15 giugno 2006

Il fascino magnetico di Eugenio Barba

di Augusto da San Buono

Eugenio Barba è ritenuto oggi uno dei più grandi registi e teorici dello spettacolo del nostro tempo, uno che ha insegnato nelle Università di Torino, Bologna, L'Aquila, La Sapienza di Roma, uno che ha scritto una trentina di libri sul teatro, che ha girato tutto il mondo e "si confronta direttamente con la storia del proprio tempo, eludendo le cronache teatrali, polemiche, tendenze, protagonisti mediatici". Uno che potrebbe essere insignito (perché no?) del Nobel per la letteratura, e non a caso tra poco a Londra gli verrà assegnata l’ennesima laurea honoris causa. Ma quando lo vidi per la prima volta, in un capannone degli ex cantieri della Giudecca di Venezia, giusto trent’anni fa, (23 ottobre 1975) era – come disse Cesare Garboli, - un mediterraneo ispido e selvaggio, cotto di sole, uno sciamano di uno spettacolo - processione, qualcosa di transitorio, di fragile e di leggero, ma di gran peso: era una pantera pronta allo scatto… “Il suo corpo era uno strumento musicale magnetizzato che emetteva vibrazioni armoniche e trasmetteva una forza incredibile, risanatrice. Con le sole mani compiva gesti magici, taumaturgici, con la sola forza di quelle mani era capace di guarire”. Era, forse, tutto ciò quel che avrebbe voluto essere un medico moderno di oggi, che è rimasto spersonalizzato senza più contorni precisi. Ma la sua gestualità aveva anche un qualcosa di barocco e, insieme, di angoscioso e profondo, qualcosa di simbolico e fantastico. Quelle incredibili dilatazioni del corpo, i fulminei trapassi mimici, i passaggi da un'atmosfera musicale all'altra, le danze drammatiche rituali, miste di folklore scandinavo e sardo-salentine, tutto era in lui come un'oscura tempestosità emotiva con improvvisi calme da flauto, come una rissa perenne che ora si placa per un po’, ma è pronta a riesplodere. “Il teatro , - aveva detto - , “ è la possibilità di andare più veloci della luce, afferrare più presto possibile”. E ciò costituisce ancora un modello per i suoi attori, ora che lui non recita che saltuariamente.
Da allora ho sempre inseguito, più o meno inconsciamente, quest’artista del terzo teatro (come allora veniva definito il suo teatro, che metteva in scena “l’oscenità e il contagio del linguaggio del corpo “e aboliva ogni divisione tra scena e pubblico) , questo stregone magico gallipolino, pieno di anfratti, buio e luce, uomo vitalissimo e completo, ma allo stesso tempo diviso in due, come il giorno e la notte, quest’uomo che possiede “il dono della vertigine”. Ma non l’ho mai più rivisto.
Ora, trent’anni dopo Venezia, ho finalmente davanti a me, Eugenio Barba, in carne e ossa, forse il più grande regista teatrale europeo vivente dei nostri tempi. E ciò grazie ad una felice congiuntura, ad un evento culturale che non esito a definire “ storico”. Eugenio, col suo “Odin Teatret “, è a Gallipoli, per rappresentare una serie di spettacoli (“Il sogno di Andersen”, “Le Grandi Città sotto la luna”, “Sale”) che sono stati già rappresentati in tutti i continenti, perché il teatro di Barba è universale, multietnico, multirazziale, globale, fatto di rigorosa disciplina della mente e del corpo, un training psico-fisico in cui l’attore – come abbiamo accennato - esprime i suoi messaggi attraverso la gestualità del corpo. Il suo teatro è – come scrive lui stesso nella “Canoa di carta” – “il momento della trascendenza, quando l'individuo vuole andare al di là di sè stesso, l’incontro con l'altro, chiuso e nascosto in noi stessi, ma a noi estraneo e da noi differente”. Si realizza un connubio tra personaggi e spettatori perfettamente integrati nel disegno della rappresentazione.
Ma tutto ciò, il maestro Barba, non lo dice nell’intervista che mi ha benevolmente concesso. Anzi, minimizza, come fanno tutti i grandi, e dice che questo discorso vale per loro, per l’Odin Teatret, che non è solo un gruppo culturale, ma una vera e propria comunità multietnica e multirazziale che “abita le isole galleggianti del teatro e hanno costruito ponti leggeri e resistenti per mettersi in contatto, e linguaggi estetici per comunicare al di là delle lingue e con tutte le lingue”.
Insomma far parte dell’Odin è come farsi monaci, o militari, darsi e riconoscersi in un insieme di norme e comportamenti quotidiani, forse non propriamente templari “nudi“ alla ricerca di una fede, del Graal della Purezza, come testimoniava Jarzy Grotowsky, il maestro e grande amico di Eugenio, che diceva “noi dobbiamo far vedere l’uomo così com'è, nella sua inte­rezza, in modo che non si nasconda; l'uomo che vive; e questo significa corpo e sangue. Questo è nostro fratello e si trova dove si trova 'Dio', con il piede scalzo e la pelle nuda, il fratello, l'uomo che non mente a se stesso. Tu sei, dunque io sono. Sto na­scendo perché tu nasca, perché tu divenga. Non aver paura, vengo con te».
In questo “teatro - isola galleggiante, isola di libertà“, gli attori cercano spettatori per vivere insieme momenti di sconfinata sensazione, di non appartenere al proprio tempo, di superarlo, di andargli contro, di essere come salmoni dello spirito, andare contro corrente, avere la sensazione che qualcosa possa nascere in ciascuno di noi, spettatori, che possiamo uscire trasformati dallo spettacolo, uno spettacolo che continua anche dopo, dentro di noi. Oppure – ed è l’altro lato della medaglia – ne usciamo confusi, perplessi, istupiditi, con un aumento del tasso della claustrofobia, certi di una sola cosa: di non averci capito molto più di nulla. In effetti, è questa la grandezza di Eugenio Barba: mettere in scena il Nulla o il Deserto, ovvero quella parte di noi “che vive altrove”, più o meno inconsciamente, in un esilio permanente. E lui di esilio se ne intende, avendolo sperimentato sulla propria pelle facendo l’emigrante nel periodo in cui l’italiano non era molto quotato e in specie nel nord Europa era considerato alla stessa stregua del negro in Usa. Il suo teatro apre nuovi scenari, nuovi paesaggi, ci dice di una vita nascosta che abbiamo dentro, e che può manifestarsi, lì sulla scena, attraverso le sincronie coreografiche danzanti, le luci, la sabbia, il sale, il corpo che si contorce e piange e si dispera, e sembra dover morire, dopo aver “girato tante isole” metaforiche e non, dopo aver cercato e sperato, ma continua ad aspettare, un’attesa infinita del “ Sale”, che potrebbe essere il Godot di Barba.
Certo, tutto nel suo teatro - recitazione, coreografie, musiche, danze, luci, effetti speciali, - è frutto di una minuziosa analisi chimica di fatti inconsci e rituali religiosi; tutto è essenziale, rigoroso e perfetto, come uno spartito musicale, come un’equazione matematica, e noi stiamo a guardare a bocca aperta questa sorta di scatola magica che è il teatro, e capiamo, - forse - in quel momento che abbiamo bisogno di nutrirci dell’arte, abbiamo bisogno del teatro, abbiamo fame e sete di queste cose, la stessa che hanno loro.
Parliamo della sua genialità, ma anche della sua schizofrenia.
“Maestro, aveva detto Garboli che lei si insedia al centro del teatro come al centro della propria pazzia, della propria e di quella degli altri; per metà è interamente sano e per l’altra metà completamente psicotico, è come una mela spaccata in due “.
Sorvola sulla genialità, ma ammette che sì, un po’ di schizofrenia in lui c’è, ma non guasta, nell’attore è un fatto naturale, basta incanalarla, controllarla. Sembra un po’ Pasolini – m’aveva detto un amico. In effetti, sia nella voce, che nei tratti somatici, Eugenio Barba ha qualcosa di Pasolini. Ma è un Pasolini diverso, più semplice, più completo, più diretto, con una capacità di dominio psicologico sugli altri che è vissuta come vocazione fatale. Barba ha un carisma e un magnetismo straordinario, un fascio di energia, una forza esplosiva e controllata, una buia luminosità, una magìa che inquieta, una potere infallibile di fascinazione , come ammette il suo allievo e regista Pino Di Buduo, che lo accompagna.
Gli chiedo, poi, se è vero che aveva dichiarato che a Gallipoli non ci avrebbe mai più messo piede, e non perché avesse qualcosa contro la sua città natìa, ma semplicemente perché non aveva tempo per andare in giro per diporto. ”La mia città è dove c'è gente che mi accoglie, che si interessa alla mia arte, che mi ascolta”, questo avrebbe dichiarato.
Conferma che è tutto vero e se non fosse stato per il cugino, il Ministro Rocco Buttiglione, altro gallipolino doc, che ha sostenuto questa operazione, a Gallipoli col suo teatro non ci sarebbe tornato. “Le città, per belle che possano sembrare, non hanno un’anima. Hanno persone, alcune indifferenti ed amorfe. Altre gonfie del loro ruolo. O perse nelle illusioni del campanilismo. Ed altre ancora con fame e sete spirituali. Per cercare ed incontrare queste ultime il mio teatro fa le sue irruzioni”. E spesso ci riesce, perché Eugenio Barba ha una grande carica d’umanità. E’ così difficile nel nostro tempo – disse qualcuno – incontrare un uomo che quando lo si incontra si resta colpiti come la folgore di un prodigio. E Barba è soprattutto questo, un uomo.

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