25 febbraio 2007

Inquinamento aereo

di Alessio Mannucci

Una stima per difetto paragona l'inquinamento di ogni aereo a quello di 500 auto non catalizzate. L'aeroporto di Malpensa, ad esempio, equivale a 250-300.000 auto al giorno, quello di Linate a 150.000 auto.


In questi ultimi anni, i viaggi low cost hanno fatto lievitare drasticamente il traffico aereo e l'inquinamento correlato. Il traffico aereo è di gran lunga la fonte di emissioni di gas serra che cresce più in fretta; dunque, è tra le minacce più gravi al già disastrato ambiente globale, oltre che alle orecchie di chi abita vicino agli aeroporti, anch'essi sempre più numerosi.

Ben Matthews, ingegnere ambientale e ricercatore all'Istituto di astronomia e geofisica dell'università belga di Louvain, scrive sul sito www.chooseclimate.org, ovvero “scegli il clima”: “Giri su Internet alla ricerca del volo più economico ? Vuoi andare in luoghi caldi in inverno ? Ti interessa una conferenza sul futuro del mondo? Bene, scopri da te qual è il vero prezzo del viaggio aereo che vuoi fare.

Scopri che è il modo più rapido per stare al caldo per sempre, e precludere un futuro all'umanità”. Due clic su una mappa, e un apposito modello di calcolo, il Java climate model, permette di scoprire all'istante il nostro contributo individuale, per il tragitto indicato, all'effetto serra. Basta qualche migliaio di chilometri sulle nuvole per produrre più anidride carbonica (CO2, il principale gas serra) di dieci contadini del Bangladesh in un anno di vita, considerati tutti i loro consumi.

Il modello fornisce altre notizie: quanto kerosene occorre per ogni viaggiatore (dividendo per il numero dei passeggeri le decine di migliaia di litri necessari a un Jumbo); quanto costerebbe un biglietto se del prezzo facessero parte le tasse; quanta parte del totale delle nostre emissioni sostenibili di CO2 (cioè per riscaldarci, viaggiare, mangiare, consumare) ci giochiamo con un dato percorso aereo. In un tragitto Roma-Londra e ritorno, quasi esauriamo il nostro diritto alle emissioni per un intero anno.

I velivoli vanno a kerosene, un carburante di origine fossile. Spiegano Guy Dauncey e Patrick Mazza: «Gli aerei commerciali generano 600 milioni di tonnellate di CO2 l'anno. Rilasciano ossidi di azoto direttamente nella troposfera (la parte inferiore dell'atmosfera, sede dei fenomeni meteorologici); qui si ossidano nell'ozono troposferico che, a quell'altezza, funziona come potente gas serra. Provocano scie dense di vapore acqueo che, portando alla formazione di cirri, bloccano il calore all'interno dell'atmosfera».

Così, secondo i calcoli di Paul Wennberg del California Institute of Technology, il trasporto aereo arriva a incidere per un 10% sul totale dell'effetto serra. Volare inquina anche chi vive a terra: non solo con il monossido di carbonio e le polveri totali sospese, ma soprattutto con il rumore. Contro i voli notturni, in Gran Bretagna gruppi di cittadini protestano periodicamente in pigiama, incoraggiati dalla campagna “Green Skies” (Cieli Verdi). In Italia, è nota la battaglia delle associazioni di tutela ambientale e di molti comuni lombardi e piemontesi contro l'ingigantirsi di Malpensa. Esempio di quelle “grandi opere” che tanto piacciono ad alcuni governanti, gli aeroporti italiani crescono in numero e dimensione. Ne sono stati inaugurati uno a Olbia, uno a Crotone, a Malpensa è stata aperta la Cargo City. Quale località non vuole uno scalo aereo, anche solo per questioni di prestigio?

Proseguendo su questa strada, l'effetto serra da aviazione civile potrebbe triplicarsi entro il 2050 rispetto ai dati del 1990: la maggiore efficienza energetica degli aerei moderni e i passi avanti della tecnologia verranno annullati dalla crescita dei voli.

Se i biglietti aerei costano poco, incoraggiando le ali anziché le rotaie, è a causa di due anomalie inquietanti. La prima: mentre la benzina è pesantemente tassata, il kerosene è esentasse ovunque nel mondo. Le regole poste dall'Organizzazione Internazionale per l'Aviazione Civile (ICAO), organismo dell'ONU finalizzato a promuovere il trasporto aereo, impediscono ai singoli Paesi di cambiare la situazione. Questo dà un vantaggio ingiusto all'aereo rispetto ad altri mezzi, per esempio il treno.

«Grazie all'assenza di una tassa sul carburante aereo o di qualunque prelievo basato sulle emissioni, le compagnie aeree possono tenere i prezzi dei biglietti artificialmente bassi. In questo modo, però, il costo dell'inquinamento grava sull'intera società anziché sul solo passeggero», spiegava anni fa la Campagna internazionale per un giusto prezzo del trasporto aereo (fu avviata da Friends of the Earth. Ora è stata sostituita da Green Skies, molto più moderata: si limita a contestare i voli notturni).

L'esentasse è una pacchia per gli aerei, che richiedono soprattutto carburante, rispetto ai treni, dove è necessario invece più personale. Del resto, si stima che, in Europa, il settore dell'aviazione riceva 42 milioni di dollari l'anno fra sovvenzioni dirette o indirette, quasi fosse la Croce Rossa.

L'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), organismo tecnico dell'ONU che si occupa di effetto serra, dedicò nel 1999 il suo primo studio di settore proprio all'impatto dell'aviazione civile. Scatenando le ire del business aereo e petrolifero, il rapporto suggerì di “adottare politiche di sostituzione con altri mezzi di trasporto” e “disincentivare l'uso disinvolto del trasporto aereo con tasse o prelievi ambientali e con il commercio dei diritti di emissione”. Non se ne fece nulla.

Ed ecco la seconda anomalia: la fonte di emissioni di gas serra più veloce del mondo è paradossalmente rimasta fuori del Protocollo di Kyoto (1997) sulle riduzioni obbligatorie dei gas. La comunità internazionale non si è accordata su dove allocare il rilascio di CO2 per i voli internazionali: Paese di partenza, Paese di arrivo o Paese che ha venduto il kerosene ?

Con in favoritismi di cui gode, secondo la Commissione Ambientale d'Inchiesta (EAC) della House of Commons britannica, nel 2050, il solo settore dell'aviazione rappresenterà ben il 66% delle emissioni del Paese. Il governo inglese, unico in Europa, si è dato (“Libro Bianco sull'Energia”), entro il 2050, l'obiettivo di ridurre del 60% rispetto al 1990 le emissioni, per rispondere all'obiettivo di “salvezza climatica” indicato dall'IPCCC.

“Ma perché mai gli altri settori economici dovrebbero accettare un costoso taglio di emissioni, mentre il comparto aereo avrebbe il permesso di triplicare il contributo al cambiamento climatico fra il 1990 e il 2050 ? Non includere gli aerei significa non poter raggiungere questo obiettivo di riduzione globale”. Con questa critica, contenuta in un rapporto del giugno 2004, la Sustainable Development Commission (SDC) nominata dal governo britannico si è opposta al Dipartimento Governativo del Trasporto Aereo che, nel dicembre 2003, ha pubblicato il “Libro Bianco sul Futuro degli Aerei” (ATWP). Per la verità, il rapporto ufficiale auspica l'inclusione entro il 2008 del settore aereo nello Schema europeo di obiettivi per la riduzione delle emissioni (EUETS: European Union Emissions Target Scheme) e, in prospettiva, in un sistema globale di controllo.

Se il settore aereo fosse costretto a comprare sul mercato un'enorme quantità dei diritti di emissione (poiché non riesce a ridurle), allora i prezzi dei voli crescerebbero, e la domanda scenderebbe. La SDC e i gruppi ambientalisti britannici, riuniti nell'Aviation Environment Federation (AEF), chiedono di imporre anche all'aviazione nazionale e internazionale l'obiettivo riduzione entro il 2050. Ma non si fidano del governo, e temono che l'inserimento slitterà almeno al 2013.

Spiega Jonathan Porritt, che ha firmato il contro-rapporto SDC: “Il solo strumento di politica ambientale efficace sono le tasse ambientali e i permessi di emissione controllati. Poi ci vuole un'opera di sensibilizzazione pubblica sul fatto che il trasporto aereo non può crescere a questi ritmi, e politiche per limitarlo. Ma il Libro Bianco di tutto ciò non parla. Anzi, è favorevole a nuovi aeroporti, a causa della saturazione di quelli esistenti”.

Le compagnie aeree si oppongono alla tassazione del kerosene con il pretesto che «i poveri dovranno pagare di più i biglietti». In realtà, un simile provvedimento introdurrebbe il “giusto prezzo” (maggiorato). Ma solo se fosse adottato internazionalmente: altrimenti gli aerei andrebbero ad approvvigionarsi esentasse nel più vicino paradiso fiscale del kerosene.

Anni fa, i ministri delle Finanze dell'Ue discutevano di una tassa sui carburanti aerei entro i confini europei. Nulla, però, venne fatto, per l'opposizione di Spagna e Irlanda. Poi, l'Ue ha pensato a un supplemento sul biglietto, basato sulla distanza e sulle emissioni per km, con un sovrapprezzo per decollo e atterraggio che sono le fasi più energivore. Gli introiti sarebbero stati destinati agli Stati membri o a un fondo climatico internazionale, per mitigare (ma come?) l'impatto della crescita degli oceani dovuta all'effetto serra. Anche in questo caso, non se ne parlò più.
E così, a tutt'oggi, è la Norvegia l'unico Paese ad avere un prelievo basato sulle emissioni per i voli nazionali. E se si includessero i velivoli nel Protocollo di Kyoto ?

Alle linee aeree sarebbe permesso un tot di emissioni di CO2, e per il sovrappiù dovrebbero acquistare sul mercato mondiale diritti di emissione, scaricandone i costi sui biglietti (con un duro colpo al low cost). Questa è anche la proposta del Global Commons Institute (GCI), l'Istituto per i Beni Comuni Globali.

In sostanza, con l'eccezione della Gran Bretagna, politici e movimenti ambientalisti mantengono, in materia di insostenibilità aerea, un assordante silenzio. C'è chi si pronuncia, ma poi scivola sulla classica buccia di banana: una deputata verde tedesca, poco dopo aver pronunciato un discorso sull'inquinamento aereo, si imbarcò per una tratta che in treno avrebbe richiesto tre misere ore. Un dirigente ambientalista italiano, dovendosi recare da Roma a Verona (5 ore di treno), volò a Venezia dove lo aspettava un'auto. Il viaggio di ritorno si svolse in modo identico.

Nel privilegiato Occidente, viaggia sulle nuvole ogni categoria, verdi e alternativi compresi, verso destinazioni vicinissime e lontanissime, prendendo a pretesto la mancanza di tempo ma in realtà rincorrendo le tariffe superscontate. Non sono senza peccato i partecipanti ai viaggi di turismo “sociosostenibile” (che non tiene mai conto del peso ambientale dell'aereo). Né gli attivisti ambientalisti o no global: hanno contribuito all'inquinamento ANCHE le masse dirette verso i Social Forums di Porto Alegre e Mumbai, il vertice sull'ambiente di Johannesburg (1992), l'incontro interplanetario indigeno, l'assemblea pacifista, il controvertice commerciale, ecc. ecc...

Un discorso a parte meritano gli aerei militari. Nel 2003, durante il conflitto USA-Iraq, gli anarco-ciclisti della Critical Mass torinese, con gli scienziati della Società Meteorologica Italiana, hanno calcolato quanto contribuisce all'effetto serra una guerra aerea. Base per le stime è stata quella del Golfo del 1991. Si è partiti dalla considerazione che un aereo da caccia tipo F-15E Strike Eagle o F16 Falcon consuma circa 16.200 litri/ora; un bombardiere B52, 12.000 litri/ora; un elicottero da combattimento tipo AH64 Apache, 500 litri/ora. Su queste basi, si è calcolato che un mese di guerra soprattutto aerea porti l'emissione di 3,38 milioni di tonnellate di CO2: l'equivalente dell'effetto serra totale provocato in un anno da una città di 310 mila abitanti.

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@virgilio.it

23 febbraio 2007

Film – L’ultimo re di Scozia – a cura di Bruna Alasia
L’ULTIMO RE DI SCOZIA
Regia di Kevin MacDonald

Con Forest Whitaker, James McAvoy, Kerry Washington, Simon McBurney, Gillian Anderson.

Nicholas Garrigan (l’avvenente James McAvoy), medico scozzese appena laureato, decide di volare in Uganda per appagare desiderio di avventura e spirito missionario. In Africa si imbatte in Idi Amin, il leader del momento (Forest Whitaker, candidato all’Oscar quale migliore attore protagonista) perché chiamato a soccorrerlo dopo un incidente con la Maserati. Amin, che tra l’altro ha un debole per la cultura e le tradizioni scozzesi (da qui il titolo del film), rimane affascinato dalla franchezza del giovane e gli offre l’opportunità di essere suo medico di fiducia. Sedotto dalla prodigalità del dittatore, dai lussi e divertimenti della sua vita, Garrigan si inoltra in un labirinto fatato che scoprirà diventare un girone infernale…

Thriller politico, tratto dal fortunato romanzo di Giles Foden, “L’ultimo re di Scozia” mescola finzione e storia di oggi e attraverso una fiction avventurosa ci avvicina alla conoscenza di uno dei più sanguinari dittatori che il mondo abbia avuto.

Idi Amin, ex pugile e soldato venuto dal nulla, nel 1971 arrivò al potere con un colpo di stato contro Milton Obote, filocomunista corrotto, grazie al complice opportunismo di molti paesi e media occidentali. Affascinò il suo popolo con l’orgoglio di una personalità appassionata e sferzante, finché non emersero lo spietato assassinio degli oppositori, le allucinazioni a guida di appetiti bizzarri e inarrestabili, il nazionalismo paranoico che portò all’espulsione di 50000 asiatici dall’Uganda, la guerra con i paesi confinanti, il sostegno all’OLP in un attentato terroristico. Durante il suo dominio gli ugandesi morirono a centinaia di migliaia e si tramandano episodi di cannibalismo a opera sua e dei suoi più stretti collaboratori.

Il film, che al botteghino ha superato persino James Bond, si può vedere.

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

Sulla Cultura di Augusto Benemeglio

Ci sono cose – scrisse Calvino, in preparazione alle sei conferenze cui era stato invitato a tenere negli Usa - che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici, perché la letteratura ha alcuni valori o qualità o specificità che mi stanno particolarmente a cuore ed io ho cercato di situarle nella prospettiva del nuovo millennio: leggerezza, rapidita’, esattezza, visibilita’, molteplicita’.

Certo, la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentenzza per il mondo com’è, ad un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute”.

Anche oggi, trent’anni dopo, sono scontenti gli uomini di lettere? Mi sono divertito, sulla base degli elaborati pervenuti al concorso ”L’uomo e il mare” in questi ultimi cinque anni, a fare una disamina di quella fascia di persone di cui parla Calvino, quella fascia più avvertita, più sensibile, quella minoranza che si interessa alla cultura, ossia quel famoso 5% (ma io credo e mi illudo che siano sempre di più), che non considera ozioso perditempo o lusso evidente il frequentare musei, leggere libri di narrativa o poesia, opere di saggistica o filosofia, o andare ai concerti per ascoltare la musica jazz o chessoio le fughe di Bach, il requiem di Mozart e la nona di Beethoven, che non si annoia se va a teatro a vedere Eschilo o Shakespeare; che cosa pensa quella fetta di umanita’ che non sempre riesce a trovare gli spazi psicologici e materiali dove poter esercitare la propria vocazione (e mi riferisco anche ai poeti, ai pittori, ai musicisti, agli attori, agli artisti in genere, che non appartengono ovviamente alle star conclamate); che cosa pensano queste persone che hanno voluto mettersi in competizione, hanno voluto esibirsi, mostrare sé stessi o la propria arte, ma anche mettersi in comunicazione, in rapporto con la gente?

Che cosa pensano del mondo in cu viviamo, della societa’ d’oggi, del futuro dell’umanità ? E’ presto detto. Viviamo in una societa’ cinica, sempre piu’ vecchia, edonista ed egoista. Andiamo verso la gerontocrazia. La vita si allunga sempre di piu’e non siamo assolutamente pronti a dare qualita’ a questa vita. I vecchi vivono di attese disilluse e di nostalgie struggenti. e molte poesie dei nostri concorrenti ne danno testimonianza.

Da una parte, è vero, ci sono uomini e donne posseduti anima e corpo dall’empatia per gli altri, dall’amore per l’umanita’ inferma, da una sete radiosa di giustizia, ma sono pochi volontari a fronte di un’esigenza che via via aumenta a dismisura , in particolare nei reparti di geriatria e negli istituti degli handicappati.

Ma ci sono – per contro - uomini diabolici, con potenzialita’ e realizzazione di far del male che sembrano illimitati. Crudelta’ mentali e fisiche all’interno della stessa famiglia, abusi inflitti regolarmente alle donne e ai bambini, tortura umiliazione, massacri, genocidi, orrendo commercio che si fa degli animali delle piante, della natura, distruggendo e depredando con onnivora ferocia tutto ciò che è stato Creato in modo armonico e perfetto, per lo svolgimento di quel misterioso concerto che è la vita.

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

18 febbraio 2007

Shakespeare: la Tempesta

Quando Mirandaandò a Napoli
di A. di Biase


Quando, tra la fine del 1610 e il novembre del 1611 Shakespeare scrisse La Tempesta, il grande commediografo recitava soprattutto nel teatro dei Blackfriars, facendo già da tempo parte della compagnia reale dei King’s Men. Forse proprio per questo motivo, essendo stata rappresentata la commedia in occasione dei festeggiamenti per le nozze della figlia di Giacomo I, nel febbraio del 1613, più di un commentatore nel corso degli ultimi quattro secoli – come ricorda il saggio introduttivo di Anna Luisa Zazo per il testo di Mondadori – si è permesso di sospettare che l’episodio del matrimonio tra Miranda e Ferdinando non facesse parte del testo originale, ma che fosse invece addirittura stato aggiunto apposta, in occasione dell’evento mondano, e non scritto dallo stesso autore. Questa tesi, se pure al cospetto di un testo difficile ed apparentemente sconnesso come quello de "La tempesta" le interpretazioni non possono che essere molteplici, tenderebbe a mettere su un piano marginale, rispetto all’opera, la vicenda dell’unione fra i due giovani, vicenda che invece ad una più attenta lettura appare centrale.
Altra questione poi, sempre a riguardo della struttura dell’opera, ma inerente alla messa in scena proposta da Tato Russo per il teatro stabile di Napoli – data nei giorni passati all’Apollonio di Varese – è quella della soppressione degli “avvenimenti a mare”. Russo – lo spiega nel libretto distribuito a teatro – è convinto che evitare di mettere in scena il “prologo” favorisca l’interiorizzazione del dramma, perché consente di percepirlo nella sua dimensione reale, cioè quella interiore, emotiva e metafisica. La tempesta, come noto, inizia con una vera e propria scena di burrasca in mare, con una nave in disperata balia delle onde, scena resa celebre più che altro dalla figura del Nostromo: la “faccia da forca” che a Gonzalo dava una buona impressione perché "uno così non può morire in mare". «Se non è nato per salire sulla forca» – scrive Shakespeare per la traduzione di Salvatore Quasimodo – «il nostro caso è disperato».
L’impressione, dunque, è che Russo abbia voluto scomporre il dramma, mettendo in evidenza le due parti del viaggio, per focalizzarsi poi sulla seconda. La tempesta di Russo è dunque il “dopo” la tempesta, come se tra i due momenti la cesura fosse netta.
Per il resto la trama, nonostante le apparenze, è semplicissima – scrive il Ferrando a proposito delle fonti della commedia: «Chi non ha udito, da fanciullo, raccontare almeno una storia in cui entrava un mago con un’unica figlia della quale si innamorava un principe avventuroso, che viene fatto prigioniero dal padre della fanciulla e costretto a umili fatiche, finché l’amore trionfa di ogni ostacolo e tutto finisce nel miglior modo possibile? Questa fiaba, che sotto forme diverse ritroviamo presso ogni popolo e che si perde nella notte dei tempi, è quella che costituisce la trama principale del dramma shakespeariano». E’ curioso a questo proposito ricordare come proprio le fonti letterarie de La tempesta siano considerate incerte. Qualcuno si è sforzato di trovare delle corrispondenze nella letteratura italiana, ma le conclusioni per lo più concordano nell’assegnare il primato all’opera stessa del grande drammaturgo inglese.
Prospero non sarebbe nient’altro che un Amleto 'risolto', ennesima riproposizione, ma al culmine della maturità personale e artistica, dell’uomo delle tenebre che cerca di espiare la propria colpa; e che vede altri uomini dotati, in una qualche maniera sufficientemente armati, iniziare il medesimo percorso.
La colpa di Prospero - ricorda la Zazo – è la colpa di Ognuno, la colpa di Adamo: aver voluto assaggiare del frutto dell’albero della conoscenza. L’isola non sarebbe dunque un’Utopia alla More, ma piuttosto un Eden, una novella Avalon dove l’uomo primitivo, il 'green man', la bestia, l’antico sciamano è stato spodestato dal Mago saggio, dall’uomo nel quale la ragione e il perdono trionfano sulla stoltezza e sull’odio.
«What is the time o’th’day? (Che ore sono?)» chiede due volte Prospero ad Ariel come se il tempo fosse una finzione, una sorta di magia a comando. Ed anche qui è interessante notare che la vicenda è pomeridiana, ambientata nella piena luce del giorno, in quella che per Shakespeare è la realtà, l’unica realtà ultima. Nella più acuta delle sue citazioni la Zazo ricorda le parole del Duca a Claudio nel III atto di “Misura per Misura”, espressione queste ultime di un modo molto singolare – ed in fondo tipicamente shakespeariano – di intendere la vita: «Non hai gioventù, né vecchiaia, ma una sorta di sonno pomeridiano nel quale sogni di entrambe». Singolare, non è vero?
Ed è qui che si innesta, dunque, la vicenda di Ferdinando, il principe che sposa Miranda, facendo fare alla figlia di Prospero un viaggio simbolico verso sud. Non sarebbe – si potrebbe supporre – un matrimonio qualsiasi, ma un modo per trasmettere al futuro re quella qualità che, principessa di tutto il dramma, porterà Ferdinando sulle stesse orme di Prospero. Se Dio vuole.
 

14 febbraio 2007

Le responsabilità di Churchill a Dresda

Le responsabilità di Churchill a Dresda

di Gianfredo Ruggiero

Il 13 e il 14 febbraio del 1945 si consumò una delle vicende più tragiche dell'intero secondo conflitto mondiale: il bombardamento di Dresda, avvenuto per volere di Churchill.

Dresda era in assoluto la più bella e romantica città tedesca e probabilmente d’'Europa. Aveva scorci di grande suggestione con i suoi palazzi barocchi, le sue piccole case di legno e mattoni fulvi che risalivano al medioevo gotico e i suoi vicoli punteggiati di taverne e birrerie senza tempo. Apparteneva al mondo intero, non solo alla Germania e tanto meno alla Germania nazista.

Dresda non era mai stata toccata seriamente dalla guerra sia per la sua posizione geografica sia perché non aveva né industrie né impianti militari rilevanti (era addirittura priva di difesa antiaerea) ed era così forte la convinzione che fosse esente da pericoli che le autorità tedesche vi avevano fatto affluire le centinaia di migliaia di profughi (soprattutto vecchi, donne e bambini) in fuga dalle regioni orientali sotto l’'incalzare della Armata Rossa e gran parte dei feriti provenienti dal fronte. Si pensava che considerazioni umanitarie e il rispetto per una Città d'arte amata in tutto il mondo avrebbero indotto gli angloamericani a risparmiarla.

Invece la distruzione arrivò su questa Città del febbraio del '45 quando le sorti della guerra erano ormai segnate. Fu una carneficina.

Alle 22,15 del 13 febbraio oltre 500 bombardieri inglesi Lancaster scaricarono sulla città indifesa le terribili bombe dirompenti block buster. Poi si allontanarono in direzione di Strasburgo.

I soccorritori iniziarono ad affluire dalle città vicine, mentre gli scampati escono lentamente dai rifugi. Erano quello che gli inglesi attendevano: far uscire la gente, far arrivare i soccorritori e tornare a colpire.

Ore 1,28 del 14 febbraio arriva, indisturbata come la prima, la seconda ondata. Questa volta però i bombardieri pesanti della Raf portano nelle stive 650.000 bombe incendiarie caricate a benzina e a fosforo in grado di sviluppare un calore che fonde il ferro (la versione aggiornata, le famigerate bombe al napalm, sarà poi sperimentata dagli americani in Vietnam). L’'effetto fu devastante.

Dresda si trasformò in un immenso rogo esteso un centinaio di chilometri quadrati e visibile ad oltre 300 Km di distanza. All'’interno si sviluppa una temperatura che arriva fino a 1.000 gradi che porta alla formazione di una corrente d'’aria ascensionale d'’inaudita potenza e calore. Dalle case già sventrate dalle bombe dirompenti è aspirata ogni cosa e scaraventata all’'interno della fornace. Chi non muore divorato dalle fiamme soccombe nei rifugi, asfissiato per mancanza d’ossigeno o intossicato dal monossido di carbonio.

All'’alba del 14 febbraio, quando per i sopravvissuti delle zone periferiche della città sembrava che il peggio fosse passato, ecco giungere la terza ondata. Gli americani, che non potevano essere da meno degli inglesi, con le loro “fortezze volanti” scaricarono su ciò che restava della città e dei suoi abitanti il loro carico di morte e distruzione mentre i caccia “mustang” a volo radente mitragliavano le colonne di profughi che cercavano di fuggire dall'’inferno di Dresda.

In totale su Dresda furono sganciate 2.700 tonnellate di bombe, un quantitativo enorme, se confrontato con quello gettato su altre città tedesche. Ma la preferenza data alle bombe incendiarie, che rappresentarono circa il 70% degli ordigni lanciati, causò la più spaventosa tragedia della guerra: i morti accertati furono 135.000 (la stima più accreditata fa però salire a circa 200.000 il numero delle vittime per il grande afflusso di profughi, moltissimi dei quali non ancora censiti).

Questo fu Dresda: un orribile massacro di civili che non trovò alcuna giustificazione dal punto di vista militare. Fu il macabro record di disumanità, non eguagliato neanche dai bombardamenti atomici sul Giappone che causarono “solo” 150.000 morti.

Gli angloamericani ancora oggi con sorprendente cinismo “giustificano” quello spaventoso massacro affermando che “ fu un inevitabile prezzo da pagare per la liberazione dell’'Europa e del mondo dalla barbarie nazista”…

In realtà fu il desiderio di infliggere una punizione esemplare non al regime hitleriano, ma al popolo tedesco e nel contempo lanciare un monito all’'alleato sovietico (quello che oggi è toccato a Dresda domani potrebbe toccare a Mosca) che animò l'’ordine impartito da Churchill e pienamente condiviso dall’'alleato americano.

Al processo di Norimberga, dove nell’'ottobre del ’46 furono giudicati i gerarchi nazisti colpevoli di crimini contro l'’Umanità, sul banco degli imputati per gli stessi reati non avrebbero sfigurato gli autori e, soprattutto, il mandante del bombardamento di Dresda.

-----------------------------------------------------

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

09 febbraio 2007

I racconti di Versailles – n. 4 - di Bruna Alasia

MARIA ANTONIETTA
E LE SIGNORE ZIE
Racconto quarto



Maria Antonietta sbadigliò cercando di aprire un occhio gonfio di sonno, il sole riflesso nella specchiera l’accecò per un attimo.
- Chiudi le tende, per carità! – strillò alla cameriera che arieggiava la stanza.
- Sono le nove altezza, non vi alzate?
- Non di colpo… lasciami prendere fiato…
- Madame, le signore zie…
- Le signore zie, le signore zie… - disse stizzita la Delfina sedendosi di scatto, buttando indietro il copriletto fucsia per scendere dall’enorme letto.
- Madame, vi prego…. – le corse dietro la giovane – eccovi la toilette…
- Scheise… - bofonchiò Maria Antonietta.
- Prego?
- Scheise!
L’altra la guardò interdetta. La Delfina rise pensando che poteva pronunciare quella parola e che mai avrebbero saputo che in tedesco significava merde: libidine infinita! Come quando da bambina usava con Carolina, la sorella più cara, un linguaggio cifrato e nessuno ne carpiva i segreti.
- Scheise… - disse ancora, ma più pacatamente, ormai sottomessa al rituale quotidiano.
Arrivò la colazione: latte di mucca appena munto, schiumoso, in una tazza di porcellana con le sue iniziali. Lo bevve sbocconcellando croissants appena sfornati per lei. Passò velocemente alle preghiere raccogliendosi in silenzio: i ricordi di Hofburg e di Schönbrunn le trafissero lo sterno. Erano trascorsi pochi mesi da che aveva lasciato Vienna e la separazione doleva. In Francia era chiamata con distacco “l’austriaca”. Di questo, in fondo, provava orgoglio ma la sua, pur invidiabile, nuova condizione aveva un caro prezzo: a Versailles cercava di sentirsi in famiglia senza riuscirci. Chissà se avrebbe finito per abituarsi. Quindici anni! La vita sembrava lunga e lenta. Si alzò facendosi il segno della croce.
- Andiamo – disse e le cameriere le fecero strada aprendo una porta mimetizzata nella tappezzeria, con una chiave segreta, quella dei corridoi particolari del castello, dono che le figlie di Luigi XV avevano fatto a Maria Antonietta appena arrivata. Con quella la Delfina, senza essere vista ne seguita, poteva raggiungere le stanze delle zie, anche se solo madame Vittoria l’aveva con affetto autorizzata a trattenersi. Entrando nell’appartamento di tante Vittoria, la Delfina le vide tutte e tre sedute sul divano.
- Bonjour Mesdames Tantes – sorrise con un inchino grazioso.
- Bonjour cherie.
Uno dei luoghi più belli del castello, un tempo il bagno del re Sole. Maria Antonietta apprezzava il caminetto di squisita fattura, di un marmo così denso e scuro da avere riflessi azzurri se c’era una certa luce. Spazioso, elegante, di una sobrietà raffinata: poltroncine chiare, divanetti essenziali, lampadari come ghirlande. Sedette osservandole in silenzio.
Le mesdames di Francia, tre grassocce zitellone oltre i quaranta, precocemente invecchiate, si aggiravano come scuri uccelli per la corte, intrigando e lavorando a maglia. Alla nipote avevano insegnato l’uncinetto, col quale tentava di fare per il nonno un panciotto che non riusciva a terminare. Un tempo il Beneamato trascorreva la mattina con le figlie preparando loro il caffè e le zie andavano ogni sera a trovare il padre. Alle sei, l’ora in cui al re venivano tolti gli stivali, indossavano enormi paniers, giubbe ricamate d’oro, mantelli di nero taffetas e sfilavano con cavalieri, dame, paggi, scudieri, guardiani con potenti fiaccole, per corridoi e scale. Il pigro palazzo sembrava animarsi per incanto. Attraversavano il salone di Venere, quello di Diana con gli imperatori, il trono in porpora solenne, scintillavano le fiamme negli specchi della galleria e finalmente la grande camera dove la corte assisteva alle intimità del sovrano. Lì, quel Dio onnipotente, avanzava poggiando le labbra sulla loro fronte per deporvi un bacio. E subito rientravano. Che tempi meravigliosi! Che rimpianto!
Quando in scena era arrivata la favorita, una svergognata di infimo rango, le signore di Francia sentirono di avere perso il solo genitore rimasto. Il giorno che madame du Barry, dopo aver soggiornato dal valletto di camera del re, ricevette l’onore di una migliore sistemazione, toccò a Vittoria cedere alcune sale: per quanto abituata a traslochi e ristrutturazioni, madame Vittoria non glielo perdonò mai e, senza dubbio, questo episodio fu di importanza basilare per cementare ed espandere a corte le numerose fazioni antibarryste.
Maria Antonietta, su una poltroncina dai braccioli imbottiti, ora guardava le tre aspettando.
- Zie carissime, allora? Siete riuscite a convocare il re?
- Ma certo – disse Adelaide con tono volitivo.
- Anzi è lui che ha convocato noi – puntualizzò Sofia
- Cioè? –
- Siamo invitate a pranzo nei suoi appartamenti – spiegò con calma madame Vittoria.
- E quando?
- Oggi, alla mezza.
Antonietta batté le mani in segno di approvazione.
– Avete anticipato il motivo del colloquio?
- Gli abbiamo fatto cenno, ma voi saprete trovare parole migliori delle nostre.
Madame Vittoria porse un dolcetto che l’altra rifiutò.
- Bene, benissimo… allora vado a prepararmi e a farmi pettinare.
Sollevata Maria Antonietta salutò con un sorriso e, dopo un inchino, si avviò dal parrucchiere che come ogni mattina le avrebbe sistemato i capelli sulla sommità del capo. Nella cerchia delle zie la ragazzina era entrata per placare la nostalgia, alla ricerca di un affetto: le piaceva che avessero l’età di sua madre; a loro volta le mesdames avevano trovato in lei un appoggio utilissimo a esercitare l’ostilità sottile e implacabile nei confronti dell’ amante del padre. Di loro il Beneamato non era mai andato fiero, pur se in generale non considerava le donne a meno che non fossero giovani e sensuali. A ciascuna aveva affibbiato un nomignolo: “Porcellino” a Vittoria, “Straccio” ad Adelaide, “Pezzuola” a Sofia. Figlie di re senza ulteriori fortune, ammesso che l’esserlo lo sia, erano state afflitte da un’educazione affilata come uno scudiscio.
Vittoria, la più gradevole fisicamente ed espansiva, aveva trascorso l’infanzia a 300 chilometri da Versailles nell’abbazia di Fontévrault, prescelta dalle famiglie nobili per l’educazione dei figli, ambita perché custodiva le tombe di Riccardo Cuor di Leone e di Isabella di Angoulême. Ma lei ne ricordava il chiostro, i lunghi colonnati in ombra, il risuonare di passi misteriosi, i sotterranei con le tombe delle monache dove i bambini venivano condotti a fare penitenza. “Dio mio dove sei?!” aveva un giorno gridato al buio, in ginocchio e con le mani sulla testa, mentre un pazzo, incarcerato nei sotterranei, rispondeva con urla farneticanti. Ancora oggi portava i segni di quella brutta esperienza dormendo male, eccitandosi per nulla, cercando di affogare le crisi di panico nella buona tavola senza badare se ingrassava, preoccupata solo di osservare, a suo modo, digiuni e quaresime.
Durante uno di quei periodi di contrizione, avendo per di più a cena un vescovo, si tormentava:
- L’uccello acquatico che ci viene servito sarà magro Padre, possiamo permetterci di mangiarlo?
Il prelato, assumendo un’aria grave, dopo avere riflettuto a lungo:
- Per saperlo bisogna farlo pungere sopra un vassoio d’argento ben freddo: se il succo di rapprende l’animale è grasso, se rimane sotto forma di olio l’animale è magro. Allora potremo mangiarlo.
Così fu fatto: attimi di timore, poi un mormorio di sollievo quando “Porcellino” e i suoi ospiti capirono che avrebbero potuto saziarsi con grande voluttà.
Sofia era brutta al punto da destare ribrezzo o pietà, la sua altezzosità nascondeva diffidenza, durezza sorprendente d’animo, dettata dalla scarsa considerazione di sé e dalla paura: percorreva i lunghi corridoi in fretta e non rivolgeva la parola a nessuno, o quasi. Per evitare di essere interpellata aveva preso l’abitudine di guardare di sguincio fingendo di non vedere gli altri. Le dava fastidio persino madame Campan, la lettrice umile e affezionata che consumava per la corte i propri polmoni. Soltanto i temporali sapevano domare Sofia.
- Madame Campan vi prego, fermatevi… leggete leggete, mi farà bene… - e le afferrava le mani in preda al terrore durante un fragoroso acquazzone estivo, ma appena spuntato l’arcobaleno: “C’è il sole, nostro signore ci ha graziate… potete andare adesso”.
Adelaide aveva una personalità spiccata, un temperamento forte e ostinato che si era manifestato fin dall’infanzia. Raccontavano che il maestro di danza, unico insegnante di arti ricreative che avesse potuto seguirle a Fontévrault, stava un giorno istruendola su un ballo in voga, il minuetto color di rosa. Adelaide, che avrebbe preferito fosse chiamato in altro modo, lo canzonò:
- Blu blu blu… questo nome mi piace di più!
- Si chiama minuetto color di rosa…
- Blu blu blu … questo nome mi piace di più! - puntò i piedi e rifiutò di fare un solo passo.
- Volete provare il minuetto color di rosa? – il maestro sorrise con malcelata la stizza.
Adelaide per tutta risposta lasciò la lezione. L’ostinazione della principessa ora rendeva il gioco serio: allarmate dalla gravità del caso, le suore indissero un’assemblea nella quale si schierarono, manco a dirlo, dalla parte della figlia del re; dopo mezz’ora tornarono nel salone da ballo dove con ridicola austerità si misero in cerchio battendo le mani a tempo, sostenendo Adelaide che al centro gridava:
- Blu blu blu… questo nome ci piace di più! Blu blu blu… questo nome ci piace di più!
Il minuetto fu ribattezzato in blu.
Adelaide era stata poi quella che si era opposta con decisione al matrimonio tra Luigi Augusto e “l’austriaca”. Essendo però intelligente e avendo la malleabilità di un politico , pur mantenendo una rivalità e un’avversione tacita verso la straniera, coltivò con diplomazia la sua amicizia pensando che poteva essere conveniente: anzi fu proprio sotto la sua guida che le zie manovrarono perché la ragazzina cadesse sotto la loro influenza. La cosa non sfuggì all’ambasciatore Mercy Argenteau che preoccupato scrisse alla madre, l’imperatrice Maria Teresa: “Le mesdames tantes amano immischiarsi in piccoli intrighi, pericoloso sarebbe se vi attirassero anche la Delfina”.
***
Quando Luigi XV entrò nella sala da pranzo, arredata in verde, con arazzi ispirati alla caccia, trovò le donne ad attenderlo. Sedette a capo tavola, Adelaide e Sofia alla sua destra, Maria Antonietta e Vittoria alla sinistra. Durante quel pasto informale, con una servitù ridotta al minimo, dimezzate le stoviglie in porcellana, i camerieri disposero piatti per il brodo, per gli antipasti, per gli arrosti, per le insalate e per la frutta.
Il re si fece portare un uovo alla coque. L’addetto al servizio mise il portauovo di fronte a lui, porse una forchetta che il Beneamato prese, capovolse e tenne con manico oscillante rivolto all’oggetto. Silenzio. Finalmente sferrò il colpo.
- Parbleu! – tra i presenti corse un mormorio.
Scoperchiato il guscio in maniera perfetta, Sua Maestà mostrò orgoglioso la calotta: esibizione che ripeteva la domenica, davanti a cortigiani imbarazzati e prodighi di elogi sconcertanti.
Iniziarono. Il sovrano sapeva che l’ incontro andava oltre il piacere del trovarsi, conosceva la seccatura a cui far fronte, ma volutamente ignorò l’argomento e portò il discorso sullo stile del servizio e l’etichetta.
- Trovo sia bene che dal 1750 in poi si vadano abbandonando i piatti d’oro, d’argento, di vermeil… tranne ovviamente nelle occasioni che meritano.
- Oh sì, e poi vostro nipote adora le porcellane di Sévres – fece eco Maria Antonietta.
- Lo so… mio nipote è giovane, dunque è alla moda… ma adesso dov’è? – chiese accorgendosi all’improvviso della sua assenza.
Madame Vittoria celò un risolino, lo stesso fece Adelaide. A Sofia sfuggì una risata imprevista, fulminea come uno starnuto, che accentuò la sua altezzosa bruttezza.
- Vorrei ridere anch’io – disse Luigi XV irritato.
Silenzio.
- Allora… dov’è mio nipote?
Madame Victoria intervenne :
- E’ andato ad aiutare i mastri muratori che stanno ristrutturando l’ala nord, rientrerà stasera.
Silenzio. Il sovrano fece una smorfia di disappunto.
- Non gli bastano le serrature? Pure questa ora? Ma che cogl… dove si è visto un Delfino che si ammazza di fatica, si insozza come un plebeo dalla testa ai piedi? Che senso ha?! - alzò la voce, ma incontrando lo sguardo desolato di Maria Antonietta capì all’istante che era giunto il momento di parlar d’altro - Comunque… non c’era qualcosa che dovevate dirmi… di che si tratta?
La giovinetta prese fiato, si schiarì la voce e bevve un sorso d’acqua. Dietro consiglio del suo ambasciatore Mercy Argenteau aveva voluto quell’incontro per una ragione precisa: la contessa Du Grammont, che faceva parte della cerchia della Delfina, durante uno spettacolo teatrale si era rifiutata di cedere il posto alla discussa Madame Du Barry, la favorita se ne era lamentata con il re e la contessa Du Grammont era stata allontanata dalla corte. Personaggio di secondo piano, la contessa era però parente del duca di Choiseul, ministro degli esteri: implicazione di grande rilievo. Con Antonietta Mercy Argenteau si era raccomandato di usare molto tatto e diplomazia, ma bisognava pur parlarne giacché anche il maresciallo di Beauvau e la duchessa di Choiseul avevano preferito rinunciare agli onori dell’intima società reale, pur di non trovarsi accanto quella donna: troppo.
- Monsignore – esordì la Delfina – sono veramente dispiaciuta per il comportamento assolutamente esecrabile della contessa Du Grammont, riconosco che essa ha sbagliato, sia nei vostri confronti che nei confronti di Madame. Tuttavia…
- Tuttavia? – disse Luigi XV mentre un servitore gli versava del Borgogna - Tuttavia avrei desiderato che prima di allontanare Madame du Grammont voi informaste me … avrei pensato a redarguirla io, a farle riconoscere il suo errore… lo avrei ritenuto un atto di cortesia da parte vostra… dal momento che, come ben sapete, la Du Grammont fa parte del mio entourage, sarebbe stato squisitamente gentile…
Il re bevve d’un fiato, sul volto lungo, grassoccio e cascante, si dipinse un’espressione di imbarazzo che rese più a punta il suo mento.
- Davvero? La Du Grammont è stata allontanata da Versailles? – mentì sapendo di mentire – Ma guarda… non lo avrei mai creduto! – dibattuto tra la cieca infatuazione per la sua amante e l’affetto per la nipote pensò di negare ogni responsabilità – Ma come! Non capisco… o forse sì, deve essere stata una decisione del duca di La Vrillière… ah! quel maledetto La Vrillière… - e strascicò il cognome del Ministro con intento denigratorio.
Gli occhi di Adelaide gli comunicarono scetticismo e rampogna e si zittì.
- - Ora cosa intendete fare? - chiese Maria Antonietta
Il Beneamato sembrò pensarci un attimo, allargò le braccia:
- Ovviamente far tornare a Versailles madame du Grammont…
Maria Antonietta battè le mani sciogliendosi in un sorriso:
- Oh…. siete il sovrano più grande della terra!
Il re rise soddisfatto.
- Potete ben dirlo!
- Grazie, grazie Monsignore.
- Grazie a voi figliole per questo incontro… ma adesso rompete i ranghi… tornate nei vostri alloggi… - guardò una pendola dorata su una mensola: era ora di tornare da Jeanne! Madame du Barry lo aspettava per rendergli più amabile la vita.
Adelaide, Vittoria e Sofia, si alzarono. Luigi XV le osservò confrontandole con la giovinezza radiosa dell’amante e gli apparvero senza speranza. Sospirò scuotendo la testa, pensò che in fondo non aveva sbagliato Luisa, quarta di loro, a farsi monaca. Aveva lasciato il mondo per la pace di Dio. Di lei restava a Versailles soltanto qualche mesto ritratto. Cresciuta nell’abbazia di Fontévrault dagli undici mesi ai tredici anni, si era sentita a disagio quando, rientrata in famiglia per un breve periodo, era stata presa nel vortice della corte. Suo padre, sua madre, i suoi parenti, mai venuti a trovarla da bambina, persino le sorelle più grandi dalle quali era stata separata, erano estranei. Non capiva le loro abitudini. La reggia con le stanze labirintiche, gli interminabili corridoi, faceva paura. Sapeva a malapena leggere, non conosceva l’etichetta, non apprezzava i piaceri mondani ma rammentava l’odore delle monache, il caldo della loro pelle, il silenzio del chiostro e stava male. Ne parlò con l’arcivescovo di Parigi accoratamente. Lui l’ascoltò. Così nell’aprile del 1770, poco prima del matrimonio di Maria Antonietta, Luisa prese la decisione di rifugiarsi nel convento carmelitano di Saint Denis, tra i più rigidi e spartani. Solo suo padre ne era al corrente: consenziente e smarrito non ne fece parola a nessuno. Appresa la scelta le sorelle sbalordirono: “Non è da noi che abita la felicità”.
La figlia di Luigi XV assunse il nome di suor Teresa di Sant’Agostino. Si disse che era stata illuminata da una grande vocazione, che avrebbe dovuto essere santificata, che aveva patito per essere ultima per rango: in realtà aveva sofferto tanto di solitudine, di segregazione dal mondo. Solo suor Paris de Soulanges aveva rappresentato il caldo seno di una madre e ora non voleva altro
Sulla porta le zie e Maria Antonietta salutarono il re con un inchino.
- Andate… andate pure…
-Grazie ancora Maestà.
La delfina uscì dalla sala a testa alta, nello sguardo la luce del successo ottenuto, il cuore gonfio di orgoglio. Si proponeva, quella sera stessa, di scrivere alla mamma: non c’era dubbio alcuno, le avrebbe detto, che le sue qualità politiche e diplomatiche erano impareggiabili e che sarebbe diventata un giorno come lei: una grandissima regina.

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@virgilio.it

"Li vuoi tutti morti" di Bruno Pampaloni

Bruno Pampaloni
LI VUOI
TUTTI MORTI
Fratelli Frilli Editori, Genova 2006
ISBN 88-7563-203-0
Pagine 240 - Euro 4,90

... e poi, in fondo... i protagonisti e tutti i morti di questo schifo sono dei vinti. Peggio, reduci. Nulla è più triste e noioso dei reduci. Letteratura, folclore. Pupi in mano a un puparo privo di sentimenti, la Storia, con le sue leggi, il suo percorso segnato da "Una lunga serie di omicidi, perpetrati ai danni di volti noti della televisione, sconvolge il mondo del piccolo schermo e induce un giornalista a occuparsene. Lotta politica, caso Moro e guerra in Iraq fanno da sfondo a questo giallo il cui epilogo si rivelerà drammatico e sorprendente al tempo stesso.


Il libro: La vicenda si svolge ai giorni nostri tra Milano, Genova e un'imprecisata cittadina della provincia lombarda dove le brutali morti di alcuni personaggi famosi scuotono il mondo della televisione.Un regista viene ucciso con un coltello da cucina, una comica massacrata con un candelabro, un autore assassinato con un cacciavite e un presentatore freddato con tre colpi di pistola. Oltre alla polizia, un giornalista di un quotidiano popolare, Carlo Messina, indaga sul caso scoprendo che, un tempo, le vittime avevano lavorato come redattori di una rivista di cinema militante. Vendette private maturate all'epoca di una trascorsa militanza politica?

Omicidi perpetrati a causa di un banale tradimento amoroso? Regolamenti di conti nell'ambiente televisivo? Alla fine il giornalista riuscirà a trovare una sorprendente e drammatica risposta. La vicenda, narrata in stile accattivante, affronta temi che hanno lacerato il nostro paese e che ancora fanno discutere: lotta politica,solidarietà e amicizia all'epoca della vicenda Moro; guerra in Iraq; politica e programmazione televisiva; impossibilità e incomunicabilità in amore.


L'Autore: Bruno Pampaloni è nato a Genova nel 1958. Vive e lavora a Milano. Studioso di cinema e tecniche cinematografiche, in passato si è impegnato nella stesura di alcuni studi tematici ed ha lavorato in televisione in qualità di autore e regista collaborando con Mediaset, Rai e varie case di produzione. Oltre a Li vuoi tutti morti, ha già al suo attivo una raccolta di racconti (L'acrobata) e si appresta a pubblicare come co-autore un saggio su una parte di storia del cinemaitaliano intitolato "Il ventennio in celluloide".
----------------------------------
A questo linl il primo capitolo:
----------------------------------
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

04 febbraio 2007

Giancarlo Menotti

L’ambasciatore
dei due mondi di Antonio V. GELORMINI

Distinto, ammaliante, affascinante. Questa fu l’impressione, mia e dell’amico bolognese esordiente fotografo, che avemmo di Giancarlo Menotti, quando ci accolse nell’incantevole soggiorno con vista sulla piazza del Duomo di Spoleto. Era una soleggiata mattina di luglio, durante un Festival di circa 25 anni fa.

Chiedevamo irrispettosamente il suo intervento, per rendere possibile un servizio fotografico con un allora sconosciuto Patrick Dupont. Ballerino emergente e futura etoile, nonché Direttore artistico, dell’Opera di Parigi quando sarà chiamato a succedere a Rudolf Nurejev. Temevamo l’offesa, ottenemmo invece la squisita disponibilità di un signore d’altri tempi, lusingato e gratificato dalla nostra attenzione verso un giovane talento, da lui scoperto e portato in Italia. Oltre che: “Divertito”, disse proprio così, “dal poter sentirsi utile”.

Sconosciuto ai più in Italia, come musicista, compositore, librettista e regista, lo è stato maggiormente come animatore ed organizzatore di eventi musicali e culturali. In particolare, ha legato il suo nome al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Da 50 anni l’appuntamento più raffinato e qualificato della vita culturale italiana che, a partire dal dopoguerra, ha fatto conoscere tutto ciò che di moderno, dalla musica alla danza al teatro, si produceva in America e che da noi era praticamente ignoto.

Era nato a Cadegliano, vicino a Varese, 95 anni fa. Undicenne e studente al Conservatorio di Milano già compose e firmò la sua prima opera. Su suggerimento nientemeno che di Arturo Toscanini si trasferì a Philadelphia, diventando un compositore molto rappresentato all’estero e messo al bando in patria. Rifiuto del fascismo prima e passioni non ortodosse per l’epoca, poi, crearono per lungo tempo una certa distanza col nostro Paese.

Una lunga vita vissuta ai massimi livelli di cultura, arte e mondanità. Fu interlocutore di personaggi come Charlie Chaplin, Thomas Mann e Greta Garbo. Poteva vantare l’amicizia di autori come Samuel Beckett e Dimitrij Sciostakovic. Si permetteva il lusso di avere al suo Festival: Pablo Neruda, Pier Polo Pasolini, Salvatore Quasimodo, Ezra Pound, Eugenj Evtuschenko riuniti, nell’edizione 1965, in una memorabile “Settimana della poesia”.

Il Console (1950), Amelia al ballo (1937), Il telefono (1947), La Medium (1945), La Santa di Bleeker Street (1952), Juana la loca (1981), Goya (1986) e Le nozze (1988) le opere più conosciute. Il suo amico più fedele, Samuel Barber, volle essere sepolto accanto ad una tomba vuota col nome di Menotti. Fu segnato dalla sola grande e struggente passione per Thomas Shippers, il direttore d’orchestra americano “bello come una Madonna Senese” (D. Petrolati). Forse il vero ideatore del Festival, le cui ceneri lo stesso Menotti volle che riposassero in Piazza Duomo a Spoleto.

Giancarlo Menotti è stato definito il personaggio ponte tra gli Stati Uniti e l’Italia sul grande oceano della cultura. Con lui cala davvero il sipario sul Novecento. Un altro grande gentiluomo proveniente dal varesotto, che in pochi giorni, dopo Leopoldo Pirelli, vola verso i sentieri infiniti dell’immortalità. Un itinerario indubbiamente più leggero, per chi ha trascorso l’intera vita a cavallo tra due mondi.

(gelormini@katamail.com)
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

02 febbraio 2007

Film – la recensione di Bruna Alasia
DIARIO DI UNO SCANDALO
Regia di Richard Eyre
Con Judy Dench, Cate Blanchett. Andrew Simpson, Bill Nighy


Tratto dal best-seller di Zoё Heller imperniato su un sentimento molto conosciuto nelle grandi città, quello della solitudine, il film ripropone alla sua maniera, anch’essa avvincente, una storia di isolamento e ossessione. La trama, di cui non scopriamo volutamente gli sviluppi, è questa: un’anziana insegnante (Judi Dench) in una malandata scuola di Londra governa la classe con autoritarismo nevrotico, vive con un gatto e non frequenta anima viva. Un giorno conosce una giovane professoressa (Cate Blanchett), sposata con figli, che sembra essere la confidente da sempre sognata. Le due donne intrecciano un’amicizia stretta, nella quale riversano segreti e passioni. Tutto va bene finché l’anziana non scopre che la collega ha una relazione sessuale con un alunno di quindici anni, uno scandalo che, per gelosia, minaccia di rivelare al mondo. Da qui il film si fa thriller psicologico, svelando le potenti ossessioni di due donne prese nella rete di passioni incontrollabili, accompagnato da una colonna sonora coinvolgente, per la quale Philip Glass si è guadagnato una nomination all’Oscar. Altre nominations per la sceneggiatura non originale sono andate a Patrick Marber, a Cate Blanchett come attrice non protagonista e alla bravissima Judi Dench quale migliore attrice protagonista.
Per lo sceneggiatore l’adattamento cinematografico ha senz’altro rappresentato una sfida perché il romanzo di Zoё Heller, scritto sotto forma di diario tenuto dall’insegnante anziana, svela, attraverso pensieri al limite della follia, la manipolazione e l’intricata vicenda tra le due donne. L’essenza della storia è stata egregiamente riprodotta nei dialoghi e nelle scene, la suspense trasportata sullo schermo da una equipe cinematografica pienamente all’ altezza della situazione.
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...