vive e lavora lo scrittore.
Gli altri racconti sono d’invenzione, anche se, bene o male, troviamo anche in questi tracce di realtà quotidiana. E’ come se l’autore abbia voluto costruirsi una base vera, solida su cui posarsi, per meglio raccontare gli altri brani di fantasia.
Gli scritti sono brevi, veloci, con una scrittura spartana. I luoghi vengono perlopiù descritti attraverso le persone e i personaggi che li popolano.
Di Paolo usa il tono gergale tipico del nord Italia quando ci parla dei suoi protagonisti, ponendoceli, ad esempio, come “La Maria”, “Il Roberto”. Un modo tipico e assolutamente dialettale, ma che proprio per questo pare ci mette subito in confidenza con chi si presenta attraverso le pagine.
Ma quali sono questi atti di carità? Ve ne riporto solo alcuni: “Vestire gli ignudi”. In questo primo racconto Di Paolo ci confida i suoi ricordi dei viaggi dalla provincia di Milano, di ritorno al paese d’origine per le ferie. Come sotto titolo aggiunge: storie sul nostro bel vestito della festa. l’ambiente.
Oppure “Dar da mangiare agli affamati” e ancora “Visitare i carcerati”.
I temi, seppure messi sottobraccio alle tematiche cristiane, non sono banali, spesso ci parlano di altro, per poi dare un senso del tutto personale all’opera di misericordia a cui sono stati associati.
Nino ci mostra diversi volti della nostra società, facendoci riflettere, regalandoci del tutto gratuitamente i suoi ricordi, i suoi pensieri, la sua realtà.
Dice Carlo Penati nella prefazione: “ E’ di tanti “prossimi” che l’autore ci parla, proponendo una galleria di ritratti impressionisti, che illustrano a pennellate rapide e scarne ciò che ognuno può leggere solo attraverso la propria interpretazione”.
Io, personalmente, ho trovato questo lavoro originale, un libro che “semina”.

© Miriam Ballerini

"Le mani del vasaio", gli omosessuali visti da un prete

di Augusto da San Buono
"Le mani del vasaio " è un libro sugli omosessuali scritto da un prete, don Pezzini, il fondatore e l’animatore di un gruppo di omosessuali credenti con sede a Milano. Un orizzonte pastorale poco frequentato, dal terreno piuttosto tormentato, dove è facile cadere nello stereotipo della tolleranza o di un’altera e distaccata comprensione di facciata, o peggio nella reazione infastidita o sarcastica , nell’anatema … Il rapporto fra la chiesa e gli omosessuali non è stato (non è) molto tollerante. Del resto ci sono passi biblici, le lettere di Paolo che condannano decisamente l’omosessualità… Il libro vuole invece portare luce dov’è oscurità, certezze dove ci sono dubbi: è scritto apposta per farci varcare una soglia di estraneità che si nutre di paure e luoghi comuni , fatto per educare , aiutare chi vive accanto all’omosessuale e indirettamente lo stesso omosessuale; è un libro che accoglie e comprende il diverso. È la testimonianza di un sacerdote, un pastore d’anime: anch’essi, come i figli normali, sono sempre figli nostri, figli di Dio. Anch’essi – ed è il titolo del libro , di evidente matrice biblica – sono usciti dalle "mani di un vasaio supremo", che, come un’artista, ama sempre la sua opera, s’appassiona alla sua creatura lasciandovi l’impronta e quasi il tepore delle sue mani. Certo, sono questioni delicate e il libro va letto con la dovuta attenzione e predisposizione d’animo. Ci dice che bisogna superare i pregiudizi e Non ridurre tutto al mero comportamento genitale . Ma lasciarci coinvolgere dalla dimensione affettiva e sentimentale. Ci sono citazioni ad hoc come quella di Spinoza: "NON DERIDERE , NON COMMISERARE , NON DETESTARE". E' già un impegno significativo nei confronti degli omosessuali, spesso sottoposti a discriminazione e disprezzo anche in ambito ecclesiale, favorendo così da parte loro reazioni di segno opposto, eccessive e sguaiate, di cui siamo talora spettatori. E’ necessario comprendere in profondità, non secondo una distaccata comprensione, ma secondo una genuina intelligenza. Ma don Pezzini va oltre lo stesso comprendere, accogliere e aiutare: ci dice che l’impegno del cristiano è uno solo, quello di amare. Se è amore vero non sarà mai a scapito o in alternativa di una verità religiosa.
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Fonte iconografica: www.ibs.it

20 febbraio 2009

Letteratura: Machiavelli: Il Principe

  Il Principe è l'opera madre dello scrittore fiorentino, considerato proprio per questa il padre della scienza politica moderna. Si tratta di uno scritto volutamente asciutto, completamente privo di ampollosità, caratterizzato dalla volonta di sviluppare un discorso privo di presupposti metafisici e costruito a partire dalla realtà pratica, con il quale Machiavelli si spinge a considerare che tipi di stati esistano, perché, come debbano essere conquistati ed in che modo vadano mantenuti. Per l'autore in politica è del tutto inutile considerare la teoria essendo molto "più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa"; per questa ragione, partendo dal presupposto che gli uomini non sono buoni, Machiavelli si fa padre di una distinzione inusuale per il tempo, quella tra morale e politica: il fine politico è la conquista ed il mantenimento dello Stato, che deve essere distinto dal pure importante fine morale, poichè un politico che si preoccupasse di non avere alcun difetto, o di non fare torto al alcuno, si ritroverebbe presto sconfitto.  
L'ideale in politica non può dunque essere considerato distintamente dalla realtà concreta, per non ricadere nell'immaginazione, che è per l'autore un un errore grave. Massima qualità del politico è dunque la duttilità, la capacita di adattamento alle situazioni, l'essere centauro, cioè mezzo uomo e mezzo bestia, proprio per la necessita di trattare con gli uomini che per Machiavelli non hanno una natura benigna. Naturalmente questo non va confuso, come hanno fatto molti detrattori, con l'assenza di una morale nel pensiero dell'autore; certo questa è distinta dal fine politico che considera la ragione di Stato essere un bene superiore.
Tema centrale, poi, nella concezione di Machiavelli è quello del rapporto tra la virtù e la fortuna, considerata alla stregua di una forza del tutto neutra che l'uomo deve contrastare e indirizzare con la virtù. L'uomo politico ha dunque un libero arbitrio che va utilizzato con duttilità e spirito di adattamento, se è necessario anche con impeto poiché per il nostro sono molto più frequenti le situazioni nelle quali l'impeto, l'atto eroico, sia da preferirsi alla cautela.

Una lettura moderna e molto interessante del Principe è quella proposta da Antonio Gramsci nella prima metà del Novecento, secondo la quale il principe moderno sarebbe un organismo - il partito - concepito per creare ed organizzare una volontà collettiva in grado di trasformare la società. Strumento di questa trasformazione doveva e dovrebbe essere, secondo il pensatore comunista, una "riforma intellettuale e morale" in grado di preparare il terreno ad un salto di qualità nella coscienza degli individui, che dovrebbe portare ad una forma superiore di civiltà. Un Principe idealista dunque, affascinante sebbene non privo di contraddizioni nei confronti della stessa concretezza del pensiero machiavellico.
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Autore: A. di Biase
Fonti:
La letteratura - Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria - Vol. II - Paravia
Il Principe - N. Machiavelli - Barbera editore
Fonte iconografica:
http://www.ibs.it/
Rev 02-02-13 AdB

15 febbraio 2009

Geografia: il modello agricolo comunista

Nota enciclopedica
A partire dalla Rivoluzione d'ottobre del 1917, nei paesi comunisti la terra è stata dapprima ridistribuita ai contadini attraverso una riforma agraria, per poi essere collettivizzata nel quinquennio '28-'32 con la creazione di grandi aziende di stato caratterizzate, da un lato, dal lavoro compiuto in maniera comunitaria e, dall'altro, da una rigida pianificazione della produzione. Gli organismi fondamentali del sistema agricolo sovietico sono due, il kolchoz (piccolo) e il molto più grande sovchoz.
Il kolchoz è una cooperativa agricola gestita da un' assemblea comunitaira che sovraintende alla produzione su indicazione di piani predisposti dallo stato. E' interessante perché questo tipo di comunità non esclude la gestione in proprio di un piccolo fazzoletto di terra (mezzo ettaro) che la famiglia del contadino utilizza come spazio privato, assieme a quello dell'abitazione, per la produzione di ortaggi o piccoli allevamenti. La gran parte del terreno, costituito da migliaia di ettari, è tuttavia gestito in maniera comunitaria, sfruttando tutti i mezzi della moderna agricoltura, con una redditività dunque comparabile a quella delle fattorie nordamericane.
Esempio più marcato di agricoltura statalizzata è invece il sovchoz, costituito da decine di migliaia di ettari di terreno, coltivato da braccianti o specialisti dipendenti dello Stato, sotto la supervisione di funzionari sempre statali.
Con il disfacimento dell'Unione Sovietica anche questa agricoltura sta volgendo al mercato, gli investimenti sono però scarsi e quindi il cambiamento delle strutture agricole avviene molto lentamente.
Da ricordare infine, su modello del kolchoz sovietico, è la nascita e lo sviluppo della "comune" in Cina, dove da sempre i contadini sono abituati a lavorare la terra collettivamente. Anche sulla scorta della dottrina marxista si sono quindi sviluppate in questo paese, a partire dalla riforma agricola del 1959, forme di comunità che travalicano le esigenze della produzione per diventare vere e proprie aggregazioni di villaggi, che lavorano, vivono e socializzano sviluppando nella comunità la quasi totalità della vita degli individui.
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Autore: A.di Biase
Fonte: Compendio di geografia umana, Dagradi-Cencini, Pàtron edizioni
Fonte iconografica: http://www.iisg.nl/

12 febbraio 2009

"Sopravvissuto alle foibe" di Rossana Mondoni

La vicenda di Graziano Udovisi, combattente italiano al confine orientale, infoibato dai titini, miracolosamente sopravvissuto
Presentazione di Luciano Garibaldi
Edizioni Solfanelli - 2009

Graziano Udovisi nel 1943 è un giovane diplomato di Pola, importante base navale italiana in Istria. Dopo lo sbando generale conseguente all’armistizio dell’8 settembre, all’età di 18 anni, decide di arruolarsi insieme ad altri giovani suoi coetanei, nella Milizia territoriale, per difendere Pola dagli attacchi dei comunisti iugoslavi del maresciallo Tito. Terminata la guerra si presenta al comando di zona, tenuto dai partigiani titini e italiani. Trattenuto, subì torture di ogni genere per alcuni giorni, poi venne infoibato insieme ad altri sventurati. Da quella voragine, riuscì miracolosamente a risalire. Ricorda come la fede gli abbia fatto forza permettendogli di uscire vivo da quell’inferno. Il suo racconto è ricco di particolari riguardo il disegno politico dei comunisti titini che perseguitavano in nome della loro nefasta utopia. Dopo i titini arriva un’altra terribile insidia: la giustizia italiana. Dopo essere stato curato clandestinamente dalle profonde ferite subite nella foiba, venne tradito. Arrestato, processato, tradotto nelle prigioni di Padova, Venezia, Udine, Gorizia, Trieste. Subì una condanna di oltre tre anni.Senza soldi e mezzi, con l’avvocato d’ufficio, che non riesce ad avere nemmeno l’appello, dovette subire il carcere. Ancora oggi la sua storia è contestata dai cosiddetti negazionisti. Graziano Udovisi risponde con lucidità ed estrema pacatezza lasciando intravedere una verità che va ben oltre ogni ragionevole dubbio.
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Rossana Mondoni (1954), docente di storia e filosofia, insegna al liceo “G. Peano” di Cinisello Balsamo (Milano).Studiosa del problema del “Confine orientale” dopo la II guerra mondiale, ha scritto un libro su Norma Cossetto, altra figura simbolo delle foibe, dal titolo "La verità per la riconciliazione" (Centro di Studi Storici Silentes Loquimur, Pordenone 2007). È figlia di Giovanni, deportato a Mauthausen nel marzo del 1944 e liberato dagli americani nel maggio del 1945.
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Fonte: Edizioni Solfanelli

11 febbraio 2009

"Chiedilo all'amore" di Giuseppe Bianco

ISBN: 978-88-902949-1-4
Albus Edizioni, 2007


Anche quando non entra dalla porta principale l’amore riesce a dettare le sue leggi, a urlare forte le sue ragioni pur non alzando la voce.
L’amore capito o subito, fatto di sesso o soltanto di parole; l’amore platonico oppure infedele fatto di silenzi o di grandi promesse; quello di una volta sola o quello rincorso da sempre, appena sfiorato oppure mai raggiunto.
Un pensiero, uno scritto, un viaggio per le vie recondite di un sentimento che, anche quando non si dimostra in modo assoluto, riesce a essere mistero, magia, dolore, passione, ineffabile alito.
In Chiedilo all′amore fantasia e realtà si fondono ispirandosi a vicenda: un piccolo gioiello di equilibri emotivi, poetici e narrativi per un imperdibile libro.
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Giuseppe Bianco ha pubblicato la raccolta di racconti Lungo la strada del tempo (Spartaco 2001). Suoi scritti sono presenti nei volumi Il baule delle storie perdute (Araba Fenice 2001), Faximile. 49 riscritture di opere letterarie (Frilli 2004), Vedi Napoli e poi scrivi (Kairós 2005), Oxè. Racconti erotici italiani (Zona 2006), Angeli (Keltia 2006), Florilegio (Lisi 2007). Ha curato l’antologia poetica Le parole per te (Giulio Perrone 2006). Gestisce il sito web www.leparoleperte.it
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Fonte: Albus edizioni - Caivano (Na)

09 febbraio 2009

Letteratura: il periodo Barocco

Nota enciclopedica
L’età barocca in letteratura è caratterizzata dalla decadenza e successivo ribaltamento delle ‘regole’ che erano proprie della poesia fino a quel momento. In particolare si osserva un superamento del canone pretrarchesco, attraverso lo sviluppo di una poesia più artificiosa e musicale, dove l’elemento estetico prevale sul contenuto.
Figura principe di questa età letteraria è il napoletano Giovan Battista Marino il quale, attraverso una poesia che mira a meravigliare il pubblico, a sorprenderlo, e soprattutto attraverso una ricerca del successo letterario basato, per sua stessa ammissione, più sulla tiratura dei libri che sulla qualità dei lettori, segnerà il mondo a sé contemporaneo con una poesia metaforica e ricca di ‘concetti’, cioè accostamenti tra elementi della realtà in apparenza sconnessi i quali vengono presentati in maniera enigmatica, per stuzzicare l’intelletto del lettore e per creare, in definitiva, stupore.
Oltre a questo cambiano i temi rispetto all’età della Controriforma: l’Adone di Marino esalta per esempio la sensualità, ma nascono anche composizioni capaci di ridicolizzare il modello epico, non solo quello di Tasso, già criticato dall’Ariosto, ma addirittura l’epica greca, come nella Secchia rapita del modenese Alessandro Tassoni, storia questa di una guerra tra Modena e Bologna per il possesso di un secchio di legno, autentica parodia dell’Iliade di Omero.
Certo anche il Barocco ha i suoi classicisti, come il savonese Gabriello Chiabrera, autore di una poesia musicale ispirata ai canoni greci e caratterizzata dalla volontà di riproporre quegli schemi nella metrica italiana, tuttavia la critica contemporanea tende a riconoscere nel classicismo seicentesco, così ricco di effetti, una semplice variante del marinismo.
Poeta seicentesco che fa, invece, in un certo qual modo a sé è il frate calabrese Tommaso Campanella, autore di una lirica potente e suggestiva che vuole elevare l’uomo mettendo in evidenza i legami tra la realtà ed il modo metafisico, utilizzando per questo un linguaggio spesso vicino a quello biblico o dantesco.
Non manca la prosa, sia quella scientifica di Galileo, che con il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo introduce quella prassi conoscitiva ancora oggi conosciuta come “metodo scientifico”, sia quella dei romanzi di Giovanni Ambrogio Marini (Il Calloandro fedele) e di Francesco Fulvio Frugoni (Il cane di Diogene), così come non mancano gli esempi di novelle di qualità che, sempre nel rispetto del canone boccaccesco, raggiungono risultati pregevoli con Giovan Battista Basile (Lo cunto de li cunti, fiabe per bimbi) e con il fabbro Giulio Cesare Croce (Le sottilissime astuzie di Bertoldo).
Il teatro è forse l’espressione artistica nella quale l’età barocca fa davvero scuola, perché quest’arte è quella che meglio riesce ad esprimere l’ansia di rinnovamento che ha caratterizzato questo periodo, sia sul piano della caduta delle certezze umanistiche, sia su quello delle nuove proposte scientifiche. Con Shakespeare il teatro seicentesco raggiungerà quelle vette della rappresentazione alle quali molti riconoscono la capacità di raggiungere il vero attraverso una finzione, una vera e propria “messa in scena” che in un certo senso rifiuta la parola come mezzo adeguato all’espressione della realtà ultima. E’ il teatro di Black Friars.
All’Italia spetta però, proprio in questo secolo, il compito di fare da madrina a due nuove forme artistiche destinate al successo, il melodramma e la commedia dell’arte.
Il primo nasce in ambito letterario come dramma per musica e diventa progressivamente una forma di teatro cantato, attraverso la rivalutazione di alcune forme melodiche tipiche del teatro greco, come la monodia, che esalta la – bella - voce umana come strumento musicale per eccellenza. Dal melodramma nascerà l’opera lirica, laddove la musica andrà a prevalere marcatamente sulla recitazione.
La commedia dell’arte nasce invece a Padova a metà del Cinquecento con la Fraternal Compagnia di “ser Maphio Zanini”, ma prende maggiore impulso nel secolo successivo attraverso la rappresentazione comica di testi in parte tratti dai classici greci e latini, ma arricchiti da figure e situazioni del teatro regionale. A differenza di quanto sembra tuttavia, la comicità di questo tipo di teatro non è ingenua, derivando da un lavoro sofisticato che crea situazioni progressivamente complesse per le peripezie dei personaggi, anche attraverso l’utilizzo di una mimica molto ricca.

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Autore: A. di Biase
Fonte: La letteratura, Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Vol. III, Paravia . Il post contiene tuttavia considerazioni frutto di conoscenza personale.
Fonte iconografica: http://www.stiftmelk.at/

06 febbraio 2009

Letteratura: Giovan Battista Marino

   Il principale esponente del barocco letterario, altrimenti detto 'marinismo', nasce a Napoli nel 1569.
Lasciati presto gli studi di giurisprudenza per dedicarsi alle lettere Marino cade subito in un paio di incidenti con la giustizia, prima per aver 'sedotto' una ragazza, poi per falsificazione di documenti.
  In ogni caso dopo la pubblicazione della prima opera nel 1602, le Rime, si unisce alla corte del cardinale Aldobrandini.
  Poi sarà a Torino, presso Carlo Emanuele I. Qui diventerà famoso per una disputa, prima letteraria poi armata, con il segretario ducale, il poeta Gasparo Murtola, graziato dal duca per intercessione dello stesso Marino dopo che quest'ultimo era scampato ai proiettili del primo.
  Nel l'11-'12 torna in carcere e qui si dedica all'ampliamento della sua raccolta di rime, che uscirà nel '14 con il titolo di Lira.
  Nel '15 si reca a Parigi presso Maria de'Medici dove, ottenuta una rendita, si dedica alla risistemazione delle ultime opere: la Galeria(1619), la Sampogna (1620) e l'Adone(1623).
  Morirà a Napoli nel 1625, dove si era trasferito per trascorrere gli ultimi anni, accompagnato dai dodicimila volumi della sua biblioteca personale.
  E' molto interessante sforzarsi di capire il senso del successo mariniano, perché se è vero che l'autore fu un buon uomo di corte, accorto alla coltivazione delle giuste conoscenze, come quelle di Tasso e Tassoni, Marino non avrebbe potuto raccogliere tutto questo successo, in Italia ed Europa, che lo portò ad essere considerato il più grande poeta vivente e che ancora oggi lo pone a riferimento del Seicento letterario italiano, se non fosse stato in grado di raccogliere ed interpretare le forti istanze di rinnovamento che furono proprie di quel secolo. Marino è certo poeta "del lusso e della lussuria" come è stato da alcuni definito, ma è soprattutto autore in grado di leggere la "svogliatura" del secolo XVII, stanco dei canoni del modello classico, e di interpretarla in una chiave molto singolare, attraverso uno stile che fa proprio dell'assenza di regole il suo punto di forza. In Marino l'estetica non può essere subordinata alla regola e quindi il poeta, ribelle, si prende il lusso di costruire una realtà più complessa di quella immediatamente percettibile, attraverso l'utilizzo di un linguaggio ricercato e di un sapiente uso della metafora che porta il lettore alla meraviglia, al continuo esercizio estetico, al "far inarcar le ciglia" che è per l'autore barocco il fine ultimo della poesia. C'è in Marino, a ben pensarci, una certa affinità con il ben più tardo e maggiore Oscar Wilde, anch'egli spesso accusato di plagio letterario, quando si voglia comprendere che per questi autori la realtà non è data, non è madre, bensì figlia del poeta, il quale in una qualche maniera la partorisce.
  Non è dunque strano che Marino contrapponga il suo Adone, celebrazione dell'esperienza sensuale ed erotica vista addirittura come mezzo di elevazione dell'uomo, al capolavoro della letteratura controriformistica, La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Non fu strano vedere la Chiesa ostacolare la pubblicazione della principale opera di Marino, l'Adone appunto, la quale venne definitivamente iscritta all'Indice dei libri proibiti nel 1627.
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Opere di Giovan Battista Marino

- Rime (1602)
- Lira (1614): nuova ed ampliata raccolta di poesie, frutto del lavoro carcerario.
- Galeria (1619): componimenti a tema artistico su dipinti e disegni.
- Sampogna (1620): idilli pastorali.
- Adone (1623): lungo poema di argomento mitologico, che esalta l'esperienza erotica.
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Autore: A. di Biase
Fonte: La letteratura, Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Vol. III, Paravia . Il post contiene tuttavia considerazioni personali, non imputabili al testo di riferimento.
Fonte iconografica:
www.einaudi.it

01 febbraio 2009

Geografia: le riforme agrarie

Nota enciclopedica
Le riforme agrarie nascono o come rivendicazione sociale, con l’obiettivo di ridistribuire la ricchezza in mano a pochi, o come rivendicazione economica tesa a rendere più efficace la produzione. In genere si tratta di precise scelte politiche attuate dai governi in carica, le quali tendono ad assegnare la terra a chi la lavora oltre che a renderla produttiva. Una caratteristica dei paesi islamici, a questo proposito, risiede nel fatto che le riforme non hanno avuto carattere rivoluzionario, poiché volute dalla classe dirigente.
Di seguito riportiamo, sempre seguendo il Dagradi-Cencini come fonte, l’elenco delle principali e recenti esperienze di riforma agricola nel mondo, descrivendole nei loro tratti essenziali.
Italia: negli anni Cinquanta del XIX secolo gli addetti all’agricoltura erano oltre la metà della popolazione attiva, con punte oltre il 70% nel Mezzogiorno. La riforma agricola fu rivolta agli spazi agricoli incolti o scarsamente produttivi. Per tali terreni era previsto l’esproprio delle terre eccedenti i 300 ettari.
Messico: nel 1917, dopo i moti rivoluzionari, venne applicata una riforma con un limite di possedimento a 100 ettari per terre irrigue, o 800 per il pascolo. Il resto della terra venne ridistribuita.
Bolivia: la riforma nasce nel 1952 ed ha un taglio rivoluzionario perché all’epoca il 70% delle terre coltivabili era diviso in aziende con oltre mille ettari di estensione. La riforma ha dato la terra a chi la lavora, riducendo lo spazio agricolo ad aziende medie e piccole. Questo non è però stato un vantaggio per la meccanizzazione che qui risulta poco redditizia.
Perù: nel 1961 3400 aziende con oltre 500 ettari di terreno assegnato, possedevano il 75% della superficie agraria. Nel 1964 la riforma stabilisce limiti di possesso per 150 ettari irrigui, 300 irrigabili, 450 non irrigabili, 1500 a pascolo. Le terre vengono assegnate ai contadini tramite esproprio, pagato i massima parte in Buoni del Tesoro.
Cile: negli anni Sessanta 3300 aziende possedevano, con oltre 1000 ettari, il 75% dell’arativo. Nel 1967 la terra venne assegnata per riforma ai contadini, limitando le aziende ad 80 ettari di estensione. Gli espropri furono pagati in “buoni della riforma agraria” e ridistribuiti sulla base di appezzamenti di 10 ettari destinati alle famiglie.
Cuba: con la fine della dittatura di Batista il governo comunista di Fidel Castro ha statalizzato l’economia e quindi anche l’agricoltura, la quale è stata organizzata in “aziende del popolo” (1961). In agricoltura la riforma ha avuto impatti soprattutto sull’industria dello zucchero, che è comunque stata soffocata dall’embargo USA. Con la fine dell’URSS la crisi a Cuba si è accentuata ed oggi l’economia si salva solo grazie al turismo.
Egitto: nel 1952 il 66% dell'arativo era in mano al 6% dei proprietari. Il presidente Nasser volle ridistribuire le terre in piccoli lotti da 1-2 ettari per coltivatore espropriando tutte le proprietà che eccedessero gli 84 ettari (200 feddan). Nel 1961 il limite venne portato a 100 feddan, a 50 nel 1969. Venne anche fissata una normativa agricola.
Siria: nel 1958 anche questo paese è stato riformato secondo il criterio della 'hiyaza', cioè del possesso del terreno legato al suo utilizzo e non ad una stretta proprietà. Anche qui sono state attuate politiche di ridistribuzione dei terreni, ma soprattutto è stata favorita la creazione di cooperative atte allo sviluppo della meccanizzazione, nonché di un sistema agricolo efficiente sul piano qualitativo e commerciale.
Iran: qui l'unità produttiva agricola è sempre stata il villaggio. Quando nel 1960 lo scià promosse la riforma, un terzo dei 30000 villaggi appartenevano ad un unico padrone, 5000 appartenevano a latifondisti, 800 erano dello scià e altrettanti appartenevano ad opere religiose. Con la riforma nessuno potè possedere più di un villaggio. Gli altri vennero espropriati dietro pagamento di una cifra risarcibile in 15 anni da parte del nuovo proprietario. Con la Rivoluzone islamica del 1979 si è poi avuta una nuova ridistribuzione di terre per circa 800000 ettari. L'avvento della legge islamica ha tuttavia creato problematiche legate al dettato coranico, che parlerebbe dell'inalienabilità della proprietà fondiaria.
Tunisia: la ex colonia francese aveva nel 1956 il 20% dell'arativo in mano agli stranieri. Con l'indipendenza venne attuata una riforma che nazionalizzò l'agricoltura, organizzandola in grandi cooperative. Un successivo perfezionamento del modello nazionalista consertì ad alcune colture intensive (ortaggi e frutta) di recedere dalla rigida srtuttura di accorpamento.
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Autore: A. di Biase
Fonte: Compendio di Geografia umana; Dagradi-Cencini; Pàtron Edizioni
Fonte iconografica: www.unci.org

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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