14 giugno 2007

Carlo Bergamini e l'affondamento della corazzata Roma

di Augusto da San Buono

La mattina dell’8 settembre 1943, nell’arsenale di La Spezia, nessuno degli Ufficiali, Sottufficiali e marinai che erano a bordo delle navi della Flotta italiana – ivi compreso il Comandante delle Forze Navali - sapeva che già da cinque giorni, a Cassibile, in Sicilia, il generale Castellano aveva firmato la resa senza condizioni. L’Ammiraglio d’Armata Carlo Bergamini, cinquantacinque anni, uomo colto, intelligente, sensibile, marinaio vero, giunto ai vertici dopo una splendida carriera (aveva fatto la prima guerra mondiale comportandosi con il massimo dell’onore; era stato comandante della corazzata “Cavour”, poi del “Duca degli Abruzzi”, indi della “Giulio Cesare” e della “Vittorio Veneto”, le nostre navi più importanti), era stato nominato Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia pochi mesi prima, il 5 aprile 1943, in sostituzione del discusso Ammiraglio Iachino, ed aveva issato le proprie insegne sulla grande e moderna corazzata “Roma”, varata nel 1940, con grande fasto, nei cantieri di Trieste. Bergamini era perfettamente consapevole che quell’incarico sarebbe stato terribile e di breve durata, ma forse non immaginava che il destino gli avrebbe riservato il ruolo più duro, più ingrato, crudele e amaro che possa darsi ad un uomo di mare: quello di lasciarsi affondare senza combattere, o quasi. Bergamini non si era affatto esaltato per aver raggiunto il prestigioso e massimo incarico; era un uomo intelligente e molto equilibrato, sapeva benissimo che, in quel difficile momento storico, la scelta su di lui era stata quella “disperata”. Non gli avevano di certo fatto un favore, ma aveva accettato con orgoglio e fierezza la nomina. A Supermarina tutti conoscevano il suo background, sapevano che proveniva da un’antica famiglia di patrioti veneti, anche se era nato nella provincia di Modena, sapevano che suo nonno e i suoi zii avevano cospirato contro l’Austria, che suo padre era stato con Garibaldi a Bezzecca, sapevano che aveva ricevuto un’educazione spartana, dedita al sacrificio e all’amor di Patria. Era l’uomo giusto nel momento giusto, quello più difficile e delicato di una guerra che volgeva al peggio. Era uno studioso (suo il progetto si una centrale di tiro e antiaereo, realizzata in collaborazione con la Società Galileo di Firenze) che sapeva combattere, un uomo di cultura che sapeva comandare, un uomo di carattere e d’iniziativa che sapeva però anche obbedire, un comandante amato dai suoi uomini per la profonda umanità, che avrebbe saputo dare l’esempio anche nel saper morire con dignità, con onore, con fierezza. In realtà, Bergamini era soprattutto un uomo solido, realista, pragmatico, dotato di raro equilibrio e lucido buon senso, che sapeva leggere quelli che erano i segni del destino per l’Italia. “Ormai la guerra è perduta – confidò alla moglie – si tratta solo di perderla nel migliore dei modi, cercando almeno di salvare l’onore. Per questo, forse, hanno scelto me.“ Intanto, a bordo della corazzata Roma, dove si trovava, alle 19,45 la radio lanciò il famoso (famigerato) messaggio di Badoglio. E Bergamini ci rimase malissimo, di merda. Gli sembrò una cosa assurda, incredibile. “Cristo Santo, - si sfogò con il Comandante della “Roma”, Capitano di Vascello Adone Da Cima - possibile che nessuno si sia peritato di avvertire il Comandante della Flotta italiana di quel che stava per succedere, possibile che una cosa di tale importanza e gravità io l’abbia dovuta apprendere dalla radio, come fossi un qualsiasi cittadino... Qui siamo proprio allo sbando più completo... Ora dovremo autoaffondore le navi, non c’è altra soluzione che questa“. “Perfettamente d’accordo, ammiraglio”, disse il comandante Da Cima. “Presto, mettetemi in contatto con Supermarina.” Bergamini parlò poco dopo con l’ammiraglio De Courten, Ministro della Marina, ed era incazzatissimo, l’indignazione correva lungo la linea telefonica e faceva vibrare i fili. “Ma come è possibile che voi non mi abbiate informato di una notizia del genere. E’ una cosa inaudita... ”De Courten cercò di spiegargli che, come ministro, era legato al segreto e che la comunicazione dell’evento era stata fatta dagli alleati in anticipo rispetto al previsto, ma Bergamini lo tempestò di represse contumelie e gli disse papale papale che non avrebbe mai condotto le navi nei porti inglesi, dove si sarebbero dirette , per dare battaglia, fino a poche ore prima. Gli disse che avrebbe dato l’ordine di autoaffondare l’intera flotta. Era l’unica cosa onorevole da farsi. De Courten aspettò che sbollisse, poi gli disse che il re e il Paese chiedevano a lui e a tutta la Marina un sacrificio più grande, un sacrificio amarissimo, quello di adempiere, - e a qualunque costo - alle dure condizioni dell’armistizio e di anteporre ai sentimenti l’interesse supremo della Patria. Occorreva perciò non affondare le navi, ma portarle a Malta entro l’indomani mattina . Ma poiché ormai era tardi, per evitare le reazioni tedesche, l’ordine era di salpare subito e dirigersi a La Maddalena, dove sarebbero giunte poi ulteriori disposizioni. Bergamini non ne volle sapere e insistette nel suo proposito di autoffandore la flotta. Questa era l’unanime decisione di tutta la flotta, ufficiali e marinai compresi, e questo lui avrebbe fatto. Allora De Courten disse che ne avrebbe parlato con Vittorio Emanuele in persona, si recò subito dal re e riferì a Bergamini i termini del colloquio. “Fate sapere a Bergamini che si tratta di un mio ordine personale”, questo aveva detto il re. A questo punto Bergamini tentennò. Un silenzio mortale. “Ammiraglio, so quel che vi costa, - concluse De Courten – ma vi assicuro che ciò che farete porterà in futuro molto giovamento al nostro Paese”. A Carlo Bergamini ora gli si torcevano le budella, fitte di crampi terribili allo stomaco, come sempre gli accadeva quando doveva far violenza a se stesso, al suo modo di essere, ai suoi principi, al suo spirito di purissimo marinaio e soldato. Anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sessant’anni dopo, nel 2003, - nella ricorrenza dell’affondamento della corazzata “Roma”, - disse di aver rivissuto “con passione e sofferenza” quelle ore terribili del 9 settembre, leggendo la documentazione raccolta dall'Ufficio storico della Marina e le testimonianze dei pochi sopravvissuti alla catastrofe. “E' una tragedia che costituisce uno degli eventi più significativi della nostra memoria comune. Immagino il tormento interiore, il dramma che in quelle ore sconvolse l'animo dell’ammiraglio Bergamini che aveva pensato all’auto affondamento della flotta e dopo ore drammatiche decide di ubbidire”. “Obbedisco alla volontà del re”, disse Bergamini all’Ammiraglio De Courten, e fu come se si fosse frustato. Disfatto dalla amarezza, ma ormai risoluto a ottemperare, fece chiamare a bordo della Roma gli ammiragli e i comandanti delle altre navi, e con voce profonda oscura, mortale, ma ferma, disse: “Eseguiremo gli ordini del re. Parlate ai vostri marinai e dite loro che dovranno trovare nei loro cuori generosi la forza di accettare quest’immenso sacrificio.” Alle due e mezza di notte del 9 settembre 1943 la flotta lasciò silenziosamente il porto di La Spezia. Erano 3 corazzate, 6 incrociatori e 9 cacciatorpediniere dirette alla Maddalena. Alle 13 erano già in vista dell’Asinara, ma Supermarina fece sapere che i tedeschi avevano occupato l’isola di La Maddalena e avevano dispostro una trappola per catturare la squadra navale… Bergamini ricevette l’ordine di raggiungere il porto Bona. Allora l'Ammiraglio fece l’inversione di manovra e diresse verso il porto tunisino, ma i tedeschi con una nutrita formazione di Junker 77 preannunciavano l’attacco alle navi. Bergamini volle eseguire alla lettera fino allo scrupolo, le disposizioni contenute nel proclama, e cioè che bisognava reagire solo a eventuali attacchi…. E al momento i bombardieri tedeschi volavano alti, non sembravano affatto prepararsi alla picchiata. Nessuno pensava ad un pericolo imminente. Le navi procedevano zigzagando, con tutte le armi contraree puntate, ma senza sparare. Nessuno poteva sapere che quegli aerei non avevano alcuna necessità di avvicinarsi molto alle navi. Disponevano bombe di nuovo tipo, le “Fritz-X-1”, munite di propulsione a razzo, di radiocontrollo e di un altissimo potere perforante che potevano essere lanciate da grande distanza, fuori dalla portata controarea. Quelle bombe radiocomandate a spoletta ritardata avevano la capacità di scoppiare dopo aver attraversato i ponti corazzati. E alle 15,30 del 9 settembre, due di queste bombe erano state lanciate sulla nave ammiraglia, la corazzata “Roma”. Quando le vedette scorsero una strana fiammata, il fuoco contrareo si scatenò, e furono abbattuti due junker, ma le due bombe, da 1500 Kg ciascuna, - una sotto la chiglia della nave, l’altra tra il torrione di comando e la torre trinata 381, deflagrarono insieme alla Santa Barbara, e per la supercorazzata di 47mila tonnellate, vanto della flotta italiana, non ci fu nulla da fare. Fu la fine. Un’immensa fiammata, una vera e propria colonna di fuoco, avvolse tutta la nave, inghiottì il torrione di comando, salì al cielo in nere volute di fumo fino a quattrocento metri di altezza, mentre lo scafo, squarciato e diviso in due tronconi, affondò poco dopo. Bastarono pochi minuti per la scomparsa della nave Ammiraglia, la grande corazzata “Roma”, al cui varo avevano assistito migliaia e migliaia di persone. Morirono 1393 uomini: marinai, ufficiali e Comandante della Squadra Navale, ammiraglio Carlo Bergamini, che seppe affrontare ogni rischio – dice la motivazione della Medaglia d’Oro concessagli alla memoria – pur di obbedire , per fedeltà, al re e a per il bene della Patria, al più amaro degli ordini.” Chissà, forse le cose sarebbero andate diversamente se Bergamini, invece di attenersi a quell’idiota disposizione badogliana, avesse dato l'ordine alla contrarea di sparare un attimo prima, quand'era più che palese che gli aerei tedeschi avrebbero bombardato le navi... Così aveva fatto, ad esempio, lo stesso giorno, nelle acque antistanti Bastia, il Capitano di Fregata Carlo Fecia di Cossato, con la sua torpediniera “Aliseo”, quando aveva scorto dinanzi a se sette unità tedesche, due caccia e cinque cannoniere ben armate, e non aveva esitato neppure un istante ad attaccarle con fredda determinazione, e ad affondarle tutte e sette, una dopo l’altra dopo due ore di combattimento” Aveva sparato per primo, Fecia di Cossato, ed era stato giusto farlo… Ma si sa che con i se e i ma non si fa la storia… e poi Bergamini, come tutti gli ufficiali della Marina era fedele al suo re, quella fedeltà l’aveva giurata nella sue mani, in Accademia, a Livorno. E si dimostrò, seppur con grande riluttanza, fedele fino in fondo, “fino all’amaro calice”, agli ordini del suo re, per quanto imbelle fosse quel re e sbagliati quegli ordini. Forse, come disse anche Ciampi nella già ricordata ricorrenza del sessantesimo anniversario, celebrata nelle acque in cui la nave fu affondata, quei minuti dell'affondamento furono da Lui vissuti come una liberazione: inabissarsi con la sua nave sotto la sua bandiera, era quello che da sempre aveva desiderato. “Era uno degli ultimi uomini – concluse Ciampi - di quella epopea dell'onore e del sacrificio estremo, che oggi ricordiamo e celebriamo in questo mare di Sardegna. Sappiamo che qui nel suo profondo hanno trovato sepoltura gli uomini della gloriosa corazzata "Roma". Ma in quanto ai benefici successivi per il Paese , come gli disse De Courten, non ci fu neppure l’ombra, anzi ci fu campo aperto per gli sciacalli, gli avventurieri, i ladruncoli, gli opportunisti, i traditori, come denunciò il comandante Fecia di Cossato, l’eroe dei sommergibili, quando fu formato il nuovo Governo a cui si rifiutò di obbedire e per questo fu destituito e messo agli arresti in attesa di processo, poi rientrato. Poco prima di suicidarsi, Di Cossato scrisse una tristissima lettera alla madre. ”Da mesi ho soltanto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, resa a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi mi circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso." Le altre navi della squadra raggiunsero il giorno dopo la Valletta, ma invece di combattere o comunque essere utili a qualcosa, furono relegate sui Laghi amari, come oggetti inservibili e simbolo della nostra sconfitta e, forse, della nostra resa vergognosa, come aveva detto lo stesso Fecia di Cossato. Successivamente Stalin pretese la spartizione della flotta italiana e la Giulio Cesare e la splendida nave scuola Colombo cambiarono nomi, divennero Navi sovietiche. Gli anglo-americani, meno esigenti, si accontentarono di far segare i cannoni alla Vittorio Veneto e all’Italia. Le due corazzate, ormai inservibili, furono successivamente vendute come ferrovecchio e quindi demolite nei cantieri di La Spezia. L’Italia fu pagata duecento milioni di lire, la Vittorio Veneto poco più di quattrocento.
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