IL
DRAMMA DEL SOGGETTO MODERNO IN CARTESIO E IN KANT
In un’intensa e suggestiva riflessione del Prof.
Costantino Esposito
La considerazione del professore Esposito, in
una magistrale lezione, tenutasi al Liceo di Marsico, il 9 di aprile, parte da
ciò che significa filosofia, di quello che è il suo ruolo e la sua funzione. La
filosofia è la possibilità di capire come stanno le cose: è un porre i
problemi e le domande giuste. La filosofia non è cercare di dare le risposte
giuste, ma di fare le domande giuste. Il domandare è tale che non ci si può
fermare, ogni generazione ha il compito di porsi degli interrogativi. L’uomo
non può esimersi da questo compito nemmeno nella cosiddetta epoca della
post-modernità, che considera chiusa la filosofia dell’età moderna e che
considera definitivamente superato il problema della verità posto nella medesima
modernità. Ma è davvero finita la filosofia moderna? O essa offre ancora spunti
per l’uomo dell’età post-moderna? La filosofia moderna nasce da una crisi. Il
problema della soggettività moderna nasce da un dramma. Tale è il dramma
del filosofo considerato da tutti il padre del moderno soggettivismo e del
razionalismo: Cartesio. Cartesio muove dalla considerazione secondo la quale
tutti gli esseri umani sono dotati di ciò che egli definisce la bona mens,
ossia la ragione naturale. Ma allora perché in filosofia non c’è nemmeno un
problema sul quale tutti siano d’accordo? Se tutti abbiamo la medesima ragione
perché non diamo le stesse risposte ai problemi? Per Cartesio il problema sta
nel metodo, cioè nel modo con cui utilizziamo la ragione. Tutti abbiamo
la ragione, ma non tutti sappiamo utilizzarla al meglio. Lo stesso Cartesio
afferma di sentirsi del tutto insoddisfatto della formazione ricevuta,
nonostante egli abbia studiato nel più famoso collegio gesuita della sua epoca,
quello di La Flèche. Egli, allora, decide di compiere dei viaggi per “scoprire
il gran libro del mondo”, mosso da un “desiderio estremo di distinguere
il vero dal falso”. La molla che spinge Cartesio è proprio questo grande
desiderio di verità che egli sentiva non essere stato soddisfatto dalla formazione ricevuta. In questo Cartesio
ricorda Agostino, anche se con prospettive diverse: Agostino è un grande
teologo che vuole, cerca e trova la verità in Dio. La grande avventura
dell’uomo comincia da questa domanda, da questo grande desiderio. Il desiderio
del vero è estremo perché sta dentro ogni desiderio, è il desiderio che ci fa
capire in cosa consista l’intelligenza umana. Questo desiderio nasce nel momento
in cui ci si ritrova soli con sé, come fa Cartesio nelle sue Meditazioni
metafisiche, il quale chiuso nella stanza con la sua stufa, scrive
di essersi liberato da tutte le preoccupazioni quotidiane e di esser rimasto
solo con se stesso. È come se il filosofo, chiuso nelle sue riflessioni e
sgombrata la mente da qualsiasi pensiero, si trovasse in una sorta di ovatta,
di spazio ovattato, sospendendo il giudizio e l’assenso su ogni
cosa. Questo atteggiamento veniva definito dagli stoici e dagli scettici antichi
come epochè. La filosofia moderna
nasce da un’avventura drammatica di un uomo solo, nasce da questo atto
solipsistico che compie un essere umano in solitudine. Il dramma del soggetto
moderno consiste proprio in questo continuo tendere alla ricerca. Cartesio
continua il suo percorso: non posso fidarmi nemmeno dei sensi e la verità,
quindi, non è nella conoscenza sensibile. Se i sensi mi hanno ingannato a volte
(come quando, per esempio, ho la febbre e il dolce mi sembra amaro o quando il
bastone passa in un contenitore trasparente di acqua e pare che sia spezzato)
vuol dire che non posso fidarmi di essi. Questa è una scelta che Cartesio fa. E
il mio corpo? Posso essere sicuro del mio corpo? Se stessi sognando o dormendo?
Se il mondo fosse tutto un’illusione, un sogno, un inganno? L’ipotesi di
ritenere tutta la realtà una grande scena dietro cui non c’è nulla, di pensare
che il mondo è solo un sogno è un’ipotesi che ci avvicina al nichilismo. La
riflessione cartesiana ci ricorda ciò che diceva Shakespeare nell’opera La
tempesta: “noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i
sogni”. Cartesio traduce filosoficamente questa stessa inquietudine
shakespeariana. Il filosofo francese considera poi la conoscenza matematica che
sembra essere la più certa ed indubitabile di tutte. 2+3=5 è vero sempre. Ma a
questo punto Cartesio avanza l’ipotesi del genio maligno o del Dio ingannatore
che lo porterà alla consapevolezza di esistere come res cogitans: cogito
ergo sum. Ego sum. Ego existo. Questa frase è vera tutte le volte che la
pronuncio. È come se Cartesio sfidasse Dio: ingannami pure! Se mi inganni vuol
dire che io esisto. E ciò è la base, il punto archimedeo da cui partire.
Abbiamo detto che la moderna soggettività nasce da un dramma e il dramma
ha un primo aspetto che ci dice che la realtà è muta, afona, non mi parla più,
non mi dice più il suo significato. Nelle epoche precedenti la realtà rimandava
ad altro, per esempio, al miracolo dell’Essere, ad una causa ultima delle cose.
Ora, per Cartesio non è più così, la realtà non ha più un significato e perciò
vuole trovare nell’Io e dentro l’Io quella verità che non è più possibile
riconoscere nella realtà. La prospettiva della modernità parte dall’Io per
capire la realtà e non viceversa. Ma l’esistenza della res cogitans risolve
definitivamente il problema? L’esistenza della sostanza pensante è una
soluzione ancora limitata che non mi dice nulla su cosa sia la realtà del
mondo. A questo punto c’è bisogno di dimostrare l’esistenza di Dio il quale è
garante della mia conoscenza. Il Dio di Cartesio è considerato come un problema
filosofico (il Dio dei filosofi, come
dirà Pascal); solo ammettendo l’esistenza di Dio, di Dio che è buono e non mi
inganna, posso ammettere la realtà. Il primo aspetto del dramma dell’uomo
moderno è, dunque, questo: la realtà è insignificante ed incerta. A questo
primo aspetto del dramma si collega un secondo aspetto: come dimostro Dio? L’Io
umano dimostra che Dio esiste, che Dio c’è perché in me c’è l’idea dell’
infinito (come se Dio fosse una sorta di proiezione dei limiti umani, un po’
come sosteneva Feuerbach). Noi concepiamo noi stessi come esseri finiti perché
abbiamo l’idea dell’infinito. La percezione dell’infinito, cioè di Dio, precede
quella del finito. Partiamo dall’infinito per arrivare al finito. Cartesio si
serve di Dio per dimostrare l’esistenza del mondo esterno e della realtà delle
cose. Ma Cartesio arriva a dimostrare Dio partendo da un atto di solitudine. Egli
è un pensatore solipsistico che, cercando e scavando dentro sé, trova qualcosa
che è più grande di sé: questo è il dramma! E il duplice aspetto del dramma ha un senso negativo ed
uno positivo: quello negativo è riconducibile ad un primo aspetto secondo cui
la realtà non mi parla più, non mi dice più nulla sul suo significato; invece,
l’aspetto positivo del dramma è quello per cui, puntando su me stesso e sul mio
pensiero mi rendo conto dell’idea dell’infinito che è stata messa in me, ma che
non è semplicemente chiusa nella mia mente, ma mi dice qualcosa d’altro. Per
questo l’idea dell’infinito è come se fosse una traccia, una cicatrice.
È la traccia di Dio su di me, la sua cicatrice. Kant nella sua Critica
della ragion Pura (1781) parte dalla medesima esigenza di Cartesio, in
quanto afferma che la ragione umana vuole conoscere tutto, vuole conoscere
l’incondizionato ma, rispetto al filosofo francese, ritiene che la ragione non
riesce in questo arduo compito, perché può conoscere solo ciò di cui ha
esperienza sensibile. La ragione umana cade in una sorta di aporia, è un
problema che non trova soluzione perché la ragione umana non conosce tutto
quanto vorrebbe conoscere. Secondo Kant, anche se non possiamo conoscere tutto,
possiamo continuare a pensare alle questioni che vogliamo conoscere; non posso
conoscere Dio perché non ne ho un’esperienza sensibile così come non posso
conoscere l’anima e il mondo (Kant parla di idea di anima, di mondo e di Dio)
ma posso continuare a pensare a queste tre questioni, a queste tre idee. Le
posso pensare in quanto è come se la ragione umana si allargasse fino ad
inglobare tutto. Anche per Kant vi è un desiderio estremo (come per Cartesio)
di afferrare tutto: questo è un desiderio ed una domanda irrinunciabile. Se
togliamo questa domanda togliamo tutto. Questa domanda è la stoffa della
ragione. Anche se non possiamo conoscere tutta la realtà perché la realtà sfugge
sempre alla nostra presa (aspetto negativo del dramma), non possiamo
rinunciare a questo desiderio di conoscerla pienamente. Vi è una scrittrice
straordinaria, Virginia Woolf, la quale ci aiuta a capire il problema della
modernità, nei suoi Moments of being (Momenti di essere), in cui parla di una realtà
che sembra essere un non-essere, come se vivessimo in un’ovatta senza
senso e senza contorni. La realtà ovattata ci rivela il non-senso delle cose,
il vuoto. Solo in questi momenti in cui cogliamo il non-senso delle cose si
apre uno squarcio che fa riemergere il tutto da cui nasce un’idea, una
filosofia: dietro l’ovatta si cela un disegno. Il mondo intero è un’opera
d’arte, la poesia diventa realtà e la penna una sua traccia. Anche in questo
caso, Virginia Woolf, da scrittrice e poetessa qual è, fa riferimento al grande
problema filosofico posto nella modernità ma che è sempre presente, del senso
della realtà e del suo significato. Il significato che diamo alla realtà è la possibilità
di vedere le cose che sono. Come quando un adolescente vive in modo passivo
e disinteressato tutta la sua realtà e poi un giorno si innamora:
all’improvviso, la stessa realtà in cui viveva prima assume un altro
significato e anche le cose che per lui prima erano scontate o noiose
acquistano un altro senso perché in fondo la filosofia è questo: la possibilità
di capire come stanno le cose e la possibilità di strappare il segreto alla
realtà.
Costantino Esposito, nasce a Bari nel 1955. È Professore
ordinario di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Bari. I suoi principali orizzonti di ricerca filosofica e
scientifica si stagliano tra il pensiero di Heidegger, la filosofia di Kant e
la metafisica di Suarez. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Il fenomeno
dell’essere. Fenomenologia e ontologia in Heidegger” (1984); “Heidegger. Storia
e fenomenologia del possibile” (1992); “Filosofia moderna” (insieme a S. Poggi)
(2006). Dal 2000 dirige con P. Porro la rivista internazionale “Quaestio”.
Coordina con altri autori presso le Edizioni di Pagina una collana di Letture
di Filosofia.
Paola
Gaeta
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