19 giugno 2006

"L'editore fortunato" di Carlo Caracciolo

L’editore partigiano di Max Lodi (tratto da La Prealpina del 22 novembre 2005)

C’era una volta il Caracciolo partigiano sulle rive del Lago Maggiore, del Cusio e nelle valli dell’Ossola. Caracciolo Carlo, oggi ottant’anni, presidente del gruppo editoriale Repubblica - L’Espresso, protagonista innovativo e ardito degli ultimi decenni di vicende della stampa italiana. E’ lui a raccontare del suo lontano e poco conosciuto passato. Lo fa nella conversazione con Nello Ajello che va sotto il titolo di "Carlo Caracciolo, l’editore fortunato", libro appena messo in circolazione da Laterza e ove si narra di un’avventura professionale d’eccezione assieme a curiosi fatti e fatterelli personali. Di babbo napoletano (diplomatico di carriera e sottosegretario agl’Interni del secondo governo Badoglio in rappresentanza del Partito d’Azione) e di madre americana, fratello di Marella che sposerà Gianni Agnelli, il giovanissimo Carlo approdò in Svizzera nel ’41 al seguito del genitore nominato console generale a Lugano. Vi sostò a lungo, frequentando le prime classi liceali e rimanendovi anche quando papà Filippo lasciò il territorio elvetico per raggiungere il Regno del Sud conquistato dagli Alleati. Convintosi della necessità di «...fare qualcosa di concreto» per dare il proprio contributo alla guerra civile, Caracciolo junior contattò il console americano a Lugano offrendogli i suoi servigi. Venne subito esaudito e incaricato di traslocare da Locarno a Cannobio un carico d’armi destinate ai partigiani. Di notte e su una barchetta a remi, egli esordì come militante della resistenza al nazifascismo portando una quarantina di mitragliatori marca Ispano Suiza dalla sponda svizzera alla sponda italiana del Verbano.
Con quei partigiani -venne associato alla brigata che aveva per comandanti Pippo Frassati e Armando Calzavara, il popolare "Arca"- restò alcuni mesi, alloggiato a Cannero dove fu tra l’altro protagonista d’un curioso episodio. Su indicazione d’alcuni esponenti dei Gap, si nascose in una villa di cui erano proprietarie un paio d’anziane signore fiorentine. Un giorno una delle due l’informò che il figlio, ufficiale degli alpini della Repubblica sociale, stava per venire a casa in licenza. Che fare? Carlo e gli altri partigiani ospiti con lui nella vecchia dimora decisero che la donna avrebbe dovuto dir chiaro come stavano le cose. Al giovane milite non si sarebbe fatto del male. Ma se non fosse stato ligio alla consegna del silenzio, la rivalsa sarebbe caduta sulle sue congiunte. Così per qualche giorno andò in scena la singolare convivenza tra nemici. «Se c’incontravamo nel giardino -rivela Caracciolo- fingevamo di non vederci. La sua presenza era ingombrante in molti sensi: i miei compagni e io non avremmo mai potuto ammettere, di fronte ad altri partigiani, di aver coabitato con un fascista di Salò senza sopprimerlo. La situazione era certo assurda, non tuttavia al di là dello standard di assurdità generale».
Il periodo più brutto dell’avventura fu l’inverno ’44/’45. Freddo paralizzante, marce faticose, scarsità di cibo. Unico sollievo, i lanci di armi, munizioni, vestiti e cibo dagli aerei alleati. La manna volante era annunciata via radio dalla frase convenuta "La neve è bianca". Il lavoro principale consisteva nell’attaccare piccoli gruppi di fascisti rubandogli fucili e pistole. Di prezioso aiuto si rivelarono più volte i contrabbandieri («Erano i nostri alleati naturali, in un certo senso ci permettevano di esistere. E’ capitato proprio a me, durante gli sconfinamenti in Svizzera per sfuggire ai rallestramenti, di entrare in una casetta abbandonata, trovando perfino dei viveri: salumi, patate, vecchi formaggi»). E di determinante sostegno fu il favore della gente del posto («Nelle zone in cui operava la nostra banda -parte integrante della Repubblica della Val d’Ossola- avevamo con noi il 90 o il 95 per cento della popolazione. Nei limiti del possibile ti davano da mangiare, ti aiutavano, ti nascondevano»).
Caracciolo venne catturato sul lago d’Orta e fatto prigioniero per un mese. Era il marzo del ’45. L’episodio ebbe risvolti farseschi. «Arrivando nella piazza del paese, trovai un gruppo di "soi-disant" partigiani, con camicie e fazzoletti rossi: un abbigliamento assai bizzarro, dato che nessuno andava in giro così. Li investii con aria un po’ da primo della classe: non sapete che le norme del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia vietano di girare con indosso simboli di partito? Per tutta risposta, uno dei presenti mi dà uno spintone da dietro gettandomi a terra. Un altro, aprendosi la camicia, mi mostra una maglietta con sopra disegnato un teschio; accanto, la scritta "me ne frego". Un terzo, quasi un bambino -io avevo diciotto anni, lui ne avrà avuti sedici- tira fuori un pugnale sormontato dalla croce uncinata e mi ordina: "Bacialo!". Insomma, si trattava di un gruppo della Decima Mas: fascisti travestiti da partigiani».
Condotto a Fondotoce e passato in custodia a un reparto della Guardia nazionale repubblicana comandato dal tenente Ajmone Finestra che sarebbe poi diventato senatore del Msi e sindaco di Latina, Carlo fu successivamente recluso in un grande albergo di Baveno in cui tre stanze erano adibite a galera. Della novantina di partigiani arrestati, solo pochi subirono la fucilazione. Tedeschi e fascisti infatti, incalzati dai nemici, cominciavano a ritirarsi precipitosamente dalla Val d’Ossola verso Novara. Si andava diffondendo la pratica dello scambio dei prigionieri e Caracciolo ebbe la fortuna d’essere inserito in una di queste trattative d’esito felice. «Mi trovai libero a Novara. La guerra non era ancora finita, mancavano pochi giorni, che poi seppi essere decisivi. Partii da Novara a piedi e arrivai il 24 aprile a Milano. In periferia, vestito di residuati bellici com’ero, e per via dei capelli biondi e della carnagione rosea, venni festeggiato quasi appartenessi a un’avanguardia della Quinta o dell’Ottava armata».
La tragedia della guerra finalmente volgeva all’esaurimento e non ci volle molto perché si profilasse la vera vocazione di Caracciolo. Entrò infatti, fin dal ’46, in un quotidiano, "Il Mondo", diretto dal vecchio antifascista ed esponente del Partito d’Azione Alberto Cianca. Si dedicò all’apprendistato. «Imparavo a passare i pezzi e a fare qualche titolo di cronaca. Scrivevo articoli anche con altro nome». Era l’unico redattore di politica estera. Attese all’incombenza per un anno, poi si recò negli Stati Uniti a studiare all’università bostoniana di Harvard. Al ritorno, anzichè far l’avvocato, fece l’editore. Stravincendo la causa.

(L’editore fortunato, Carlo Caracciolo, Laterza, euro 14, 2005)

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