Commiato - l'ultimo romanzo di Umberto Lucarelli
COMMIATO. L’ULTIMO
ROMANZO DI UMBERTO LUCARELLI
“Bello
anche il titolo”. E speriamo che non sia l’ultimo…
«Commiato
(bello
anche il titolo, con quel tanto di controllato, eppure doloroso
distacco che la parola porta con sé) è un bel romanzo breve di
Umberto Lucarelli o – se si preferisce – un lungo racconto che si
divide in due parti. La prima è dedicata al commiato dell’io
narrante dalla madre, la seconda dal padre». Non poteva usare parole
più concise Roberto Carusi nella sua prefazione Una
oggettiva soggettività
per descrivere l’opera, edita da Bietti, Milano 2014. È l’autore
che si rapporta karmicamente e se vogliamo anche freudianamente alle
figure genitoriali. Il “Commiato” si prospetta nella mentalità
del Lucarelli come un’autoanalisi che è individuale, ma nello
stesso tempo cosmica, cioè delinea delle junghiane figure
ancestrali. Mi verrebbe da pensare subito ad Adamo ed Eva.
L’ontogenesi coincide con la filogenesi: il cammino del singolo
prefigura quello della specie. In questo senso dobbiamo guardare a
queste figure genitoriali prospettate da Umberto. L’uomo è
microcosmo, la sua autobiografia racchiude, come in uno scrigno,
anche quella dell’universo intero. La vita, d’altronde, è ben
sintetizzata dal Nostro, sin dalle prime battute: «Morire è come
nascere, è questione di fiato, arriva un’aria e tu respiri, va via
l’aria e non respiri più» (p. 17). La vita è respirazione. «Cosa
sono i ricordi? Sono come quelle foto che perderanno colore, tutto è
destinato a finire, a sbiadire e a corrompersi. Ciò che resta è il
nulla, il niente assoluto, il vuoto profondo…». C’è un riflesso
di nihilismo esistenzialistico, quasi di humeano scetticismo. L’uomo
stesso è un fascio di impressioni che si riflette nel palcoscenico
della vita. E questa vita stessa, come proferivano tutti i poeti, i
filosofi, i saggi, gli scrittori, da Cartesio a Schopenhauer, da
Nietzsche a Freud, è sogno infinito. Molto belle allora le parole di
questo commiato, sia quelle rivolte alla madre, che quelle rivolte al
padre. Ne riportiamo solo degli assaggi: «la vita stessa è a
termine, eppure continua. La gente prima ti dice condoglianze, dopo
un po’ ti chiede se è passata, ora va un po’ meglio, come stai?
Cos’è che va un po’ meglio? … Chiusa la bara, fatto il
funerale, si torna al lavoro, si torna alla normalità, come se la
nostra vita non consistesse nel morire» (p.29). E al padre: «Siamo
ricordo, sogno. Un po’ di voce. Li guardava il babbo i suoi amici,
li elencava. Vedo
fantasmi,
diceva, vedo
persone, ma mi pare di non conoscerle, sarò vicino a morire.
E i suoi occhi cerchiati di grigio, i capelli sottili, tirati
indietro» (p. 75). Proprio come dicevamo! Siamo tutti, per usare un
titolo di Turgenev, padri
e figli,
figli che diventano padri e figlie che diventano madri nel turbinio
errante dell’esistenza.
Vincenzo
Capodiferro
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