15 ANNI DI EURO: SPERANZA O DELUSIONE? di Antonio Laurenzano
15 anni di euro: speranza o delusione?
Passato sotto silenzio il
compleanno dell’euro. In un clima di crescente euroscetticismo
nessuna celebrazione per i quindici anni di vita della moneta unica.
Nel 2002 l’euro, con il festoso changeover in undici Paesi europei,
era stato salutato come il simbolo della integrazione monetaria del
Vecchio Continente, preludio alla costruzione politica della comune
casa europea. Ma nel tempo, nei Paesi economicamente più fragili, è
divenuto il bersaglio di imprese e famiglie per averne eroso il
potere d’acquisto peggiorato dalla crisi economica.
Sono stati quindici anni
non sempre facili, una corsa ad ostacoli iniziata all’insegna della
diffidenza dei mercati e dello scetticismo di alcuni economisti, un
ostacolo superato nei primi anni grazie al concorso di due fattori:
la Cina che, producendo merci a basso prezzo, ha impedito
l’inflazione a livello mondiale e la Fed (la banca centrale
americana) che, immettendo enormi liquidità nell’economia globale,
ha tenuto bassi i tassi d’interesse. Un mix di grande effetto
interamente assorbito dalla crisi dei subprime 2007-2008 con lo
scoppio della “bolla” immobiliare, punto di partenza della
recessione mondiale. Senza la liquidità degli anni precedenti i
mercati hanno richiesto rendimenti sempre più alti per comprare
titoli del debito sovrano dei Paesi deboli. La crisi finanziaria si è
poi estesa all’Eurozona che, priva di una politica strutturale
convergente dei suoi 17 membri, è andata in tilt. E per l’euro è
stata notte fonda! Una notte che non è ancora finita …
La grande crisi del 2007
infatti ha messo a nudo il problema dell’euro: essere una moneta
senza un governo, senza uno Stato, senza una banca capace di
garantire un intervento illimitato in caso di difficoltà. E’
l’anomalia di un’Europa unita sotto il segno della moneta, con la
Banca centrale europea, unica istituzione federale, priva del
sostegno di una politica economica comune e un coordinamento delle
politiche fiscali e previdenziali.
L’origine della crisi
dell’euro sta nello stesso trattato istitutivo dell’Unione
Economica e Monetaria (UEM): si sperava che le regole (rigide)
definite a Maastricht e le loro successive modificazioni (Fiscal
Compact) avrebbero consentito ai Paesi dell’Eurozona una crescita
forte ed equilibrata. Ma senza un comune ombrello protettivo ogni
Paese risponde da solo dei debiti del suo Governo, delle sue banche,
delle sue imprese con la conseguenza che l’assenza di aiuti da
parte di Bruxelles e Francoforte provoca l’aumento dei tassi
d’interesse, la rarefazione del credito, l’arresto della
crescita. Senza una reale unione economica Paesi forti sempre più
forti, Paesi deboli sempre più deboli! Le singole economie nazionali
troppo diverse fra loro, i cicli economici troppo asimmetrici e il
fattore di mobilità molto basso. La moneta unica inevitabilmente
avvantaggia i Paesi entrati nell’Unione in una situazione più
competitiva (debiti pubblici moderati, migliore organizzazione della
produzione e del lavoro, amministrazione pubblica e giustizia più
efficienti) e danneggia quei Paesi con finanza pubblica allegra e in
forte ritardo sulle riforme.
L’Italia, non in regola
con i parametri su deficit e debito fissati a Maastricht, per entrare
nell’Eurozona ha pagato un prezzo enorme con il cambio lira-euro
troppo alto “imposto” a Prodi e Ciampi dalla Germania a difesa
delle proprie esportazioni. Un perverso sistema di cambi fissi che
impone ai Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento, a danno
della crescita, e non chiede alcun impegno di solidarietà ai Paesi
in surplus (Germania). La nostra competitività che fra il 1970 e il
1995 aveva consentito la crescita della produzione industriale si è
così volatilizzata. Nel 2002 il nostro reddito pro capite era del
20% superiore alla media dell’area euro, oggi è del 20% sotto la
media, con aumento della disoccupazione all’11,6%, contro il 4,1%
della Germania. Negli ultimi otto anni, il Pil (la ricchezza
nazionale) è sceso di sette punti e il nostro bilancio, pur
registrando un avanzo primario, chiude sempre in rosso per il
pagamento del crescente debito pubblico (133%).
E’ questo il quadro
economico-politico entro il quale la leadership politica europea
dovrà muoversi per trovare nuovi equilibri, nuovi stimoli per
disegnare una convergenza economica all’interno dell’Eurozona,
presupposto essenziale per la sopravvivenza della moneta unica nel
lungo periodo. Stop al rigore senza sviluppo e crescita, ai diktat
della Commissione europea che, non promuovendo una politica economica
espansiva, alimenta la protesta contro l’euro. Ma quali le
conseguenze di una uscita dalla moneta unica e il ritorno alla
sovranità monetaria nazionale? Per l’Italia un cammino in salita:
disallineamento degli spread, insostenibilità del debito pubblico
con tassi d’interesse alle stelle, cambiale da pagare alla Bce di
358,6 miliardi di euro, svalutazione della moneta nazionale (oltre
il 30%!), esplosione dei costi energetici, illusione di maggiore
export, inflazione a doppia cifra! Secondo un rapporto di Mediobanca
sarebbe un vantaggio per l’Italia uscire dall’euro a una
condizione: rimborsare il debito in lire svalutate! Sogno o
realtà?...
Cosa fare? Ricondurre la
questione europea nel suo alveo naturale che è quello politico e non
quello asfittico delle gabbie di procedure. Rivedere i Trattati e il
rigore di Maastricht attraverso un meccanismo di tassi di cambio
“aggiustabili” per neutralizzare lo strapotere economico tedesco.
Un passaggio obbligato per mettere al riparo l’euro dagli atti di
pirateria dei mercati e l’Europa dal diffuso disagio sociale ed
economico e dai rischi per la coesione sociale e la stessa
democrazia.
(c) Antonio Laurenzano
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