Piccolo viaggio nella letteratura italiana: commento al Canto II dell'Inferno
Il
canto delle tre donne
Dante si ferma perché
timoroso del viaggio: Virgilio gli spiega che il percorso a lui
assegnato è voluto da tre donne benedette: la Vergine, Lucia e
Beatrice.
Lo
giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
[1-6
Eravamo verso sera e l'oscurità distoglieva gli esseri animati dalle
loro attività; ma io ero solo – dice Dante – e mi accingevo ad
affrontare le difficoltà che sia il cammino accidentato, sia la
pietà (per ciò che avrei visto e secondo quanto mi ricordo)
avrebbero posto lungo la mia strada.]
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: "Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
[7-12
Io chiedo aiuto – continua l'Alighieri – alle muse, alle mie più
alte capacità, e alla mia memoria che prese nota di quello che vidi,
la quale di seguito mostrerà ciò di cui è capace. Poeta che mi
guidi – dice volgendosi a Virgilio – giudica se la mia virtù è
all'altezza del compito, prima che io compia un così gravoso passo.
]
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
[13-24
Tu – dice Dante a Virgilio – hai raccontato (nell'Eneide) di
Enea, che con il proprio corpo ed i propri sensi scese agli inferi.
Certo si spiega facilmente ad un uomo d'intelletto la benevolenza che
Dio ebbe nei suoi confronti, pensando all'impresa da lui compiuta,
per la quale la grande Roma ed il suo impero lo hanno eletto padre
fondatore e collocato nel cielo empireo: senza contare che Roma e
l'impero divennero poi un luogo santo, dove siede il successore di
Pietro. ]
Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.
[25-30
Nella discesa di cui parli - continua Dante rivolto a Virgilio -
Enea venne a sapere cose che furono causa della sua vittoria e della
dignità papale per Roma. Nello stesso luogo andò poi Paolo di Tarso
(lo Vas d'elezione), per essere d'aiuto a quella fede (cattolica) che
è principio e strada di salvezza.]
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono".
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
[31-42
Ma io perché devo andare all'Inferno? – chiede Dante a Virgilio –
chi lo ordina? Io non sono Enea e neppure san Paolo; nessuno può
pensare che io ne sia degno, ho paura che se mi abbandono a questa
impresa, essa risulterà scellerata. Tu che sei saggio cerca di
comprendermi. A questo punto, come colui che si pente di aver parlato
e per sopraggiunti nuovi pensieri si distoglie dall'intenzione avuta,
così io (è sempre Dante a condurre l'azione) mi comportai in quel
luogo buio, perché rimuginando mi resi conto che l'impresa che
consideravo ardua era in realtà impossibile.]
"S’i’ ho ben la parola tua intesa",
rispuose del magnanimo quell’ombra,
"l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
[43-51 Se ho ben capito
cosa intendi – qui è Virgilio che parla a Dante – la tua volontà
mi appare pusillanime, come spesso accade agli uomini che si
ritraggono da un'onorata impresa, dopo aver scambiato un'ombra per un
reale pericolo. Al fine di distoglierti dai tuoi timori, ti dirò
perché io venni da te la prima volta che seppi della tua dolorosa
condizione.]
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
[52-74
Io ero fra le anime del Limbo – dice Virgilio - quando una donna
tanto beata quanto bella mi chiamò ed io la ascoltai. Aveva gli
occhi più lucenti di una stella e il suo volto era soave e cortese
quando con voce angelica mi disse: “Oh grande poeta mantovano, la
cui fama ancora dura nel mondo e durerà in eterno (qui è Beatrice
che parla), il mio amico (Dante), e non si tratta di un amico
qualunque, si trova in una landa desolata ed il suo cammino è
impedito a tal punto che rischia di tornare indietro dalla paura;
temo anzi che lui si sia già smarrito, secondo quanto mi hanno
detto, e che il mio soccorso sia tardivo. Ti chiedo di muoverti –
Beatrice dice a Virgilio -, porta con te la tua eloquenza e ciò che
può essere utile alla sua (di Dante) salvezza, in modo da aiutarlo
affinché io ne sia consolata. Sono io Beatrice che te lo chiedo,
vengo dal luogo nel quale desidero ora tornare e sono qui venuta per
amore. Quando sarò ancora dinanzi a Dio, gli parlerò spesso e bene
di te.”]
Tacette allora, e poi comincia’ io:
"O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
[75-81 Allora Beatrice tacque (dice Virgilio) e parlai io: “Oh donna, così piena di virtù grazie alla quale la specie umana si eleva sopra il cielo della Luna, sono così contento di ricevere il tuo comando che ubbidire mi par fin troppo tardi; non ti resta che chiedere senza esitare.]
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c' hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son paurose.
[82-90
Ma spiegami (chiede Virgilio a Beatrice) la ragione per la quale non
temi di scendere qui all'Inferno provenendo dal luogo molto più
ampio che ti ospita e nel quale intendi tornare. Visto che vuoi
sapere le cose con precisione (risponde Beatrice) ti dirò brevemente
perché non ho paura di questo posto: si devono infatti temere
solamente quelle cose che possono fare male agli altri, le altre no,
non devono far paura.]
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov'io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
[91-102
Io per volontà di Dio (continua Beatrice che parla a Virgilio) sono
fatta in modo che la miseria di questo luogo non mi colpisce, né il
fuoco che lo arde mi tormenta. E' stata la Vergine Maria che,
rammaricata per l'impedimento di Dante respinto dalle fiere, ha
blandito il duro giudizio divino su di lui. Fu Lei ad avvisare santa
Lucia che il suo devoto (Dante) aveva bisogno ed a raccomandarglielo.
Lucia, incapace di crudeltà, allora si mosse e venne al luogo dove
mi trovavo (continua a parlare Beatrice), seduta vicino alla grande
Rachele (la moglie di Giacobbe).]
Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno".
[103-114
Allora Beatrice racconta che Lucia le chiese:“Perché tu,
autentica lode di Dio, non soccorri colui che ti amò tanto (Dante) e
che grazie a te uscì dalla schiera degli uomini comuni? Non ti muove
a pietà il suo pianto, non vedi la morte che lui combatte lungo la
fiumana degli eventi funesti?”. Al mondo non ci sono persone facili
a fare il proprio bene e a rifuggire il proprio danno (dice Beatrice
a Virgilio riferendosi al mondo celeste) e quindi io, dopo aver
ascoltato Lucia, scesi dal mio posto tra i beati e venni qui
fidandomi di te Virgilio, della tua poesia, che onora te come coloro
che l'hanno udita e compresa.]
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?".
[115-126
Dopo che Beatrice mi ebbe detto questo – dice Virgilio rivolto a
Dante – ella distolse i suoi occhi lucenti dal mio sguardo, in modo
che io potessi muovermi al più presto. E così io venni da te come
lei volle, togliendoti allo sguardo della lupa che ti aveva impedito
di salire al monte per la via più breve. Dunque cos'hai? perché
esiti e tanta viltà rimane nel tuo cuore, dopo aver saputo che tre
donne benedette si curano di te in cielo e che le mie parole così
calorosamente ti rassicurano? ]
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca:
"Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m’ hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro".
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
[127-142 Come i
fiorellini che il gelo notturno ha chinato e chiuso si drizzano e si
aprono quando il sole del mattino li illumina, così io – dice
Dante – rinvigorii la mia tempra appannata e mi sentii il cuore
talmente rigenerato da dire con franchezza: “Che donna pietosa
colei che mi soccorse! E che grande uomo sei tu Virgilio che subito
ubbidisti credendo al suo racconto! Con le tue parole hai talmente
ben disposto il mio cuore che ora sono nuovamente disposto a
seguirti. Vai dunque, poiché abbiamo lo stesso desiderio, mio duca,
signore e maestro”. Così io (Dante) gli dissi, e dopo che si fu
mosso lo seguii lungo il cammino che entrava nel bosco.]
Il
canto secondo dell'Inferno di Dante spiega il primo, nel senso che
qui sono descritte le ragioni per le quali Virgilio è apparso a
dissuadere Dante dall'affrontare la lupa. Il pretesto per la
spiegazione, fornita da Virgilio medesimo, è dato dall'esitazione
del grande autore/attore del poema, il quale si chiede il perché del
suo viaggio. La spiegazione è in cielo, dove nientemeno che la
Vergine Maria ha blandito il giudizio divino, evidentemente severo
nei confronti del fiorentino.
E'
interessante sul piano filosofico la posizione della Vergine, che non
solo riveste il suo ruolo naturale di mediatrice tra l'uomo ed il
divino, in quanto donna, assieme agli altri due personaggi femminili,
santa Lucia e Beatrice, bensì assurge al ruolo di divinità suprema,
di Madre, cara quindi tanto al mondo cristiano, quanto a quello
pagano. Ella non modifica il giudizio di Dio, ma lo 'frange' (vv.
96), cioè lo spezza, anche se io direi piuttosto lo circuisce, lo
arrotonda, lo rende recuperabile, proprio alla stregua di una madre
che asseconda, ma ammorbidisce il giudizio troppo severo del figlio.
Sempre
di filosofia parliamo, ma anche di storia della letteratura, con i
versi 109 e 110, dove le parole di Beatrice fanno di lei uno
'specchio': il lettore si renderà conto che per noi comuni mortali
il suo ragionamento non regge, ma ella è creatura del cielo e qui da
noi prende quindi la forma di un oggetto che ci restituisce un
messaggio ribaltato, affine al comportamento di una lente o comunque
di una luce mediata. Beatrice ha qui qualcosa della futura Miranda di
Shakespeare.
Sul
versante religioso va invece notata la circostanza per la quale,
secondo Dante, la salvezza viene dal Cielo: non ci si può cioè
salvare da soli; ragionamento questo sul quale sommariamente
concordo, sebbene permanga il dubbio sulla natura del cielo, poiché
nessuno sa se esso sia dentro o fuori di noi ed è molto complicato,
oltre che rischioso, cercare di uscire dalla questione con un
ragionamento più o meno complesso. Quel che si può dire, secondo
me, è che per salvarsi ci vuole una scintilla che viene da un posto
'nuovo', sconosciuto alla nostra coscienza o magari dimenticato, che
ci emancipa.
“Temer
si dee...” (vv. 88-90) è il passaggio poeticamente più intenso,
di un bel senso compiuto che induce a riflessione, ma che è anche
aiutato molto dalla bellezza intrinseca di questa terzina, la
migliore del canto.
Proprio
a proposito di bellezza, o meglio di bruttezza poetica, possono
interessare le questioni di datazione proposte da Ernesto Trucchi,
che fanno riferimento al linguaggio di questo e più in generale dei
primi canti infernali. Il Trucchi non è l'unico a sostenere che la
lingua un po' forzata e dalla rima non fluida porterebbe ad
attribuire questi ultimi al Dante giovane, a quello cioè degli anni
della “Vita Nuova” o poco dopo, diversamente dalla tradizione che
vorrebbe una commedia tutta scritta a partire dal primo Trecento.
Sostenitori di questa tesi, nei secoli, sono anche stati i
commentatori che hanno dato al vv. 24 un valore cronologico preciso,
parafrasando cioè “maggior Piero” come “il Papa, il più
importante”, in contraddizione con la evidentemente ancora non
sviluppata “teoria dei due soli”, la quale metteva papato ed
impero sullo stesso piano e che fu compiutamente illustrata da Dante
nella “Monarchia”, opera della piena maturità.
Io
personalmente credo, senza aver approfondito troppo, che tesi come
quella del Trucchi abbiano per lo più un valore speculativo, poiché
un lavoro lungo come la Commedia è certamente stato rivisto molte e
molte volte da Dante prima di essere trascritto nei volumi che sono
giunti sino ai giorni nostri; senza dimenticare poi che la Commedia è
stata per Dante un viaggio reale dentro le proprie conoscenze, le
quali saranno state migliorate lungo il viaggio medesimo; nessuna
sorpresa dunque se, in un percorso verso Dio, lo scrittore migliora
lungo la strada. Strano assai sarebbe se così non fosse.
Antonio
di Biase
Bibliografia:
- Inferno – Canto II e commenti, da pag. 300 a 303 de “La letteratura”, Vol 1, Baldi Giusso Razetti Zaccaria , Paravia, 2006
- “Inferno”, a cura di U. Bosco e G. Reggio - Le Monnier – 1987
- “Inferno”, BUR Superclassici, 1995, collocazione C.II.7103 della biblioteca di Varese.
- “L'ottimo commento della Divina Commedia”, Forni 1995, coll. FU.933.1 Bibl. Varese.
- “Esposizione della Divina Commedia”, Ernesto Trucchi, coll. C.IV.8319 Bibl. Varese (libro con dedica al Duce).
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