28 giugno 2006

"Una paga da fame" di Barbara Ehrenreich

di Lagi

Il sociologo americano Sennet lo aveva già dimostrato con una tabella del Congressional Budget Office: il reddito degli americani, dopo aver cambiato impiego, non migliora, solo il 18% vede un incremento del reddito, tutti gli altri si ritrovano o senza lavoro o con un lavoro pagato l’80% in meno di quello precedente.
Quasi il 30% della forza-lavoro accetta di sgobbare per 8 dollari l’ora …a volte anche meno.
Le drammatiche immagini di Katrina a New Orleans riportano all’attualità un dramma già noto: i poveri, coloro che sopravvivono al livello più infimo del nostro sistema economico, esistono anche nella Grande America. Sono immagini da terzo mondo … eppure siamo a New Orleans …
Mi torna in mente un libro che avevo letto pochi anni fa, scritto da una giornalista, Barbara Ehrenreich, “Una paga da fame, come non si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo”. Un ottimo esempio di giornalismo investigativo, perché Barbara ha deciso di fare la stessa vita di milioni di americani, per due anni, per capire il sistema economico americano e i suoi disagi sociali. Insomma … si è buttata nella mischia.
Stabilendo delle regole ben precise. Regola numero 1: nel cercare lavoro non doveva fare ricorso a capacità derivanti dai suoi studi. Regola numero 2: doveva scegliere il lavoro meglio retribuito tra le offerte disponibili e, una volta accettato, doveva fare del suo meglio per conservarselo. Regola numero 3: doveva scegliere la soluzione abitativa più economica possibile.
E così si ritrova prima a fare la cameriera in Florida, poi la donna delle pulizie nel Maine, infine la commessa nel Minnesota.
E’ un libro drammatico perché parla di una realtà; ma la Ehrenreich riesce a farne un libro a tratti divertente, e umano quando racconta le storie di piccole e grandi solidarietà.
Per esempio quando descrive del primo problema, quello di cercare casa … e con una paga da 7 dollari l’ora (la media delle offerte di lavoro), Barbara si rende conto che non si può neanche permettere una roulotte nel Key West. Dopo aver faticosamente trovato un monolocale a 500 dollari al mese, si butta alla ricerca del lavoro. E fa il primo colloquio per un grande magazzino della catena Winn-Dixie. “Vengo condotta in una grande sala, dove una serie di manifesti illustra l’immagine professionale auspicata (razza possibilmente bianca, capelli con permanente se femmina) e mette in guardia dalle illusorie promesse di sindacalisti tentatori. Il “colloquio” è un questionario a risposta multipla: contrassegnare il tipo di contrattempi, per esempio figli da sistemare, che potrebbe farmi arrivare in ritardo. Circa il problema sulla sicurezza sul lavoro: indicare se secondo me è responsabilità dell’azienda. Poi, le domandine a tradimento: qual è il valore in dollari della merce asportata senza pagare nel corso dell’anno precedente? Sarei disposta a denunciare un collega sorpreso a rubare. E infine: “sei una persona onesta?”.” Il colloquio poi lo passi solo dopo aver fatto l’esame delle urine, che deve risultare perfetto.
Per non parlare delle regole previste dal manuale del buon collaboratore Wal-Mart, che Barbara deve imparare per la più grande azienda di vendite al dettaglio nel mondo: proibito il piercing facciale, gli orecchini devono essere piccoli e discreti, senza pendenti, proibiti i jeans tranne il venerdi previo il pagamento di un dollaro per il privilegio. Proibito “brucare”, vale a dire mangiucchiare biscotti, patatine e simili. Proibito soprattutto il “furto del tempo”, che vuol dire “fare qualsiasi cosa che non sia lavorare durante le ore pagate dall’azienda”.
Spesso un lavoro non basta per sopravvivere, e per arrivare a fine mese ci vuole un secondo lavoro. Magari per curarsi da problemi di salute prodotti dal primo…
Fino a pochi anni fa eravamo abituati a pensare al povero come a colui che non aveva lavoro. E’ drammatico scoprire che i nuovi poveri sono lavoratori che hanno paghe che non consentono di vivere.
Leggetelo. E’ un buon libro. Aiuta a capire certi meccanismi della nostra economia. Anche se sono convinta che molti li stiano già “apprendendo sul campo”, sulla propria pelle, pure qui in Italia.

(Una paga da fame. Come non si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo, Barbara Ehrenreich, Feltrinelli, Euro 7.00, p.164)

Carlo Levi e i contadini del sud

di Augusto da San Buono

Durante gli ultimi vent’anni della sua vita lo studio romano di Carlo Levi fu una sorta di ambasciata dei contadini meridionali, o meglio, come un avamposto del mondo contadino… ”Le notizie che arrivano al suo studio – scrive il suo grande amico Italo Calvino - non si trovano sui giornali… Sono notizie di paesi dove prima dell’alba gli uomini sono in marcia per raggiungere i campi lontani, notizie di lutti, di arresti, di occupazioni di terre, ma anche notizie di filtri d’amore, di incantesimi, di spiriti notturni. Alla sua ambasciata si possono trovare tesori appena giunti da questi lontani re, i formaggi caprini, i vini mielati, i santini di gesso. Talvolta vi si possono incontrare messaggeri: donne nerovestite, giovani dalle scarpe polverose, come se una strada segreta collegasse quei campi e quei villaggi lontani alla casa del loro ambasciatore. E allora ci prende come una vertigine di un mondo diverso che ruota nel suo tempo diverso, in un’altra dimensione dal nostro, da noi che seguiamo il tempo dei contachilometri e delle rotative dei quotidiani”.
I rapporti tra Carlo Levi, nato a Torino il 29 gennaio 1902 da famiglia borghese, con uno zio da parte materna (Carlo Treves) che era uno dei maggiori esponenti del socialismo liberale piemontese, e i contadini della Lucania, protagonisti del suo famoso romanzo “Cristo s’è fermato a Eboli”, avvengono durante il periodo di soggiorno obbligato del torinese, per motivi politici, nei paesi di Grassano e di Aliano, in provincia di Matera. Levi, a quel tempo, era un noto esponente del Movimento “Giustizia e Libertà”, fondato a Parigi dai fratelli Carlo e Nello Rosselli, ma era noto anche come pittore, avendo già esposto a Torino e alla biennale di Venezia insieme ai maggiori artisti del tempo, Morandi, Carrà, Sironi, Martini, ecc.. Per Carlo Levi quello fu l’inizio della maturità e della sua scoperta come uomo e come artista, una maturità che lo vide accostarsi ad un’altra forma di dolore umano, diverso da quello dei socialisti e dei perseguitati politici che aveva aiutato a cercare salvezza nella fuga dall’Italia fascista. Era un dolore antico, quello dei contadini lucani, a cui non si poteva che opporre un’illimitata pazienza per sopravvivere, un dolore che lo avrebbe profondamente turbato, fatto umano, dolce come il miele, per quei poveri contadini trattati alla stregua di animali da soma.

M’avete fatto umano
baci dolenti, terre nascoste
dove un dolore antico era prima del mio arrivo.

Sono stato in mezzo al grano
povero e alle scomposte
colline del grigio ulivo;
secoli di pene imposte
e di desiderio vano
sul biondo tuo viso amico
come in quei monti scoprivo
che un egoismo lontano
arse paterno e passivo
spogliando d’erbe l’aprico
terreno e le tenere coste.
Alle offerte senza risposte
so solo rispondere, e dico
parole che apran l’arcano
grembo del fonte vivo.

Il primo giorno del suo arrivo ad Aliano si sparge la notizia in paese che il nuovo confinato è medico. (Carlo Levi si era laureato in medicina a soli 22 anni, aveva fatto anche il praticantato, ma in realtà non aveva mai esercitato la professione). E’ appena entrato nella casa di una vedova presso la quale si fermerà per qualche tempo, che alcuni contadini vengono a chiamarlo perché curi un loro congiunto colpito dalla malaria. Esistono in paese due medici, ma la loro ignoranza è tale che i paesani non ne hanno alcuna fiducia e ripongono tutte le loro speranze nell’intervento del medico settentrionale. Purtroppo il malato è nelle condizioni tali che nulla può ormai essere fatto per lui e di lì a poco morirà. Levi è stato trascinato lì come uno stregone, ma non opera nessun miracolo. Non ha mai esercitato la professione di medico ed è ben deciso a non farlo ora. La sua esperienza deve finire lì. Invece il giorno dopo, fuori dalla sua porta di casa, fin dal primissimo mattino, trova le donne dei contadini che lo attendono fiduciose perché curi i loro bambini… “Dall’uscio mi giungeva un suono di voci femminili e un pianto di bambino. Una decina di donne, con i bimbi al collo o per mano, aspettavano, pazienti, la mia levata. Volevano mostrarmi i loro figli perchè li curassi. Erano tutti pallidi, magri, con dei grandi occhi neri e tristi nei visi cerei, con le pance gonfie e tese come tamburi sulle gambette storte e sottili. La malaria, che qui non risparmia nessuno, si era già insediata nei loro corpi denutriti e rachitici. Io avrei voluto evitare di occuparmi di malati, perché non era il mio mestiere, perché conoscevo la mia poca competenza e sapevo che, facendolo, sarei entrato - e la cosa non mi sorrideva – nel mondo stabilito e geloso degli interessi dei signori del paese. Ma capii subito che non avrei potuto resistere a lungo nel mio proposito. Si ripetè la scena del giorno precedente. Le donne mi pregavano, mi benedicevano, mi baciavano le mani. Una speranza, una fiducia assoluta era in loro”.
Levi non si spiega i motivi di quella fiducia così cieca e illimitata nei suoi confronti. Era arrivato in paese solo il giorno precedente e il primo malato per il quale era stato richiesto il suo aiuto era morto. Ma le donne si dicono convinte che lui non è un “medicaciucci” come gli altri, anzi sono sicure che è “uno bono cristiano”. I contadini si erano accorti che, pur nella sua impotenza, Levi si era tuttavia sforzato di fare qualcosa per il moribondo, l’aveva guardato con umanità e interesse, con sincero dispiacere… Abituati ad essere abbandonati a loro stessi dallo Stato che pur tuttavia non rinunciava ad esigere da loro tributi gravosi e ingiusti, assuefatti all’odio o al disinteresse dei signori che non li hanno mai considerati come esseri umani, i contadini lucani provano un’immediata simpatia e una fiducia istintiva e illimitata per il nuovo venuto. Il loro profondo bisogno di conforto trova nel confinato Levi la giusta rispondenza e tra loro si fonderà un rapporto profondo di amore, reciproca stima, dignità. Levi farà anche degli excursus di natura sociale, politica, etnologica, storica e mitologica, ma quello che gli rimarrà nel cuore come un valore assoluto e decisivo sarà quel sentimento di fraternità e di partecipato interesse per la loro terra e la loro causa, che diventerà poi la causa meridionale, quella affettuosa disposizione dello spirito sempre vigile, costantemente attenta che si tradurrà in commossa partecipazione al loro mondo, alla loro cultura, alle loro tradizioni antichissime, ancestrali, nel rispetto profondo della loro umanità, che non verrà mai meno in Levi. Da quel momento egli sarà per sempre unito ai contadini meridionali, la loro causa sarà la ragione profonda della sua esistenza come uomo e come artista. Dopo la Liberazione, Levi andrà a vivere a Roma, prima come direttore del quotidiano “Italia Libera”, del Partito d’Azione, a cui apparteneva, poi soprattutto come scrittore, pittore e fiero esponente della politica meridionale. Viveva in un appartamento in affitto, a Palazzo Altieri, insieme a Linuccia Saba, la figlia del poeta, con una grossa tartaruga dipinta di giallo e blu che circolava liberamente e le tele dipinte o in attesa che occupavano metà della sua casa. Ormai scrittore di fama, grazie a “ Cristo s’è fermato a Eboli”, avidamente letto a Montecitorio e a Palazzo Madama , riaffermato pittore di valore, in seguito Senatore della Repubblica eletto nelle liste indipendenti del partito comunista ( 1963 e 1968), Levi non aveva smesso di fare viaggi nel mezzogiorno d’Italia e all’estero e da ognuno di questi aveva ricavato materiale artistico per farne dei libri. Erano così nati “Le parole sono pietre”, da alcuni viaggi in Sicilia (Premio Viareggio 1956), “Il futuro ha un cuore antico”, da un viaggio sentimentale attraverso la Russia (1956), “La doppia notte dei tigli”, un resoconto di un viaggio in Germania (1959) e “Tutto il miele è finito”, poetico viaggio in Sardegna (1964), tutte opere che testimoniano il suo impegno di intellettuale progressista, impegnato socialmente e politicamente, anche se artisticamente nessuna di queste ottenne gli esiti e i consensi del “ Cristo”.
Come politico ha il merito della legge sulla panificazione, grazie alla quale si è salvato in Italia l’uso del forno a legna, per cuocere il pane casareccio e la pizza napoletana, ma quello che più gli premeva però non riuscì ad ottenerlo, ossia riuscire a fare ottenere l’autonomia ai contadini meridionali, svincolarli dalla morsa dello Stato. Sapeva bene che l’industrializzazione e le opere pubbliche del neocolonialismo e il consumismo avrebbero distrutto per sempre la civiltà rurale della Lucania, senza aprire, di converso, le porte della modernità ai contadini. Sapeva che col miraggio borghese del posto fisso milioni di contadini del sud sarebbero stati condannati ad andarsene spezzando ogni continuità di rapporto con il proprio mondo culturale. Sapeva che sarebbe stata sventrata una società che aveva un suo equilibrio, senza che per questo fosse risolta la questione meridionale. Ma non potè fare nulla per fermare certi ineluttabili e perversi ingranaggi. Le sue profezie valgono oggi per i paesi del terzo mondo, l’Africa, l’Asia, i paesi Sudamericani, per l’Italia ormai non c’è più nulla da fare, il misfatto è compiuto. Dopo la sua morte, avvenuta a Roma, nel 1975, Linuccia Saba parlò di Levi e dei suoi amici, uno di questi era Rocco Scotellaro, il giovane Sindaco Poeta di Tricarico, che morì giovanissimo, che spesso lo andava a trovare a Roma. “Volevamo molto bene a Rocco – disse Linuccia - e mi piange il cuore ancora adesso quando penso che è morto tanto giovane, forse più giovane della sua vera età. Aveva ventinove anni. Ricordo che lo affascinava la grande città e quando veniva a Roma stava sempre da noi, che allora abitavamo a Palazzo Altieri, in un appartamentino in affito. La città lo stancava molto. Se voleva riposarsi veniva in camera mia, mi chiedeva se poteva stendersi sul letto e voleva che gli leggessi le sue poesie. Gli piaceva moltissimo sentirsele leggere. Quando si sdraiava teneva i piedi fuori dal letto e non si toglieva le scarpe. Io non capivo e gli dicevo sempre: “Togliti le scarpe, stai più comodo. No, no, sto bene così”, rispondeva. Un giorno però insisti insisti, lui se le è tolte: non aveva i calzini, poveretto. Era sindaco di Tricarico, ma era così povero che non poteva permettersi neppure i calzini. Ricordo anche con molta tenerezza quando lui scoprì la bistecca. Non ne aveva mai mangiate e un giorno, in un ristorante, sentendo che la ordinavo per me, volle imitarmi e ne chiese una anche lui. Quando la vide sul piatto gli fece un effetto immenso. Cominciò a mangiarla e gli piacque enormemente. Continuava a ripetere che doveva farla assaggiare a sua madre. Avevamo alle spalle un cameriere che doveva servire il vino. Appena questi fece il gesto di versarne un po’ nel mio bicchiere, Rocco gli strappò di mano la bottiglia esclamando: “La bistecca sì, ma il vino lo versano gli amici”. In quel momento capii che Rocco era un capo, perché aveva detto quella frase in un modo talmente sicuro che poteva avere soltanto uno nato per comandare. E il cameriere non reagì.
Che cosa rimane oggi di Carlo Levi, ai contadini, nel centenario della sua nascita? A parte tutta la copiosa raccolta delle sue opere pittoriche che si trova a Palazzo Lanfranchi, a Matera, “con la sua toccante e dolente bellezza”, nelle Grotte dei Sassi, dove si cela la capitale dei contadini, il cuore nascosto della loro antica civiltà, c’è un Parco Letterario a lui dedicato, ad Aliano, fra case bianche e nascondigli d’argilla, dove la casa è esattamente la stessa di quando fu da lui lasciata nel 1936 e dove tutto è rimasto intatto, i sentieri, i cieli, gli odori, il profumo dei peschi e dei mandorli, e l’orizzonte si fa insolito, bianco, sfumato, quasi fiabesco lungo le torri di terra, le capre, il cimitero, i peperoni, gli esorcismi, i monachicchi , i briganti e le porcellane , gli spazi che si dilatano e le argille che cominciano a sciogliersi e a colare lente per quei pendii luminosi che inseguono il vuoto scivolando in basso, grigi torrenti di terra in un mondo liquefatto. Ecco, questo è rimasto, la straordinaria corrispondenza tra luoghi raccontati e i luoghi realmente esistenti è strettissima al punto tale che immergendosi negli ambienti lucani descritti da Levi, si stenta a credere che siano trascorsi quasi settant’anni senza che questi abbiano apparentemente subito trasformazioni. Se volete ritrovare Levi e ricostruire le immagini e le emozioni che descrive nel suo libro-totem, il “Cristo si è fermato a Eboli”, è sufficiente inoltrarsi su questo percorso dove un’architettura animistica, una teoria silenziosa di sguardi attenti tra i gerani dei balconi e le pale dei fichi d’india, vi guarda, vi spia e vi ammonisce, inviandovi una sorta di messaggi esoterici. Ma il suo pensiero sul mondo dei contadini e sulla questione meridionale non è affatto utopistico e contraddittorio, ma attualissimo. Andate a rileggervi cosa scrisse nel “Cristo” sulla necessità dell’autonomia e sugli interventi dello Stato. Andate a rileggervi il suo pensiero su quella classe di parassiti succhiasangue che ancora infesta i nostri paesi del sud e poi mi direte se ho torto o ragione.
“ …Il vero nemico dei contadini, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile è la piccola borghesia dei paesi. E’ una classe degenerata, fisicamente e moralmente, incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finchè questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere la questione meridionale…. Le terre sono andate progressivamente impoverendo, le foreste sono state tagliate, i fiumi si son fatti torrenti, gli animali si sono diradati, invece degli alberi, dei prati, dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte… Non ci sono capitali, non c’è industria, non c’è risparmio, non ci sono scuole, le tasse sono insopportabili e sproporzionate… Questo è il risultato delle buone intenzioni e degli sforzi dello Stato, di uno Stato che non sarà mai quello dei contadini, e che per essi ha creato soltanto miseria e deserto”.

(Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi, Einaudi, Euro 8,20, p. 242, 1990)

"Il silenzio dei vivi" di Elisa Springer

di Lagi
E’ una di quelle giornate un po’ grigie, sono in giro in centro, all’improvviso mi ricordo che devo cercare delle informazioni in biblioteca. Decido di fare una scappata. Adoro le biblioteche, ogni libro è quasi un’opera “sacra” per me, ed è bello sorprendersi di fronte agli scaffali, esaminandoli uno ad uno. Scoprire se ci sono delle novità, curiosare per vedere quanta gente ha letto quel libro che hai preso dallo scaffale, che ti affascina, e non sai neanche perché. Lo ammetto, io sono una di quelle lettrici che, in libreria o in biblioteca, sceglie i libri in base al proprio istinto: non mi soffermo troppo sull’autore o sulla trama, a volte mi colpisce il titolo, a volte la copertina. Non so, scelgo quel libro perché mi ispira, sento che devo leggerlo, che mi dirà qualcosa di importante su cui riflettere. A volte, i libri che “trovo” in questo modo così casuale, mi lasciano qualcosa dentro, qualcosa che è difficile da spiegare, un senso di smarrimento e speranza nello stesso tempo.Ed è così che mi sono sentita quando sono incappata nel libro di Elisa Springer, “Il silenzio dei vivi, all’ombra di Auschwitz un racconto di morte e di resurrezione”: il coraggio di Elisa, deportata a soli 26 anni nel più grande campo di sterminio nazista, le offese, le umiliazioni subite, ridotta a una larva umana (arriverà a pesare 28 chili), e nonostante tutto questo orrore, continuare a trovare dentro di sé la forza per sopravvivere. Scampata alla camera a gas, trasferita a Bergen Belsen (il campo dove morì tra gli altri anche Anna Frank), e a Theresianstadt, quando ritorna a casa Elisa decide di non parlare della sua tremenda esperienza per oltre cinquant’ anni, nasconde con un cerotto il numero della marchiatura di Auschwitz, e tenta di vivere una vita normale, si trasferisce in Italia, ha un figlio. Ma poi, grazie anche al sostegno di suo figlio, Elisa Springer decide di scrivere la sua storia. Sono forti le sue motivazioni, e dolorose, ciò che la spinge a scrivere “è l’aver provato lo strazio più grande, quello di dover subire l’indifferenza e la vigliaccheria di coloro che, ancora adesso, negano l’ evidenza dello sterminio”. E si rivolge ai giovani, i germogli del domani, li esorta ad andare a visitare i campi di concentramento. “La nostra voce, e quella dei nostri figli, devono servire a non dimenticare, a non accettare con indifferenza e rassegnazione, le rinnovate stragi di innocenti. Bisogna sollevare quel manto di indifferenza che copre il dolore dei martiri (…) Per non dimenticare a quali aberrazioni può condurre l’odio razziale e l’intolleranza, non il rito del ricordo, ma la cultura della memoria. Per non dimenticare orrori e crimini, persecuzioni e campi di sterminio, nell’intento di contribuire a tramandare alle future generazioni un messaggio di amore e di pace”.

***

E’ estate, e con un gruppo di amici decidiamo di fare il giro della Germania. Passiamo diversi giorni a divertirci e a girare per la Baviera. Decidiamo però di fare una sosta anche a Dachau, nel campo di concentramento. Non so se sia stato il libro a stimolare il mio interesse per una visita a Dachau, so solo che è stata un’ esperienza che non dimenticherò mai nella mia vita. E’ pesante l’atmosfera che si respira, si gira per le baracche, si vedono le foto che testimoniano l’orrore. L’ ingresso riporta lo slogan “Il lavoro rende liberi”. In fondo, sono state costruite delle cappelle per pregare. Mi colpisce la costruzione ebraica che ricorda una specie di caverna buia, con un’ unica luce che viene dall’ alto, come un lunghissimo e stretto comignolo. Tu, dal basso, ti senti soffocare, e vedi quella luce, così fioca e così lontana come se fosse l’unica via di uscita. Una libertà lontana e irraggiungibile. All’ improvviso si avvicina un gruppo di ragazzi ebrei che, in rigoroso silenzio, si mettono a suonare con flauti e violini, all’ interno della costruzione. La musica ti avvolge, è struggente, mi guardo intorno, tanti turisti si avvicinano, come me, per meglio ascoltare quel suono che ricorda il dolore dell’uomo. Ognuno di noi è dotato di una macchina fotografica, sarebbe bello immortalare con una foto quel momento. Ma nessuno ha il coraggio di interrompere quel momento così sacro. Restiamo tutti immobili, e in silenzio. Con gli occhi umidi e un groppo alla gola. E il mio ricordo va ad Elisa e ai sopravvissuti. Riprovo quello sgomento e quel senso di smarrimento che mi aveva trasmesso il libro, il silenzio dei vivi: “Un fiore…solo un fiore piantino per ogni lacrima che cadrà dai loro cuori. Saranno loro, i fiori di quel deserto e lì, in silenzio, comprenderanno perché tanti milioni di innocenti, sono nati “solo” per morire”.

(Il silenzio dei vivi, Elisa Springer, Marsilio Editore, Euro 10.50, 22 edizione, p. 124, 1997

Gigi Meroni

Il dribbling della farfalla di Augusto da San Buono

Tra calcio e letteratura non c’è mai stato un gran feeling ; sì, il vecchio Saba ha scritto le famose cinque poesie per il gioco del calcio, ma più che altro è stato – come dice lui stesso – un inno alla squadra paesana, ossia la Triestina degli anni ’50, dove la sua “serena disperazione”, i giochi metrici, l’enfasi sentimentale s’illuminano di interne epifanie, sul rettangolo verde, dove il poeta s’unisce all’ebbrezza della folla che trabocca sul campo dopo un gol degli alabardati. Anche Giacomino Leopardi, nel 1821, scrisse un'ode dedicata a una stella del pallone, all'epoca una sorta di incrocio tra la pallavolo e il tennis, ma era costume al suo tempo dedicare odi e carmi ai nobili delle zone. Poi dobbiamo ricordare Vittorio Sereni, che presagì, in tempi non sospetti, gli eccessi e i veleni del calcio miliardario, nonché le tribolazione della sua amata Inter .
Ma i veri poeti del calcio sono stati Niccolò Carosio, Gianni Brera, Sandro Ciotti, Enrico Ameri, Nando Martellini, Gianni Minà, Candido Cannavò, ossia quei giornalisti-scrittori o radiocronisti, che hanno vissuto per il calcio, grandi maestri di giornalismo, ma anche di letteratura sportiva, a cui vanno aggiunti scrittori di oggi come Cesare Fiumi, Giuliano Sadar, Fernando Acitelli e Nando Dalla Chiesa , che con “La farfalla granata - meravigliosa e melanconica storia di Gigi Meroni, il calciatore artista", è giunto diritto al cuore dei tanti tifosi e ammiratori del campione comasco. E da questo Libro l’attore Antonio Calò ha tratto la sua pièce teatrale “Il dribbling della farfalla”. Il rapporto calcio e teatro praticamente è inesistente, se togliamo le macchiette, godibilissime, di Teo Teocoli: Caccamo, Maldini, Galliani e Moratti; eppure siamo cinquanta milioni di tifosi di calcio. Possibile che un testo sul calcio non interessi nessuno?
Sotto questo aspetto la pièce IL DRIBBLING DELLA FARFALLA è davvero qualcosa di nuovo e originale nel panorama calcistico-letterario; con un tono dimesso, semplice e poetico, colloquiale, senza enfasi o squilli di tromba, ma con tutte le mediazioni ironiche e umoristiche che richiede un personaggio su generis come Gigi Meroni, Calò ha disegnato traiettorie lievi, da farfalla, un impasto fragile, fatto di penombre, con qualche luce e qualche incertezza esecutiva, ma con i piedi ben piantati… nell’aria, come direbbe qualcuno.
“Il dribbling della farfalla” è un testo dichiaratamente surreale, raccontato da un immaginario allenatore della Libertas San Bartolomeo, “l’invincibile squadretta dell’oratorio di Como”, dove Meroni mosse i primi passi, che rievoca la vicenda, ora burlesca, ora ironica, ora giocosa e sentimentale del tempo “quando eravamo poveri e felici “, la storia di uno che “sulla fascia era simbolo di libertà; una pièce, dicevamo, scritta tra il lusco e il brusco, da “messico e nuvole”, fatta di fumo, cioè di niente, che Antonio Calò, traendo spunti dal libro di Della Chiesa ha scritto e – insieme all’amico regista Giuseppe Miggiano - rappresentato con la loro compagnia teatrale, “ La Calandra” di Tuglie , in tutta Italia, dalla Calabria a Como, città natale di Gigi Meroni. Ma che c’entra un Antonio Calò con uno da “luna padana” come Gigimeroni? ,“E’ quel suo lottare duramente per conquistarsi il suo spazio di autonomia e libertà, quel suo dribblare un destino già segnato fatto di deliri e ingiurie, di estasi e lamenti e di tutti gli “accidenti” della vita, che mi ha fatto innamorare di lui, dice Antonio Calò.
In Gigi Meroni l’arcano si unisce all’alfa e l’omega, c’è il poeta, l’artista, ma anche il riformatore, il “Calimero” ( così lo chiamavano anche i suoi tifosi) che si prende le sue rivincite sulla sorte, c’è un nuovo spirito rivoluzionario che ritesse la storia e il mondo.
18 agosto 2005
Alla cieca di Augusto da San Buono - Chieti

Con " Alla Cieca", Claudio Magris fa incetta di premi. Dopo aver vinto il Premio Giuseppe Tomasi Lampedusa , ha vinto il «Premio del mare» , per la narrativa, con la seguente motivazione della giuria: " Magris nel suo romanzo Alla cieca celebra il mare come metafora della vita, rappresentando le vicende dei suoi personaggi come una sofferta navigazione nelle tempeste della storia. Attraverso la propria vita e quella dell'avventuriero che in lui si sarebbe incarnato, il protagonista - un alienato mentale, o presunto tale - ci racconta gli impazzimenti della storia: il fascismo, il comunismo, le guerre. E ci propone una lucida e dolorosa riflessione sull'infinita schiera di naufraghi che essa ha provocato e provoca. Un'opera, quella di Magris, che appare destinata a rappresentare una pietra miliare della narrativa italiana.Nel nuovo libro dell'autore di "Danubio" e "Microcosmi" tornano i temi chiave dell'uomo nel suo rapporto con la storia, il mare, e l'avventura. Vicende, sentimenti e personaggi che s'imprimono nella memoria. Due secoli di storia tra racconto e riflessione, destini individuali ed epopee collettive.Ma non tutti sono d'accordo sulla grandezza del libro.
Ad esempio una mamma scrive:"I propositi dell'autore saranno anche buoni, ma è il libro è di una noia mortale: ripetitivo, grammaticalmente contorto… soprattutto inadatto a ragazzi della 1°liceo, come mio figlio, costretti a leggerlo come compito delle vacanze estive. Così si fa morire l'amore per la lettura...Mentre un'altra lettrice , Anna , scrive: "Alla cieca", secondo me è un autentico capolavoro. Un libro intriso di disperazione, la disperazione di chi ha visto sorgere e cadere ideologie, regimi, muri, utopie. E ha visto gli eterni donchisciotte della storia, che sono stati milioni, travolti dai loro sogni, ingannati, umiliati, ridotti a marcire nei lager del mondo. La materia è tanta, magmatica, incandescente, come la lava di un vulcano in eruzione, ma dominata perfettamente da Magris. L'io narrante è confuso, fragile, malato. Il caos della storia lo ha travolto. Ma l'autore regge tutti i fili della sua vicenda, dei suoi deliri, delle sue angosce, delle sue tante vite, con grande maestria. Il suo è un discorso che abbraccia un intero secolo, il "secolo breve" che in realtà è stato lunghissimo e di una crudeltà inenarrabile. Magris rende giustizia, finalmente, ai tanti nessuno che a Goli Otok come a Dachau, nelle foibe e nei gulag, hanno pagato durissimamente per quello in cui hanno creduto. Confessione e referto clinico, epopea e autobiografia, traccia continuamente cancellata e riscritta, alla cieca intreccia storia e delirio, mito e ricordo. È un viaggio nel tempo che commuove e sgomenta, scava nelle pieghe più inquiete e dolorose dell'anima per trovare un senso, o almeno una estrema via di fuga.
(Alla cieca, Claudio Magris, Garzanti Libri, euro 18, pp. 335, 2005)

"Miseria dello storicismo" di Karl. R. Popper

di Lagi

La tesi del libro di Popper, così come da lui riportato nella prefazione all’edizione italiana, è che la credenza diffusa nel determinismo storico e nella possibilità di predire il corso storico razionalmente o “scientificamente” è errata.Si tratta non solo di una critica alla filosofia storicista della storia, ma Popper nella sua analisi cerca connessioni tra storicismo e modo utopistico di concepire le cose, “ossia il sogno di portare il paradiso sulla terra”: una critica alle idee utopistiche di una pianificazione centrale e di un’ economia centralmente pianificata, più dal punto di vista della logica e del metodo piuttosto che da quello dell’economia.Scrive Popper: “Credo che un’economia competitiva sia più efficiente di un’economia centralmente pianificata, ma non ho mai creduto che questo fosse un argomento decisivo contro la pianificazione centrale dell’economia: se una tale pianificazione potesse produrre una società più libera e umana o anche solo una società più giusta di una società competitiva, la patrocinerei anche se la pianificazione fosse meno efficiente della competizione. E’ mia opinione, infatti, che dovremmo essere pronti a pagare un alto prezzo per la libertà. Come altri prima di me, pervenni, comunque, alla conclusione che la pianificazione centrale dell’economia, o l’ingegneria sociale in grande stile (che io ho chiamato “ingegneria sociale utopistica”) un “fuoco fatuo”. Essa ci fa affondare in una palude estremamente pericolosa, la palude dell’illimitata burocrazia e dell’illimitato potere dello stato. Se tentiamo superbamente di portare il paradiso sulla terra, riusciamo soltanto a trasformare la terra in un inferno”.Secondo Popper occorre abbandonare il sogno di un mondo perfetto, non esiste un dio nascosto che dirige gli eventi né una legge dialettica che possa garantire l’esito delle nostre azioni. Un vero e proprio attacco allo storicismo e alle filosofie profetiche della storia; un invito a stare sempre attenti, a creare un forte spirito autocritico per correggere gli errori in tempo e per cambiare direzione. E infine, l’ultima provocazione: “Non potrebbe darsi che gli stessi storicismi siano riluttanti al cambiamento ? Non è forse la paura del mutamento che li rende assolutamente incapaci di opporsi razionalmente alle critiche e che induce altri ad accogliere il loro insegnamento? Si direbbe quasi che lo storicista cerchi di consolarsi per la perdita di un mondo che non cambia attaccandosi a questa idea: che il mutamento può essere previsto perché è governato da una legge che non cambia”.

(Karl. R. Popper, Miseria dello storicismo, Universale Economica Feltrinelli, euro 8, 2 edizione, pp 162, 2003)

25 giugno 2006

Il tema della laicità dello Stato

di Angelo Bruno Protasoni (tratto da La Prealpina del 23 novembre 2005)

Il tema della laicità dello Stato, e quello dei limiti d'intervento da parte del Vaticano e della gerarchia ecclesiastica, sono già stati ampiamente analizzati dal suo giornale.
Questo dibattito ha però in qualche modo trascurato le recenti parole di Benedetto XVI, "la Chiesa non intende rivendicare alcun privilegio ma adempiere alla propria missione nel rispetto della laicità dello Stato", che sono purtroppo passate quasi inosservate perchè sovrastate, e in qualche modo contraddette, da una serie di successive prese di posizione di ben altro tenore da parte di alcuni rappresentanti dei vescovi italiani.
Ed è un peccato perchè le parole del Papa sono invece importanti, pesanti e soprattutto impegnative.Noi pensiamo che, al di là di dichiarazioni strumentali dettate da contingenti (spesso miserabili) interessi di parte, sia oggi evidente a molti la necessità per lo Stato italiano e per la Chiesa Cattolica di porre mano, non appena possibile, ad un trattato concordatario che mostra ogni giorno di più i suoi limiti di fronte ad un panorama nazionale in questi anni profondamente mutato.
Se l'Italia non è evidentemente più quella del 1929, quando Mussolini e Gasparri firmarono i Patti Lateranensi, molto è anche cambiato rispetto alla revisione di quel trattato, ad opera di Craxi e Casaroli, nell'ormai lontano 1984.
Noi ci troviamo oggi di fronte a un paese, e a una Chiesa, molto diversi rispetto ad allora. E non si tratta solo di una naturale evoluzione dei costumi e della sensibilità dei cittadini, oggi indubbiamente più attenti a diritti individuali fino a ieri trascurati. Noi dobbiamo ora, soprattutto, fare i conti con una società che negli ultimi vent'anni è cambiata profondamente nella sua composizione etnica, culturale e religiosa. E nessuno può chiudere gli occhi di fronte a questa mutazione epocale che è evidente, che è irreversibile, che non ha precedenti in Italia nell'ultimo millennio.
Questa nuova situazione richiede quindi, anche nel rapporto fra Stato e Chiese, delle risposte diverse e coerenti con un paese che è oggi indubbiamente cambiato.
Senza anacronistici richiami a un anticlericalismo di stampo ottocentesco ma ponendo invece attenzione in modo costruttivo a un tema che è attuale, che deve essere affrontato con senso di responsabilità e che alcune forze politiche fingono di non vedere come urgente solo in funzione di un meschino e deplorevole uso della religione a fini elettorali.
L'applicazione rigorosa delle norme concordatarie attualmente in vigore pone alla stessa Chiesa, giova ricordarlo, dei limiti che sarebbe indubbiamente giusto rimuovere. L'autorità ecclesiastica ha infatti il pieno diritto di enunciare senza alcun vincolo i pareri e le indicazioni che ritiene necessari in difesa dei propri valori. Così come ciascun cittadino ha facoltà di esprimere liberamente il proprio giudizio in merito a queste esternazioni. E così come lo Stato Italiano ha il dovere di prendere delle decisioni che siano - laicamente - nell'interesse di tutti e quindi adottate senza alcun condizionamento dettato da una fede religiosa.
Per questi motivi appaiono stridenti, inattuali e limitativi della stessa libertà della Chiesa, i privilegi - non solo di carattere economico - di cui il Vaticano, la Chiesa cattolica e i suoi esponenti godono in virtù del Concordato.
L'insegnamento della religione nelle scuole effettuato da personale oggi messo in ruolo, scelto dalla curia (che ha anche potere di revoca) e pagato dallo Stato, è indubbiamente l'aspetto più evidente e più anacronistico di una situazione di ingiusto privilegio.E così è per i finanziamenti alla scuola privata confessionale a grave danno di quella pubblica e per l'8 per mille che - grazie a un perverso meccanismo interpretativo - determina il versamento alle chiese di cifre triplicate rispetto a quelle che sarebbero effettivamente dovute nel rispetto delle indicazioni del contribuente.
E, ancora, per la recente esenzione dall'ICI, sottratta ai comuni non solo per gli edifici di proprietà ecclesiastica destinati al culto ma anche per quelli, numerosi, in cui vengono svolte normali attività commerciali.
Questi sono, purtroppo, solo alcuni di una serie di oneri che gravano nel complesso, sui cittadini italiani, per una cifra di seimila miliardi di vecchie lire ogni anno: una somma che rappresenta il 12% di una Finanziaria. E non si tratta, naturalmente, solo di privilegi di carattere economico.
Noi pensiamo che anche la Chiesa, per quanto concerne l'esercizio in modo credibile del proprio magistero, abbia molto da perdere in questo stato di cose.
E crediamo che questa situazione leda i diritti e i doveri di una Repubblica che ha invece il compito di garantire tutti nello stesso modo, indipendentemente dall'eventuale fede religiosa di ciascuno.
Ma riteniamo anche che l'idea di mantenere inalterate le attuali norme concordatarie sia frutto di una visione miope e controproducente perché l'eventuale progressiva estensione ad altre confessioni religiose di questi privilegi, cosa che sarà comunque inevitabile in uno Stato di diritto, comporterà conflitti, oneri e difficoltà gestionali - oltre che politiche - che saranno devastanti.
Per questi motivi ci è sembrata strumentale e pretestuosa la levata di scudi nei confronti di quanti hanno realisticamente posto all'attenzione di tutti, in un modo che ci è sembrato pacato e responsabile, il problema connesso alla necessità di un superamento dell'attuale Concordato fra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica.
Forze politiche che hanno così indicato la strada corretta per la piena libertà di espressione da parte delle autorità vaticane, pur con l'ovvia richiesta di rispetto - in materia di leggi e normative italiane - da parte di esponenti di uno Stato che è libero e sovrano ma che proprio per questo è comunque straniero rispetto alla nostra Repubblica.
E così per quanto riguarda gli interventi degli esponenti ecclesiastici italiani.
Senza paura dei loro giudizi su qualsiasi tema, quindi, ma anche senza un uso strumentale delle loro opinioni, che si ritiene debbano invece essere accolte come arricchimento del dibattito democratico. Libero poi ciascun esponente politico, così come ciascun cittadino, di poterle valutare e criticare, accettare o rifiutare, grazie alle leggi di una Repubblica che ha il dovere di garantire tutti nello stesso modo, senza alcun condizionamento confessionale.
Noi pensiamo che non vi sia alcuna forza politica, oggi in Italia, che auspichi il superamento del Concordato fra lo Stato e la Chiesa cattolica attraverso la prevaricazione del volere di una eventuale maggioranza contraria.
Su questo tema è stata fatta molta propaganda strumentale e indegna di un paese civile.
I mutamenti avverranno invece quando il paese, grazie a un dibattito sereno e costruttivo, avrà consapevolezza di questa necessità e quando questi valori diventeranno patrimonio comune.
Il nostro auspicio è che questo avvenga presto. E per questo impegniamo anche le nostre forze: perché che si possa arrivare all'affermazione, finalmente, di "quella certa idea dell'Italia" che per noi è basata, innanzitutto, sulla garanzia civile data dalla parità di doveri e diritti per tutti i cittadini.
Un principio irrinunciabile per una Repubblica che voglia dirsi laica e democratica.

Angelo Bruno Protasoni
Associazione Mazziniana Italiana

19 giugno 2006

"L'editore fortunato" di Carlo Caracciolo

L’editore partigiano di Max Lodi (tratto da La Prealpina del 22 novembre 2005)

C’era una volta il Caracciolo partigiano sulle rive del Lago Maggiore, del Cusio e nelle valli dell’Ossola. Caracciolo Carlo, oggi ottant’anni, presidente del gruppo editoriale Repubblica - L’Espresso, protagonista innovativo e ardito degli ultimi decenni di vicende della stampa italiana. E’ lui a raccontare del suo lontano e poco conosciuto passato. Lo fa nella conversazione con Nello Ajello che va sotto il titolo di "Carlo Caracciolo, l’editore fortunato", libro appena messo in circolazione da Laterza e ove si narra di un’avventura professionale d’eccezione assieme a curiosi fatti e fatterelli personali. Di babbo napoletano (diplomatico di carriera e sottosegretario agl’Interni del secondo governo Badoglio in rappresentanza del Partito d’Azione) e di madre americana, fratello di Marella che sposerà Gianni Agnelli, il giovanissimo Carlo approdò in Svizzera nel ’41 al seguito del genitore nominato console generale a Lugano. Vi sostò a lungo, frequentando le prime classi liceali e rimanendovi anche quando papà Filippo lasciò il territorio elvetico per raggiungere il Regno del Sud conquistato dagli Alleati. Convintosi della necessità di «...fare qualcosa di concreto» per dare il proprio contributo alla guerra civile, Caracciolo junior contattò il console americano a Lugano offrendogli i suoi servigi. Venne subito esaudito e incaricato di traslocare da Locarno a Cannobio un carico d’armi destinate ai partigiani. Di notte e su una barchetta a remi, egli esordì come militante della resistenza al nazifascismo portando una quarantina di mitragliatori marca Ispano Suiza dalla sponda svizzera alla sponda italiana del Verbano.
Con quei partigiani -venne associato alla brigata che aveva per comandanti Pippo Frassati e Armando Calzavara, il popolare "Arca"- restò alcuni mesi, alloggiato a Cannero dove fu tra l’altro protagonista d’un curioso episodio. Su indicazione d’alcuni esponenti dei Gap, si nascose in una villa di cui erano proprietarie un paio d’anziane signore fiorentine. Un giorno una delle due l’informò che il figlio, ufficiale degli alpini della Repubblica sociale, stava per venire a casa in licenza. Che fare? Carlo e gli altri partigiani ospiti con lui nella vecchia dimora decisero che la donna avrebbe dovuto dir chiaro come stavano le cose. Al giovane milite non si sarebbe fatto del male. Ma se non fosse stato ligio alla consegna del silenzio, la rivalsa sarebbe caduta sulle sue congiunte. Così per qualche giorno andò in scena la singolare convivenza tra nemici. «Se c’incontravamo nel giardino -rivela Caracciolo- fingevamo di non vederci. La sua presenza era ingombrante in molti sensi: i miei compagni e io non avremmo mai potuto ammettere, di fronte ad altri partigiani, di aver coabitato con un fascista di Salò senza sopprimerlo. La situazione era certo assurda, non tuttavia al di là dello standard di assurdità generale».
Il periodo più brutto dell’avventura fu l’inverno ’44/’45. Freddo paralizzante, marce faticose, scarsità di cibo. Unico sollievo, i lanci di armi, munizioni, vestiti e cibo dagli aerei alleati. La manna volante era annunciata via radio dalla frase convenuta "La neve è bianca". Il lavoro principale consisteva nell’attaccare piccoli gruppi di fascisti rubandogli fucili e pistole. Di prezioso aiuto si rivelarono più volte i contrabbandieri («Erano i nostri alleati naturali, in un certo senso ci permettevano di esistere. E’ capitato proprio a me, durante gli sconfinamenti in Svizzera per sfuggire ai rallestramenti, di entrare in una casetta abbandonata, trovando perfino dei viveri: salumi, patate, vecchi formaggi»). E di determinante sostegno fu il favore della gente del posto («Nelle zone in cui operava la nostra banda -parte integrante della Repubblica della Val d’Ossola- avevamo con noi il 90 o il 95 per cento della popolazione. Nei limiti del possibile ti davano da mangiare, ti aiutavano, ti nascondevano»).
Caracciolo venne catturato sul lago d’Orta e fatto prigioniero per un mese. Era il marzo del ’45. L’episodio ebbe risvolti farseschi. «Arrivando nella piazza del paese, trovai un gruppo di "soi-disant" partigiani, con camicie e fazzoletti rossi: un abbigliamento assai bizzarro, dato che nessuno andava in giro così. Li investii con aria un po’ da primo della classe: non sapete che le norme del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia vietano di girare con indosso simboli di partito? Per tutta risposta, uno dei presenti mi dà uno spintone da dietro gettandomi a terra. Un altro, aprendosi la camicia, mi mostra una maglietta con sopra disegnato un teschio; accanto, la scritta "me ne frego". Un terzo, quasi un bambino -io avevo diciotto anni, lui ne avrà avuti sedici- tira fuori un pugnale sormontato dalla croce uncinata e mi ordina: "Bacialo!". Insomma, si trattava di un gruppo della Decima Mas: fascisti travestiti da partigiani».
Condotto a Fondotoce e passato in custodia a un reparto della Guardia nazionale repubblicana comandato dal tenente Ajmone Finestra che sarebbe poi diventato senatore del Msi e sindaco di Latina, Carlo fu successivamente recluso in un grande albergo di Baveno in cui tre stanze erano adibite a galera. Della novantina di partigiani arrestati, solo pochi subirono la fucilazione. Tedeschi e fascisti infatti, incalzati dai nemici, cominciavano a ritirarsi precipitosamente dalla Val d’Ossola verso Novara. Si andava diffondendo la pratica dello scambio dei prigionieri e Caracciolo ebbe la fortuna d’essere inserito in una di queste trattative d’esito felice. «Mi trovai libero a Novara. La guerra non era ancora finita, mancavano pochi giorni, che poi seppi essere decisivi. Partii da Novara a piedi e arrivai il 24 aprile a Milano. In periferia, vestito di residuati bellici com’ero, e per via dei capelli biondi e della carnagione rosea, venni festeggiato quasi appartenessi a un’avanguardia della Quinta o dell’Ottava armata».
La tragedia della guerra finalmente volgeva all’esaurimento e non ci volle molto perché si profilasse la vera vocazione di Caracciolo. Entrò infatti, fin dal ’46, in un quotidiano, "Il Mondo", diretto dal vecchio antifascista ed esponente del Partito d’Azione Alberto Cianca. Si dedicò all’apprendistato. «Imparavo a passare i pezzi e a fare qualche titolo di cronaca. Scrivevo articoli anche con altro nome». Era l’unico redattore di politica estera. Attese all’incombenza per un anno, poi si recò negli Stati Uniti a studiare all’università bostoniana di Harvard. Al ritorno, anzichè far l’avvocato, fece l’editore. Stravincendo la causa.

(L’editore fortunato, Carlo Caracciolo, Laterza, euro 14, 2005)

"Morire col sole in faccia" di Vincenzo Podda

(tratto da La Prealpina del 18 novembre 2005)

Il ridotto alpino repubblicano (Rar) doveva essere l’ultima, gloriosa sacca d’una sorta d’epopea fascista della sconfitta. E cioè un cadere a schiena dritta al cospetto dell’avanzare delle truppe alleate e dei militanti del Cln. E quindi una trincea dove immolare, incrociando senza paura il fuoco nemico, ideali nei quali i fedelissimi della Causa credevano fortemente tanto da reclamare in loro nome, se non un “bella morte”, almeno una “fine giusta”.
A capeggiare la Schiera era Alessandro Pavolini, figura su cui s’è dilettata molta letteratura storica, soprattutto per denunciare l’inafferrabile volatilità del progetto valtellinese dei “duri” della Rsi. E invece adesso, nel libro “Morire col sole in faccia” edito da Ritter, il saggista milanese Vincenzo Podda dà dell’idea e della sua possibile esecutività un’interpretazione diversa, fondata sul ritrovamento e l’analisi di documenti numerosi corredati da particolari inediti. La sintesi che se ne può dare è la seguente: Pavolini non era un romantico visionario che vagheggiava improbabili epiloghi della tragica avventura repubblicana. Era, al contrario, un realistico assertore della della praticabilità della soluzione del “ridotto”. Non gl’importava di chiudere tra memorabili pompe combattentistiche la vita sua e del repubblicanesimo nero, ma di dare –per dir così- una sepoltura nobile a un’esperienza da lui ritenuta comunque l’unica possibile, considerata la piega assunta dagli eventi bellici dopo il ’43.
Il Rar rimase un febbricitante sogno non per al sua impalpabilità fattuale, ma per l’intervento di fattori esogeni. Lo impedirono i tedeschi, che ben si guardarono dal far parte l’alleato di Salò della trattativa di resa della Wehrmacht nel nord dell’Italia, con ciò compiendo un gesto non altrimenti definibile che tradimento; e lo impedì il Duce in persona, scettico fin dall’inizio – nonostante qualche esternazione di tono opposto sull’opportunità dell’impresa. Se non avesse tagliato la corda rifiutandosi d’impersonare il ruolo del comandante che onorevolmente cade alla testa dei suoi più appassionati accoliti, Mussolini avrebbe consentito un’azione temeraria, sì, e però non utopistica. Tanto che i partigiani se n’erano non poco preoccupati, dandovi serio credito, proprio pochi giorni prima della Liberazione. Il fascismo dunque non ebbe –come avrebbe potuto- le sue Termopili in Valtellina per il paradossale “afascismo” di chi ne sarebbe dovuto essere il primo e più valoroso alfiere. Un mediocre muretto fu testimone della fucilazione di Pavolini e di chi, come lui, aveva pensato a un diverso “altare” su cui sacrificare il bilancio –sia pure fallimentare- di un’esistenza politica. Tra le infinite colpe fu ad essi estranea quella di non aver scelto una morte migliore: per il peggio decisero altri.

NOTA DI REDAZIONE: lontani da sentimenti nostalgici, riteniamo doverosa una nota al fondo di questa recensione, di recente rassegna stampa, che volentieri riproponiamo sul web per una celere visione.
Alessandro Pavolini, gerarca fascista della prima ora, fucilato a Dongo assieme a Bombacci ed altri fu, durante il periodo repubblichino, un teorico della resistenza a oltranza, nonchè della costituzione del cosiddetto “Ridotto alpino repubblicano” (Rar), una zona impervia del territorio italiano dove i fascisti irriducibili si sarebbero dovuti insediare stabilmente, per difendere l’onore fino alla morte.
Di Pavolini si è detto anche che, fucilato e morente, si sarebbe nuovamente rivolto al plotone del Cln col braccio teso.

(Morire col sole in faccia, Vincenzo Podda, Edizioni Ritter, 30 euro, p. 384, 2005)

I fatti di Cefalonia

19 ottobre 2005
La memoria che si fa storia di Augusto da San Buono

“Non dimenticate tutto ciò ch’è successo. No, non dimenticatelo; scolpite queste parole nel vostro cuore”. (Primo Levi )


In certi casi la storia è “senza memoria”. Sembra esserci una sorta di tacito accordo nel voler ignorare, rimuovere, o addirittura nel negare “certi fatti scellerati”, certi eventi criminosi, ma anche l’eroismo di tanti morti trucidati, ad esempio a Cefalonia. Ma se questa reticenza era in qualche modo comprensibile da parte della Germania, che doveva faticosamente risalire dalle nefandezze, dalle brutture, dai genocidi, dai miasmi, dagli orrori del nazismo, assai meno comprensibile è stata la “rimozione” italiana per ben cinquantotto anni. Il paradosso è – diceva Rochat - che non è la Storia, così come è avvenuta, ad alimentare la Memoria, ma la memoria, volutamente o inconsciamente distorta o silente, a "costruire" la Storia. Ed è proprio per questo “mondo senza memoria” – scrive Bruna De Paula, curatrice della mostra/museo allestita in occasione del 60° anniversario della tragedia di Cefalonia – che noi vogliamo “ricordare”. Ricordare senza rancori, né polemiche, affinché giunga dal passato un messaggio per un futuro di pace. ”Il sacrificio della Divisione Acqui” – dice Vanghèlis Sakkaàtos, salvò l’onore dell’Italia ed è preziosa eredità dell’umanità nella lotta per la Libertà, la Democrazia e la Fratellanza, ma va anche detto che Cefalonia è stato una sorta di contenitore-laboratorio della follìa e della crudeltà, insensata e bestiale della seconda guerra mondiale, come di ogni altra guerra, una sorta di emblema delle atrocità, così come lo furono i campi di sterminio nazista, tragico frutto di un odio programmato, e le bombe che hanno devastato le popolazioni di Hiroshima e Nagasaki.

Ricordare è un nostro preciso dovere, un obbligo, affinché questo mondo di oggi senza più memoria recuperi il senso tragico della propria storia più recente.
Oggi a 60 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale, non è possibile fare a meno di tornare con la memoria ferita al dramma, a quella tragedia dell’umanità in cui persero la vita milioni di persone, spesso persone che senza alcuna colpa sopportarono sofferenze disumane e vennero annientate nelle camere a gas e nei crematori: “Bisognerebbe fermarsi davanti a ogni lapide”, - disse Papa Giovanni Paolo II - pregare per ottenere, attraverso la loro intercessione, il dono della pace per il mondo. Continuo a pregare senza mai cessare, nella fiducia che, in ogni circostanza, alla fine vincerà il rispetto per la dignità della persona umana, per i diritti di ogni uomo ad una libera ricerca della verità, per l’osservanza delle norme della morale, per il compimento della giustizia e del diritto di ciascuno a condizioni di vita degne dell’uomo. Quelle vicende tenebrose devono essere per gli uomini di oggi una chiamata alla responsabilità nel costruire la nostra storia. Mai più in nessun angolo della terra si ripeta ciò che hanno provato uomini e donne che da sessant’anni piangiamo!”
Ho parlato con un sopravvissuto, un testimone di quelle tragiche giornate consumate a Cefalonia in cui venne compiuto un massacro che non ha riscontro, lo sterminio collettivo di migliaia di italiani, “l’unico caso nel mondo – scrive Paoletti - in cui sono stati eliminati dei soldati, dopo che si erano arresi”.

Quando il vento, soffiando dal passato, fa parlare gli alberi, a Frankàta , un villaggio dell’isola di Cefalonia, gli anziani dell’isola vanno a raccogliere le voci di quei morti , e si fanno il segno della croce, perché in ogni ulivo c’è la memoria e il sangue dei 461 soldati italiani trucidati dalla furia insensata e dalla barbarie dei nazisti, che li falciarono con le mitragliatrici e si divertirono a fare il tiro a segno contro quei pochi che – non colpiti a morte – si dimenavano e si contorcevano. In quel luogo sacro, ad Athena, alcuni cefalioti poterono vedere coi loro occhi – e mai più dimenticare – quelle scene raccapriccianti di terrore e sentire le urla strazianti di dolore che sarebbero rimaste impresse per sempre nella loro memoria.

E così per gli altri 306 furono trucidati sulla scarpata di Kuruklàta, o i 631 del I° battaglione del 17° fanteria che trovarono la morte verso Troianata, i 300 bruciati sulle rive di Farsa, o che formarono alte montagne di ossa umane, i 312 massacrati presso la Casetta Rossa di San Teodoro e i 36 ufficiali fucilati nel vallone di Santa Barbara. Alla fine furono quasi diecimila i caduti a Cefalonia, compresi quelli annegati in mare. Qui l’Associazione Italo-Greca di Cefalonia e Itaca “Mediterraneo” ha allestito una mostra-museo permanente, in cui si celebra il sacrificio di una “generazione sfortunata dei ragazzi italiani”, chiamata ad esprimere, nel peggio di un’Italia allo sbando e in fuga, il meglio di sé stessi, che coincise con il sacrificio della loro vita.
“Bisogna ricordare quella sublime ribellione della coscienza, che costituì l’inizio di un nuovo periodo storico per l’Italia”, ha detto Ciampi. Quel gesto offrì un esempio fertile, fecondò il seme della resistenza armata, che doveva cominciare come una nuova epopea per il riscatto del paese”.
Davanti al Mausoleo, che ricorda “una delle più grandi e barbare stragi della seconda guerra mondiale, rimasta impunita e dimenticata”, è stato commemorato l’eccidio, il sacrificio di soldati italiani, che ebbero il coraggio di dire “ NO”, di non cedere le armi, e che con quel gesto estremo posero le basi della riscoperta della Patria.
Vogliamo ricordare i toccanti versi di un umile fante della Acqui, Olinto G. Perosa, che prefigurano le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. "Noi partivamo / verso Argostoli / incolonnati / sotto le corte canne / del mitra / un povero drappello / battuto / e decimato / Abbiamo perduto / guerre e speranze / e i nostri morti / sono lì / per terra / di quà e di là della strada / con gli occhi sbarrati / E il mare ... laggiù / in cui tanto avevamo sperato / ci guarda / indifferente / e muto!"
C’è anche - mi dice Sanseverino, uno dei sopravvissuti - la volontà di questi nostri martiri, questi angeli di Cefalonia, di voler risorgere in un mondo nuovo e pacificato in cui si possa porre fine alla follìa di tutte le guerre, un mondo unito nella solidarietà, nella giustizia e nella pace. E in questo senso, particolarmente significativo è stato l’atto dell’ambasciatore Spiegel della Repubblica Federale Tedesca, che ha deposto una corona sull’altare delle vittime, colmando una cesura che offendeva non solo gli italiani, ma tutti gli esseri umani in quanto tali, ricomponendo così una storia da sempre negata e trattata dai tedeschi non già come una colpa mostruosa da espiare, ma alla stregua di un peso odioso da eliminare, come se si trattasse di un enorme rifiuto da smaltire, lo “smaltimento di un crimine”, come ha scritto il giornalista tedesco Hans-Rudiger Minow.

E’ vero. Ci sono stati 58 anni di vergognoso silenzio, di seppellimento, di insabbiamento della verità e delle responsabilità, e non solo da parte del Governo tedesco; ma ora le parole dell’ambasciatore tedesco lasciano ben sperare per il futuro, sono un primo passo che gettano un ponte verso l’amicizia dei popoli italo-greco-germanico, che ci fa superare ogni rancore e odio del passato: “Non era facile – ha detto Spiegel - rappresentare il proprio governo nei luoghi in cui furono commessi dei crimini nel nome della Germania, crimini che significarono morte e dolore per migliaia di uomini. Mi commuove profondamente incontrare le stesse persone che vissero quei tremendi fatti e vi sopravvissero, che persero amici e parenti e che sopportano questo dolore da sessant’anni”.
Si chiede alla Germania qualcosa di più, di pagare un’adeguata riparazione per i miliardi di danni causati in Grecia, si chiede una espiazione morale e materiale, e anche ciò deve essere preso nella giusta considerazione e vagliato. Del resto anche da parte delle istituzioni italiane non risulta che abbiano provveduto a individuare, ringraziare, encomiare i cefaloniti che hanno offerto un aiuto umanitario ai combattenti italiani.
“I fatti di Cefalonia – scrive D’Agostino - non hanno bisogno di celebrazioni vuote e tronfie, aspettano ancora molta chiarezza, ma non dobbiamo avere paura di questa ingombrante memoria storica, forti della nostra consolidata democrazia, ispirata ai valori di pace, di libertà e di sicurezza, nel rispetto e nella tutela internazionale dei diritti umani.

Non dobbiamo dimenticare che i nostri tre paesi fanno parte della nuova comune Patria europea, nell’ambito del quale il concetto della democrazia greca, del diritto romano e dell’etica tedesca costituiscono il fondamentale pilastro per la costruzione del comune futuro”

"Il Sempione – Strada napoleonica, galleria ferroviaria" di Virginia Lodi

15 ottobre 2005
Traforo del Sempione: la storia

Fornire uno spaccato quanto più preciso ed obiettivo di fatti, persone e avvenimenti che hanno portato alla realizzazione di una fra le gallerie ferroviarie più importanti del panorama europeo. E’ quanto si propone il volume “Il Sempione. Strada napoleonica – galleria ferroviaria. Ferrovie e tramvie nel Verbano Cusio Ossola” (presentazioni di Paolo Ravaioli, Presidente della Provincia del Verbano Cusio Ossola, e di Claudio Zanotti, Sindaco di Verbania), pubblicato per mano degli editori Alberti e Grossi nel centesimo anno dall’apertura dell’omonimo tunnel, capolavoro dell’ingegneria ferroviaria di inizio secolo che, con la lunghezza di 19803 metri, riuscirà a conservare il primato fino ai giorni nostri. L’autrice, Virginia Lodi, offre un quadro vasto e dettagliato del valico del Sempione, a partire dall’età romana sino ad oggi. Si comincia dunque dal 47 d.c., quando l’imperatore Claudio decide di realizzare una mulattiera come alternativa a quella più impervia e ostile del Gran San Bernardo. Il racconto prosegue quindi con la descrizione degli sforzi compiuti da Stockalper, “le Roi du Simplon”, per ampliarne traffici e commerci, per poi passare alla grande tenacia profusa dagli ingegneri italiani e francesi nel trasformare questo piccolo ma cruciale collegamento in una importante strada carrozzabile secondo la volontà di Napoleone Bonaparte. Con un salto di qualche anno ci si ritrova quindi alla fine dell’Ottocento e ai primi tentativi per realizzare un traforo – secondo la tecnica di quegli anni – capace di collegare in poco tempo l’Italia, e soprattutto i suoi nevralgici centri del nord ovest, alla Svizzera e alle principali città della Francia. L’ultimo diaframma della prima galleria cadrà alle 7.20 antimeridiane del 24 febbraio 1905. Un breve scritto sul Simplon Orient Express, il treno di lusso che ha fatto sognare intere generazioni di viaggiatori, chiude il capitolo dedicato al Sempione per lasciar spazio ad una carrellata sulle principali linee ferroviarie che hanno consentito di collegare il tunnel alle maggiori città dell’Italia settentrionale.
Il volume, ulteriormente impreziosito dalla presenza di un inedito di Francesco Ogliari sulla Libera Repubblica dell’Ossola e arricchito del contributo di Raffaele Fattalini dedicato ai personaggi illustri del Sempione, si propone tuttavia di analizzare anche i mezzi di trasporto e le principali ferrovie che negli anni hanno servito, o continuano a servire, gli abitanti del Verbano Cusio Ossola. Si passa così dalla tramvia Verbania – Omegna alla Ferrovia elettrica Intra – Premeno, dalla cremagliera della Stresa – Mottarone agli arditi viadotti della Locarno – Domodossola. Con una curiosa digressione sui progetti mai realizzati della Locarno – Fondatoce e della Ferrovia Prealpina, primo quanto vano tentativo “…per collegare, una volta e per sempre, le due “sorelle” Intra e Pallanza…”.
Obiettivo dell’opera è dunque anche quello di porre all’attenzione generale il coraggio, la forza e la caparbietà che hanno animato queste importanti realizzazioni di inizio Novecento, di cui oggigiorno restano poco più che le ceneri. Perché, come ricorda l’autrice nella sua introduzione al volume, in una provincia come quella del Vco, caratterizzata da un territorio esteso per oltre il 50% ad una altezza superiore ai 1200 metri e con i dati di accessibilità alle scuole e ai presidi ospedalieri fra i più bassi di tutto il Piemonte, un rinnovamento infrastrutturale sulla scorta di quanto già avviato in passato sarebbe un decisivo passo in avanti per il rilancio economico e sociale dell’intero territorio.

(Il Sempione – Strada napoleonica, galleria ferroviaria. Ferrovie e tramvie nel Verbano Cusio Ossola – illustrato -, Virginia Lodi, Alberti Libraio Editore – Grossi Edizioni)

Il Duecento letterario italiano

Nota enciclopedica
E’ alla corte di Federico II di Svevia, come noto, che si può per la prima volta parlare di una scuola poetica italiana, sia pur nell’ambito di una volgarizzazione colta della lingua latina. Per i siciliani della corte federiciana, tuttavia, la lirica era una semplice fonte di svago, di evasione, per nulla lontana, almeno dal punto di vista stilistico, dalla cultura poetica provenzale e dalla tradizione trobadorica, della quale risultava anzi essere una riduzione tematica. Nei siciliani, che erano notai, funzionari e magistrati di corte, la lirica era infatti ristretta all’amore cortese, volutamente lontana dunque dagli argomenti politici e satirici tipici dei rimatori provenzali precedenti, nonché di quelli dei poeti toscani a loro immediatamente successivi.

Sono ben note le corrispondenze epistolari ed i legami professionali tra i poeti della corte siciliana e quelli dei primordi della scuola toscana che seguì le sue orme, come ad esempio le lettere tra Mazzeo di Ricco da Messina ed il ben più noto Guittone d’Arezzo, o la circostanza per la quale il siciliano Jacopo da Lentini (l’inventore del sonetto) fu di professione notaio, esattamente come Jacopo da Lèona, poeta toscano molto stimato a suo tempo, come Pier Della Vigna, consigliere di Federico II o come il pressoché sconosciuto Bonagiunta Orbicciani da Lucca, il vero e forte anello di congiunzione, assieme al fiorentino Davanzati, fra la lirica siciliana e quella che portò allo stilnovo.

Il nuovo arricchimento tematico, di cui Guittone si fece precursore, nacque però come spesso accade, da circostanze storiche. E’ la crisi comunale di Arezzo, infatti, con la costituzione della Signoria, a far riemergere definitivamente le argomentazioni politiche nelle rime dell’Aretino, nonché, per ragioni analoghe, in quelle del pisano Pinuccio dal Bagno, addirittura più raffinato, più filosofo di Guittone se ci riferiamo, appunto, al solo argomento politico.

Siamo certo ancora piuttosto lontani, proprio perché non si era ancora compiuto il salto di qualità apportato dagli stilnovisti, dalla musicalità e dal rigore formale che caratterizzeranno la Commedia di Dante, il primo capolavoro della nostra letteratura. Proprio a proposito della Commedia tuttavia, una lettura un poco più approfondita della poesia duecentesca mette in evidenza aspetti poco conosciuti dei contenuti ivi trattati. L’oltretomba è, infatti, tema ampiamente considerato dai rimatori del XIII secolo, i quali posso essere a tutti gli effetti considerati dei precursori di Dante. Qualcuno sostiene addirittura che l’Alighieri li avesse ben presenti all’atto della stesura del grande poema (assieme ai grandi classici), cosa del resto non solo verosimile, ma compatibile cronologicamente, perché essi si collocano, per lo più, giusto alla fine del Duecento.

Un esempio notevole di rimatore delle tematiche infernali e paradisiache è, infatti, Giacomino da Verona, che prende spunto dalla letteratura francescana per comporre in rima la descrizione dell’oltretomba attraverso due componimenti: il “De Jerusalem Celesti” ed il “De Babilonia civitate infernali”: una descrizione dell’Inferno in volgare veneto.

Più ancora di Giacomino bisogna ricordare il più grande poeta milanese del tempo, Bonvesin da la Riva, la cui opera principale, “Il libro delle tre scritture”, è un componimento che descrive anch’esso l’aldilà, in tre sezioni: il “De scriptura nigra”, il “De scriptura rubra” e il “De scriptura aurea”.
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Autore: A di Biase
Revisioni: 31 ottobre 2008
Fonti: La letteratura italiana (diretta da E. Cecchi e N. Sapegno)- Vol. I - Edizione Corriere della Sera -2005
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"Giuseppe Mazzini" di Roland Sarti

Giuseppe Mazzini, la politica come religione civile
Roland Sarti
Laterza Editore
pagg. 232

Parlare di Giuseppe Mazzini all’inizio del terzo millennio può apparire anacronistico oltre che scevro di significato. Eppure proprio oggi più che in altri periodi storici, a duecento anni esatti dalla nascita del patriota genovese, si sente forte l’esigenza di un pensiero politico laico che sappia nuovamente intendere e quindi scrivere e discorrere di Dio. Questo è l’aspetto dominante della visione politica, e ad un tempo ascetica, di Mazzini.
Figlio di un medico massone dedito alla cura dei bisognosi e di una adorata madre vicina al giansenismo, studente modello, dottore in giurisprudenza a 22 anni, fu egli stesso adepto di una di quelle società segrete che nel XIX secolo sobillarono nuovamente alla rivolta i popoli dell’Europa restaurata, la Carboneria.
Personaggio eclettico per eccellenza, seppe mirabilmente coniugare il rigore del capo cospiratore con la grande stravaganza e sensibilità che lo accompagnarono lungo tutto il corso della sua vita: visse quasi sempre sotto falso nome, braccato dalle polizie di mezza Europa, fu maestro di travestimento - la vecchia nobildonna, il prete e il gentleman inglese furono i suoi camuffamenti preferiti, per uscire di notte – amava cantare e suonare la chitarra. Lesse e scrisse intensamente per tutta la vita; fu giornalista, direttore di riviste letterarie, aprì una scuola laica per i bambini poveri di Londra che era già attiva da diversi anni quando Engels denunciò, nella sua opera più intensa, la condizione miserabile della classe operaia. Fu venerato dalle donne e ne ebbe molte, prima fra tutte Giuditta Sidoli, ma non si sposò mai.
L’idealismo, che fu la sua arma più grande, primo artefice del fascino magnetico che Mazzini esercitò sulla sua generazione e su quelle a lui immediatamente successive, fu per lui anche fonte di delusione e, a tratti, di disperazione. Repubblicano purissimo, accettò il triumvirato della Repubblica Romana dopo aver rifiutato la dittatura e, nei moti negli anni successivi, non disdegnò neppure di operare come soldato semplice.
Avverso alla monarchia, alla politica spregiudicata ma incisiva di Cavour, e più ancora alla politica europea delle alleanze che rischiò più volte di far naufragare definitivamente i suoi disegni, fu un inguaribile visionario: dotato di una fantasia fervidissima, venne più volte accusato di vivere nel mondo dei sogni. Tuttavia la Giovine Italia, la sua creatura nata per superare quelli che lui considerava gli sterili riti e le accidie della Carboneria, coinvolse le migliori menti del tempo e produsse una intera generazione di intellettuali e politici di primo ordine, oltre che cinque primi ministri del Regno d’Italia, tra cui Depretis e Zanardelli.
Mazzini fu artefice, per lo più passivo, dell’unificazione italiana proprio a causa delle sue resistenze antimonarchiche ed antifrancesi: in una biografia che lo riguarda si parla apertamente di come Cavour lo utilizzò a stregua di un’incudine su cui battere, politicamente, per formare il coagulo attorno a casa Savoia, tanto e vero che a partire da un certo punto della sua vita Mazzini continuò ad essere costantemente circondato e sorvegliato da agenti emissari del re, ma non venne più arrestato, nonostante la condanna a morte che pendeva sulla sua testa, fino a quando il momento delicato della presa di Roma non convinse Vittorio Emanuele a confinarlo, per qualche tempo e per evitare guai maggiori, nella prigione dorata di Gaeta.
Morì nel 1872, in seguito a complicazioni polmonari (si disse un tumore o un enfisema): un’immagine popolare lo ritrae sul letto di morte circondato dall’intero stato maggiore della massoneria italiana e dell’anticlericalismo del tempo. Se tuttavia è ammissibile, ed anzi storicamente provato, che il nostro prediligesse determinati ambienti culturali non è difficile oggi, leggendo anche solo poche righe dei suoi migliori scritti, capire che no, Mazzini non fu anticlericale né tanto meno ateo. Il suo intero pensiero è infatti molto più vicino ad una teologia che non ad una semplice idea politica.
Quando alle figlie dei Nathan - nella cui casa di Lugano Mazzini fu spesso esule e ospite – qualcuno chiedeva di che religione fossero, loro prontamente rispondevano:"Io sono mazziniana".

 
(A. di Biase, 20/08/2005)
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Rev. 31-01-13 AdB

"La guerra civile" di Giovanni Pellegrino

19 agosto 2005
di Augusto da San Buono

L'ultimo libro di Giovanni Pellegrino è difficile da "digerire", un libro che farà discutere. Parliamo de La guerra civile (Bur-Rizzoli, pp.176 ), un libro che ricostruisce per grandi linee la storia del dopoguerra, intrecciando un "filo rosso" che parte da Salò e arriva all'ascesa di Berlusconi al potere passando, inevitabilmente, per la fine della Prima Repubblica, che - secondo l'autore - coincide con la morte di Moro. La "guerra civile" è, naturalmente, quella che ha caratterizzato sessant'anni di storia repubblicana. Ovvero una guerra potenziale, che solo grazie a due grandi personaggi come Togliatti e De Gasperi , non è passata ad una situazione di guerra fratricida. Nel libro, Pellegrino è fortemente autocritico nei riguardi della sinistra e del suo partito (DS) : «Berlusconi è nato perché a sinistra in tanti erano convinti che la magistratura poteva essere una leva per arrivare al governo, e c'era un leader come Occhetto che era convinto di avere il monopolio dell'astuzia». Pertanto, com'era da prevedere, sta alimentando forti polemiche anche e soprattutto all'interno del suo stesso partito. Pellegrino afferma nel libro che la moderazione, in questo paese, è una parola che andrebbe rivalutata, intendendo proprio il riconoscimento della legittimità delle posizioni contrapposte: «Di questo sono profondamente convinto, ma ancora non accade e basta guardare i dibattiti televisivi per rendersene conto. Personalmente li trovo insopportabili. Io concepisco il dibattito politico nella logica greca dell'agorà: dove si andava per convincere ma si metteva in conto di poter essere convinti. Noi invece abbiamo quelle posizioni pregiudiziali per cui le persone non discutono, si abbaiano addosso, e questo determina un allontanamento dell'elettorato dai temi della politica; così come credo che la frattura del ceto politico italiano è causa, non ultima, del declino del paese»Tutti i libri di Pellegrino (vds. in particolare il precedente " Segreto di Stato") sondano, investigano continuamente il passato , la storia , cercando in quest'attività storica che non cessa mai frammenti di verità , tasselli che si aggiungono ad altri precedenti per completare il quadro della verità vera , - se mai ci si arriverà - o per consentirne letture diverse. Sono ferite della memoria , documenti correlati al tempo più buio e travagliato della nostra storia recente. Ma, diceva Mann, anche se "senza fondo è il pozzo del passato, dovremmo forse per questo dirlo insondabile?"Certamente no. Dobbiamo continuare a cercare quella verità, quel frammento, o quella scheggia che fa un po' più di luce. Per la nostra coscienza civile storica e umana , ed anche per la democrazia. La democrazia - diceva Popper - è un obiettivo verso cui si va, si cammina, si procede, sapendo però in partenza che è un obiettivo mai pienamente raggiungibile. In qualche modo è una meta che, a mano a mano che ci si avvicina, si sposta in avanti. Certamente la democrazia dovrebbe portare ad una assoluta trasparenza delle istituzioni e, quindi, a qualcosa di non compatibile con il concetto stesso di segreto, ovvero con l'occultamento di una verità ai cittadini. Ma nessuna democrazia nel mondo è riuscita a fare a meno del segreto.

(La guerra civile, Fasanella-Pellegrino, BUR, Euro 8,20, pp.166, 2005)

15 giugno 2006

Sandro Penna e i fanciulli

20 gennaio 2006
di Augusto da San Buono

Sandro Penna era un poeta dai versi semplicissimi e perfetti (nacque a Perugia il 12 giugno 1906, vi frequentò le scuole con risultati alterni fino al conseguimento del diploma in ragioneria, quando ormai aveva superato i vent’anni), e come tale era assolutamente inadatto alla vita, come la maggior parte di coloro che la vita la "scrivono" invece di viverla (Pirandello docet). Penna trascorse quasi tutta la sua scassatissima vita in modo schivo e anonimo, a Roma, tranne un breve soggiorno a Milano, dove lavorò come commesso in una libreria del centro, ma lo cacciarono dopo meno di un anno, per scarso rendimento e inettitudine. Quando ormai aveva quasi trent’anni, trovò un modestissimo impiego a Roma (praticamente gli facevano fare il fattorino) presso l’ufficio di un avvocato. Lo pagavano talmente poco che era costretto, per arrotondare lo stipendio, a vendere oggetti i più disparati presso le varie osterie della capitale. Praticamente vendeva di tutto - dalle lamette da barba alle pentole e alla biancheria intima - e da venditore ambulante ci sapeva fare, perdeva la proprio innata timidezza e imbranataggine... soprattutto se capitava - e allora capitava di frequente - che riconoscesse qualche letterato o artista fra i frequentatori del locale... Era talmente povero che viveva in subaffitto presso una buia e tetra stanza di una vecchia casa nella periferia di Roma... Quando fu scoperto come talento poetico, da Montale e poi da Saba, con cui divennero amici epistolari, chiese dei soldi ad entrambi (500 lire gli sarebbero bastate), ma Saba si professò povero quanto lui e Montale si defilò alquanto... Certo, allora c'era una miseria generale ( parliamo del dopoguerra), ma lui ha sempre - e dico sempre, fino all'ultimo giorno della sua vita - il problema di mettere insieme il pranzo con la cena... (per intercessione degli amici più influenti, Pasolini, Pecora, Bellezza, Raboni, che avevano cominciato ad apprezzare la sua poesia, gli fu assegnato il premio Bagutta, ma solo pochi giorni prima della morte). Insomma possiamo ben dire che la sua non è stata una vita molto comoda e lieta... pur non avendo avuto situazione particolarmente gravi e drammatiche, tranne quelle che gli erano derivate dalla sua omosessualità (come pedofilo si limitò a desiderarli, i bambini, senza mai toccarli, almeno che ne sappia io, ma se andiamo in questo campo di artisti pedofili sai quanti ne trovi... millanta che tutta notte canta).

Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.


Sandro Penna è un lirico di straordinaria trasparenza formale, che riesce ad immettere a registro, in perfetta sintonia, una squisita contabilità (lavorata ma allo stesso tempo elementare) con una metrica e una sintassi apparentemente tradizionali.

Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo
che il mio bianco taccuino sotto il sole

Ma in realtà l’una e l’altra sono sottilmente scomposte da una sorta di lieve e struggente tremito interiore, il racconto di un’esperienza umana segnata da una dolorosa vocazione all’estraneità. Ma Sandro Penna è intriso di una strana gioia di vivere anche nel dolore, e tuttavia resa luminosa da una quasi mistica capacità di letizia. Le sue poesie sono, infatti, delle brevi folgorazioni, delle impressioni liriche, degli scorci di vissuto che il poeta tenta di carpire dalla realtà sfuggente del mondo. La rappresentazione dei sentimenti e delle immagini perciò non si fondano sulla memoria e la trasfigurazione fantastica, ma dalla percezione reale delle cose.

Ma il mio canto d’amore, il mio più vero
Era per gli altri una canzone ignota.

Il linguaggio usato dal poeta è chiaro e di facile fruibilità, la sua poesia all'apparenza semplice, vede coesistere in perfetto equilibrio un lessico aulico con un lessico più quotidiano. Contemporanea, ma sostanzialmente indifferente all’ermetismo, la sua poesia (una delle più perfette immagini espresse dalla poesia italiana del Novecento) è difficile da classificare, da catalogare. E’ stata avvicinata da alcuni critici a certi aspetti della poesia di Saba e da altri, forse a maggior ragione, ai frammenti degli antichi lirici greci; altri ancora hanno tentato di accostarlo, per certi aspetti a Pascoli, di cui ha risentito indubbiamente qualche influenza. In realtà, Sandro Penna, si esprime in modo assolutamente nuovo, singolare, e la sua poesia ha un carattere tutto particolare, che è suo proprio, “ diverso” da tutti gli altri, irripetibile, e sembra che la sua riuscita abbia del miracoloso, se consideriamo il suo back ground.

Nel sonno incerto
Sogno ancora un poco

S’aggirava nella capitale come una tenera povera ombra sconosciuta. Sbarcava il lunario vendendo oggetti, i più disparati, nei ristoranti romani. Viveva in una muffita polverosa stanza in sub-affitto, dove passava ore a spiare dietro le persiane i giochi rumorosi dei fanciulli dei quartieri popolari romani, quei fanciulli dal divino sudore erano sacri, come piccoli dei e sono i protagonisti della sua poesia piena di suoni delicati e malinconie sensuali…
La sua poesia attingeva alle sorgenti della vita più elementare, fatta di vibrazioni leggere e di inquietudini, che attraversavano il suo spirito e il suo corpo con sofferenti abbandoni velati... una poesia gentile ignara e di drammatica stupefazione, fatta di angoscia, ma anche di grazia e senso costante della fuga...

Ognuno è solo, ma con vario cuore
Riguarda sempre le solite stelle

Fuga dalla società, dagli uomini e da ogni responsabilità... Penna è un cantore fragile dell'uomo fragile nudo e indifeso, colpevole di essere nato, colpevole di... innocenza...

Forse la giovinezza è solo questo
Perenne amare i sensi e non pentirsene

Prima della seconda guerra mondiale collaborò alle riviste letterarie "Letteratura", il "Frontespizio", "Corrente" etc, dopodiché riuscì a pubblicare, a sue spese, alcune liriche nel libro "Poesie" (1939). Seguirono "Appunti" (1950), "Una strana gioia di vivere" (1956) e altri inediti.

Ma chi sa se la vita somiglia
Al fanciullo che corre lontano

Ma la sua poesia non ebbe critiche favorevoli, cominciò ad essere apprezzata successivamente quando cominciò a diffondersi una tendenza antiermetica, tanto che la sua influenza si fa subito sentire sulla "scuola romana" (Elio Pecora, Pasolini e Dario Bellezza, tutti omosessuali dichiarati).
Soltanto negli ultimi anni della sua vita, Penna era diventato un vero e proprio caso letterario e un mito, un modello per le nuove generazioni di poeti, ma morì egualmente povero e in solitudine, a Roma, nell’inverno del 1977 : “E allora ti verranno incontro i fanciulli, i marinai e il mare, e l’alba sui treni…”.
Come scrive Giulio Ferroni, Sandro Penna sembra affermare la sua condizione "irregolare" che sublima in un canto d'amore omosessuale che è come il rivelarsi della "luce d'oro", l'immergersi delle cose nel buio della notte". Egli ha espresso forse il canto più limpido e chiaro della poesia italiana del Novecento.

Clemente Rebora, allodola di Dio

di Augusto da San Buono

Clemente Rebora, un grande poeta da riscoprire, ”un autore ancora per pochi”, diceva Giovanni Raboni. E se ne rammaricava. Quei pochi sono coloro che non hanno un’ideologia dichiarata, ma contenuta, “come un oggetto”. Ad esempio, la poesia di Pasolini sta all’opposto, e dice soprattutto ciò che dice; non è un vero discorso poetico, ma ideologico. Quello di Rebora è invece “polisemia” della grande lirica.
Teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, il poeta è un’allodola che canta l'elegia dello schiavo consapevole. E ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo:

“O allodola, a un tenue filo avvinta,
schiavo richiamo delle libere in volo,
come in un trillo fai per incielarti
strappata al suolo agiti invano l'ali”.

Le parole della sua poesia, continua Raboni, “continuano a significare qualcosa che hanno già significato prima, segnate come sono, anzi “deformate” da un uso anteriore, tratto che si trova, peraltro, nello stesso eccellente poeta milanese da poco scomparso”.

“Sul piano del linguaggio poetico,- osserva l’ottimo Antonio Stanca - l'aritmicità strofica, l'assunzione eccentrica di un lessico composto, sforzato a esprimere concetti inusitati nella tradizione letteraria italica (ad esclusione della concitata scrittura iacoponica) imprimono al messaggio ecumenico di Rebora il ritmo di una meditazione sconvolgente. Ma “non è confinabile nell'ambito della produzione poetica di matrice religiosa e cattolica, di cui del resto testimonia la forza e vitalità all'interno della regione italica. E’ un poeta della contemporaneità, capace di interrogare il mondo e che ci interroga, di gettare un ponte tra visibile e invisibile, tra fisica e metafisica e da questo punto di vista accostabile a Hopkins, Eliot. Un "reborismo" presente anche in altri autori successivi come Pasolini, Luzi, Turoldo. Nella sua ricerca dell'essenziale, opera alla radice e all'origine della parola umana. Biograficamente si chiude, si mura vivo, ma continua a cercare drammaticamente le parole che dicano l'illeggibile della realtà”.
Ed allora eccoci ancora una volta a rifare le gerarchie letterarie del Novecento, a ridipingere, ”nella penombra della fiamma”, un passato leggendario che non è mai esistito veramente come lo raccontiamo, o come ce l’hanno fatto credere, un passato in cu ”l’amore – scriveva Rebora - “ pareva cosa umana” e la natura faceva dolce corteggio al passaggio lieve di un’umanità in pace. I sensi “facevan le fusa, e zampilli i pensieri“, mentre i suoni degli animali, e il vento con le piante, e il mare con l’onda lunga di risacca, si armonizzavano in un “misterioso concerto”. Ma quella vita in cui il mare andava incontro alle notti e gli alberi erano fatti d’aria, e la luna si scioglieva nel sereno, e tutte le ragazze erano più belle, gli uomini miti, i bambini giocavano felici, e le rose dell’aria fiorivano nelle strade, era un’invenzione della nostra fantasia; era lontano, solitario e crudele, qualcosa di sottilmente minaccioso. Era il doppiofondo della notte, la luce “inesplosa” del Sottotenente Clemente Rebora che sta sul Carso, in attesa dell’annullamento di se stesso, purchè finisca la guerra.
Che venga pure una pallottola e lo colpisca al cuore. Non ne può più di stare come i topi in attesa che tutto affondi. Viene ferito alla tempia dallo scoppio di una granata e ne rimarrà per sempre segnato. Lui sa, ha sempre saputo che, sotterrato sotto un suolo di paradiso, c’è un inferno di metallo e di morte, che aspetta gli uomini incoscienti per donare loro le sue fiamme devastatrici e la morte. E con quella infausta guerra fu ancora strage degli innocenti, il primo frutto portato dall’Incarnazione di Dio. Questo l’avrebbe ricordato molto più in là, Clemente, al momento dell’innamoramento di Cristo:

…ammiccando l'enigma del finito / sgranavo gli occhi a ogni guizzo;
fuori scapigliato come uno scugnizzo, / dentro gemevo, senza Cristo.

Clemente Rebora era nato a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tenne il ragazzo ben lontano dai preti verso cui nutriva una grande diffidenza, lontano dal pericolo di esperienze religiose che gli avrebbero infrollito la mente e il corpo . Lo educò agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.
Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada. Passa a Lettere: l'accademia scientifico letteraria di Milano - presso la quale si laurea - era un ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni.
Intraprende poi l'attività d'insegnante. La scuola è per lui luogo d'educazione integrale, per formare uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare a "La Voce", la prestigiosa rivista fiorentina per la quale scrivono Sbarbaro, Onori, Jahier e narratori quali Boine e Slataper («gente che - avverte Gianfranco Contini - sentiva l'esigenza religiosa ... »). Pensa un'arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale. Come quaderno de "La Voce" esce nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato.

Il mio canto è un sentimento /che dal giorno affaticato
le ore notturne stanca: /e domandava la vita.

Alla fine di quello stesso anno conosce Lidya Natus, un'artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919.
Ma dopo la tragica esperienza della prima guerra mondiale, Rebora entra nel tunnel della depressione, che sembra senza vie d’uscita, una crisi profonda, totale, tormentosa, senza remissioni, senza tregua. Solo alla fine, quando tutto sembra disperare, troverà l’antica strada del cattolicesimo cristiano.
Nel frattempo torna, faticosamente, all'insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama. Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico. Ormai è in costante attesa di Dio. Lo si evince dai Canti anonimi:

…non aspetto nessuno: fra quattro mura /stupefatte di spazio /più che un deserto
non aspetto nessuno: /ma deve venire; /verrà, se resisto,
a sbocciare non visto, /verrà d'improvviso, /quando meno l'avverto

Nel 1936, superati i cinquantanni, Rebora diventa sacerdote rosminiano. E la sua poesia, maturata e sofferta sotto il segno di una cupa problematica esistenziale, da poesia urto e contrasto, da poesia realtà, poesia mondo, diviene poesia di fede, ricerca di verità, ansia di certezze assolute – “urge la scelta tremenda/dire si’, dire no/ a qualcosa che so”.
Dall’esordio con frammenti lirici, tra i frantumi di Boine e i trucioli di Sbarbaro, il nucleo poetico puro di Rebora, sostanziato di autobiografia vissuta, registra inquietudini e tensioni individuali e generazionali, dolenti nodi etici ed esistenziali all’alba del nuovo secolo. In questo periodo «la sua poesia appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».
Ma a ben vedere è tutta religiosa- in senso lato - la poesia di Rebora (anche quella che precede la conversione) e nei “frammenti lirici” , e ancor più nei “Canti anonimi”, il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia.
Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae:

/l’infinito anelando, udivo intorno /nel traffico e nel chiasso, un dire furbo: /Quando c’è la salute c’è tutto, /e intendevan le guance paffute, /nel girotondo di questo mondo…

Al cuore, fatto per l’infinito,
/non basta il buon senso, /la salute - epidermico colorito sulle guance;

gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza…

Qualunque cosa tu dica o faccia /c’è un grido dentro: /non è per questo, non è per questo! E così tutto rimanda /a una segreta domanda...

Ordinato sacerdote, per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute. Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all'azione di carità. Solo negli ultimi anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica: Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955; Canti dell'infermità, del 1957, l'anno della morte di Rebora, che ci sembra ancora di vedere” vibrare al vento, con tutte le sue foglie, pioppo severo che spasima l’aria in tutte le sue doglie”, e prega e spera nell’ansia del pensiero.

Il fascino magnetico di Eugenio Barba

di Augusto da San Buono

Eugenio Barba è ritenuto oggi uno dei più grandi registi e teorici dello spettacolo del nostro tempo, uno che ha insegnato nelle Università di Torino, Bologna, L'Aquila, La Sapienza di Roma, uno che ha scritto una trentina di libri sul teatro, che ha girato tutto il mondo e "si confronta direttamente con la storia del proprio tempo, eludendo le cronache teatrali, polemiche, tendenze, protagonisti mediatici". Uno che potrebbe essere insignito (perché no?) del Nobel per la letteratura, e non a caso tra poco a Londra gli verrà assegnata l’ennesima laurea honoris causa. Ma quando lo vidi per la prima volta, in un capannone degli ex cantieri della Giudecca di Venezia, giusto trent’anni fa, (23 ottobre 1975) era – come disse Cesare Garboli, - un mediterraneo ispido e selvaggio, cotto di sole, uno sciamano di uno spettacolo - processione, qualcosa di transitorio, di fragile e di leggero, ma di gran peso: era una pantera pronta allo scatto… “Il suo corpo era uno strumento musicale magnetizzato che emetteva vibrazioni armoniche e trasmetteva una forza incredibile, risanatrice. Con le sole mani compiva gesti magici, taumaturgici, con la sola forza di quelle mani era capace di guarire”. Era, forse, tutto ciò quel che avrebbe voluto essere un medico moderno di oggi, che è rimasto spersonalizzato senza più contorni precisi. Ma la sua gestualità aveva anche un qualcosa di barocco e, insieme, di angoscioso e profondo, qualcosa di simbolico e fantastico. Quelle incredibili dilatazioni del corpo, i fulminei trapassi mimici, i passaggi da un'atmosfera musicale all'altra, le danze drammatiche rituali, miste di folklore scandinavo e sardo-salentine, tutto era in lui come un'oscura tempestosità emotiva con improvvisi calme da flauto, come una rissa perenne che ora si placa per un po’, ma è pronta a riesplodere. “Il teatro , - aveva detto - , “ è la possibilità di andare più veloci della luce, afferrare più presto possibile”. E ciò costituisce ancora un modello per i suoi attori, ora che lui non recita che saltuariamente.
Da allora ho sempre inseguito, più o meno inconsciamente, quest’artista del terzo teatro (come allora veniva definito il suo teatro, che metteva in scena “l’oscenità e il contagio del linguaggio del corpo “e aboliva ogni divisione tra scena e pubblico) , questo stregone magico gallipolino, pieno di anfratti, buio e luce, uomo vitalissimo e completo, ma allo stesso tempo diviso in due, come il giorno e la notte, quest’uomo che possiede “il dono della vertigine”. Ma non l’ho mai più rivisto.
Ora, trent’anni dopo Venezia, ho finalmente davanti a me, Eugenio Barba, in carne e ossa, forse il più grande regista teatrale europeo vivente dei nostri tempi. E ciò grazie ad una felice congiuntura, ad un evento culturale che non esito a definire “ storico”. Eugenio, col suo “Odin Teatret “, è a Gallipoli, per rappresentare una serie di spettacoli (“Il sogno di Andersen”, “Le Grandi Città sotto la luna”, “Sale”) che sono stati già rappresentati in tutti i continenti, perché il teatro di Barba è universale, multietnico, multirazziale, globale, fatto di rigorosa disciplina della mente e del corpo, un training psico-fisico in cui l’attore – come abbiamo accennato - esprime i suoi messaggi attraverso la gestualità del corpo. Il suo teatro è – come scrive lui stesso nella “Canoa di carta” – “il momento della trascendenza, quando l'individuo vuole andare al di là di sè stesso, l’incontro con l'altro, chiuso e nascosto in noi stessi, ma a noi estraneo e da noi differente”. Si realizza un connubio tra personaggi e spettatori perfettamente integrati nel disegno della rappresentazione.
Ma tutto ciò, il maestro Barba, non lo dice nell’intervista che mi ha benevolmente concesso. Anzi, minimizza, come fanno tutti i grandi, e dice che questo discorso vale per loro, per l’Odin Teatret, che non è solo un gruppo culturale, ma una vera e propria comunità multietnica e multirazziale che “abita le isole galleggianti del teatro e hanno costruito ponti leggeri e resistenti per mettersi in contatto, e linguaggi estetici per comunicare al di là delle lingue e con tutte le lingue”.
Insomma far parte dell’Odin è come farsi monaci, o militari, darsi e riconoscersi in un insieme di norme e comportamenti quotidiani, forse non propriamente templari “nudi“ alla ricerca di una fede, del Graal della Purezza, come testimoniava Jarzy Grotowsky, il maestro e grande amico di Eugenio, che diceva “noi dobbiamo far vedere l’uomo così com'è, nella sua inte­rezza, in modo che non si nasconda; l'uomo che vive; e questo significa corpo e sangue. Questo è nostro fratello e si trova dove si trova 'Dio', con il piede scalzo e la pelle nuda, il fratello, l'uomo che non mente a se stesso. Tu sei, dunque io sono. Sto na­scendo perché tu nasca, perché tu divenga. Non aver paura, vengo con te».
In questo “teatro - isola galleggiante, isola di libertà“, gli attori cercano spettatori per vivere insieme momenti di sconfinata sensazione, di non appartenere al proprio tempo, di superarlo, di andargli contro, di essere come salmoni dello spirito, andare contro corrente, avere la sensazione che qualcosa possa nascere in ciascuno di noi, spettatori, che possiamo uscire trasformati dallo spettacolo, uno spettacolo che continua anche dopo, dentro di noi. Oppure – ed è l’altro lato della medaglia – ne usciamo confusi, perplessi, istupiditi, con un aumento del tasso della claustrofobia, certi di una sola cosa: di non averci capito molto più di nulla. In effetti, è questa la grandezza di Eugenio Barba: mettere in scena il Nulla o il Deserto, ovvero quella parte di noi “che vive altrove”, più o meno inconsciamente, in un esilio permanente. E lui di esilio se ne intende, avendolo sperimentato sulla propria pelle facendo l’emigrante nel periodo in cui l’italiano non era molto quotato e in specie nel nord Europa era considerato alla stessa stregua del negro in Usa. Il suo teatro apre nuovi scenari, nuovi paesaggi, ci dice di una vita nascosta che abbiamo dentro, e che può manifestarsi, lì sulla scena, attraverso le sincronie coreografiche danzanti, le luci, la sabbia, il sale, il corpo che si contorce e piange e si dispera, e sembra dover morire, dopo aver “girato tante isole” metaforiche e non, dopo aver cercato e sperato, ma continua ad aspettare, un’attesa infinita del “ Sale”, che potrebbe essere il Godot di Barba.
Certo, tutto nel suo teatro - recitazione, coreografie, musiche, danze, luci, effetti speciali, - è frutto di una minuziosa analisi chimica di fatti inconsci e rituali religiosi; tutto è essenziale, rigoroso e perfetto, come uno spartito musicale, come un’equazione matematica, e noi stiamo a guardare a bocca aperta questa sorta di scatola magica che è il teatro, e capiamo, - forse - in quel momento che abbiamo bisogno di nutrirci dell’arte, abbiamo bisogno del teatro, abbiamo fame e sete di queste cose, la stessa che hanno loro.
Parliamo della sua genialità, ma anche della sua schizofrenia.
“Maestro, aveva detto Garboli che lei si insedia al centro del teatro come al centro della propria pazzia, della propria e di quella degli altri; per metà è interamente sano e per l’altra metà completamente psicotico, è come una mela spaccata in due “.
Sorvola sulla genialità, ma ammette che sì, un po’ di schizofrenia in lui c’è, ma non guasta, nell’attore è un fatto naturale, basta incanalarla, controllarla. Sembra un po’ Pasolini – m’aveva detto un amico. In effetti, sia nella voce, che nei tratti somatici, Eugenio Barba ha qualcosa di Pasolini. Ma è un Pasolini diverso, più semplice, più completo, più diretto, con una capacità di dominio psicologico sugli altri che è vissuta come vocazione fatale. Barba ha un carisma e un magnetismo straordinario, un fascio di energia, una forza esplosiva e controllata, una buia luminosità, una magìa che inquieta, una potere infallibile di fascinazione , come ammette il suo allievo e regista Pino Di Buduo, che lo accompagna.
Gli chiedo, poi, se è vero che aveva dichiarato che a Gallipoli non ci avrebbe mai più messo piede, e non perché avesse qualcosa contro la sua città natìa, ma semplicemente perché non aveva tempo per andare in giro per diporto. ”La mia città è dove c'è gente che mi accoglie, che si interessa alla mia arte, che mi ascolta”, questo avrebbe dichiarato.
Conferma che è tutto vero e se non fosse stato per il cugino, il Ministro Rocco Buttiglione, altro gallipolino doc, che ha sostenuto questa operazione, a Gallipoli col suo teatro non ci sarebbe tornato. “Le città, per belle che possano sembrare, non hanno un’anima. Hanno persone, alcune indifferenti ed amorfe. Altre gonfie del loro ruolo. O perse nelle illusioni del campanilismo. Ed altre ancora con fame e sete spirituali. Per cercare ed incontrare queste ultime il mio teatro fa le sue irruzioni”. E spesso ci riesce, perché Eugenio Barba ha una grande carica d’umanità. E’ così difficile nel nostro tempo – disse qualcuno – incontrare un uomo che quando lo si incontra si resta colpiti come la folgore di un prodigio. E Barba è soprattutto questo, un uomo.

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