02 settembre 2007

Gadda secondo Aldo Vallone

di Augusto da San Buono
Sono andato alla Clinica “Villa Pia”, a Roma, per “accertamenti” (era rimasta l’unica con posti ancora disponibili), con due libri, che avevo già letto secoli prima. Uno era “I 60 racconti” di Dino Buzzati di cui in particolare m’interessava “Sette piani”, da cui era stato tratto il (brutto) film “Il fischio al naso” . Lo volevo rileggere forse per ragioni scaramantiche. Come si sa il protagonista sembra non avere assolutamente nulla, si reca in quella lussuosa clinica “Sette piani” per una pura formalità, una sciocchezzuola, ma ci rimane per sempre, scendendo di piano in piano, fino alla camera mortuaria. L’altro era il “Pasticciaccio” di Carlo Emilio Gadda. In questo caso non sembravano sussistere particolari motivi ( ma, come si vedrà, le scelte non sono mai a caso, obbediscono a qualcosa di sottile e inconscio), al di là del fatto che si tratta di un capolavoro della letteratura italiana, che mi rievocava, peraltro, diverse cose: gli anni dell’adolescenza, un film di Pietro Germi (appena discreto), e una piéce teatrale (pessima); ma, soprattutto, un lieto incontro di vent’anni prima con il professore Aldo Vallone, docente di Letteratura Italiana all’Università Federico II di Napoli, nella sua casa-biblioteca di Galatina (almeno trentamila volumi, di cui diecimila relativi al solo Dante, in tutte le salse e le lingue possibili).
Ero andato a trovarlo, in quell’estate del 1988, insieme all’avvocato Felice Leopizzi, che era grande amico di Vallone, e l’aveva invitato a tenere una conferenza all’ANMI di Gallipoli sull’attualità di Dante. Il professore aveva sul suo tavolino basso, da salotto, una copia della prima edizione in volume del “Pasticciaccio” (Garzanti, 1957) che stava rileggendo “per la centesima, o duecentesima volta”, come mi disse poi.
A me Gadda, il bulimico capace di bere diciotto uova di seguito, come testimoniano Ungaretti e Montale, sembrava assai distante da Dante, che lui stesso definisce un “grande pettegolo della storia”. Se mai era assimilabile, per certi aspetti, al malinconico Manzoni, o al nostalgico Cervantes...

Professore , perché Gadda , e perché proprio il “Pasticciaccio”?
“Perché in quel libro c’è la vita, tutta la vita. Il brutto e il bello. Il nobile e l’osceno. L’intelligenza e la stupidità. Il dissennato e il ragionevole. La furberia e il candore. Tutto ciò che rende inaffidabile l’esistenza, ma anche nutre il piacere di vivere. La vita è un groviglio, uno “gnommero”, un pasticciaccio, appunto, ma non necessariamente immangiabile. Finisce sempre male, in tragedia, ma non si deve dimenticare quale commedia sappia essere se la si guarda da un punto di vista opposto. Solo uno come Gadda, un nevrotico con la mania della cronaca nera, uno che è allo stesso tempo ingegnere, filosofo, moralista, saggista, e anche psicanalista, uno scrittore assolutamente unico nel panorama di questo ventesimo secolo, forse il più grande dei nostri, anche se oggi lo leggono due o trecento persone in tutto, poteva scrivere il “Pasticciaccio”.
Per farlo bisognava innanzi tutto essere nevrotici ossessivi, con tutte le fobie, i furori, le difficoltà a vivere con gli “altri” (è questo il “vero inferno”, sosteneva Gadda), con una angoscia e un disperazione che non hanno mai fine; bisognava avere, “chiusi dentro il ventre”, come il Gonzalo della “Cognizione del dolore”, “i sette peccati capitali”, bisognava avere una deriva malinconica e respirare liricamente il male di vivere, dopo essere stati magari romantici presi a calci nel sedere dal destino e dunque dalla realtà, come afferma lui stesso.
Ma cos’è la realtà? “Una scarica di mitra è realtà, mi va bene, certo. Ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto... Il fatto in sé non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia”.
Questo residuo fecale della storia, confesso, che ora mi turba un po’ e mi fa pensare molto alla mia situazione “colonica” personale, ma anche al primo Gadda, sottotenente degli Alpini, acceso interventista, che sperimenta lo sfacelo italico nel suo “Giornale di guerra e prigionia”. Il tenente Gadda che guarda intorno a sé ciò che rimane della guerra: la merda.
“Merde d’ogni qualità e consistenza, di tutte le dimensioni, forme, colori”, merde sparse nei dintorni immediate degli accampamenti: gialle, nere, cenere, scure, solide, ecc...”.
“Vede, - mi fa il professore Vallone -, per mentalità Gadda era più tedesco che italiano . Il pasticcio e il disordine lo annientavano. Dentro di lui c’erano ordine, esattezza, disciplina, geometria, ma anche Pasteur, Marco Polo, Livingstone, Stanley; c’erano Leibniz, Kant e Spinoza, ma anche il Belli, Dossi, Lucini, e il Parini, il Manzoni, il Porta, c’erano le aperture europee dei suoi interessi culturali, da Cervantese a Swift, da Proust a Gide. Celine, soprattutto. Ma direi anche Dickens e Dostoevskij. Poi Joyce, Svevo e la lezione di Freud sulla psiche umana, che Gadda studiò come scienza (“Uomini normali non ce ne sono: guardate alle radici e vedrete che pasticcio hanno in testa… La psicanalisi arriva alle radici dell’esistenza. Forse non le migliora, ma fa vedere cosa c’è sotto. Non è un bello spettacolo, ma questa è la vita”), quella del materialista Marx sull’interesse, e quella di Nietzsche sulla precarietà della verità. Il romanziere, per lui, era come investigatore, un uomo che fa il terzo grado ai personaggi per farli confessare, uno che mette in ordine lo “gnommero” caotico della realtà dell’esistenza, uno che sospetta il peggio in ogni evento e in ogni persona. Tanto a pensare il peggio – direbbe Andreotti – ci si azzecca quasi sempre. Ma poi, alla fine, l’ispettore Gadda-Ingravallo del “pasticciaccio” quasi si pente di aver scoperto la verità, la verità del cosiddetto uomo normale che è “un groppo o gomitolo, o groviglio o garbuglio di indecifrate nevrosi, talmente inscatolate le une dentro l’altre da dar coagulo finalmente d’un ciottolo, d’un cervello infrangibile: sasso-cervello o sasso idolo”.

Sì, d’accordo, professore, uomo di vasta cultura, grande, grandissimo letterato e maestro di lingua, ma c’è pure chi dice che Gadda non è un narratore, e tanto meno un romanziere. E c’è anche chi l’accusa di eccessi tecnicistici, di intellettualismo fastidioso, di arduo preziosismo manieristico.
Sono stupidaggini. Lui stesso rispose a questa accusa con una battuta, asserendo che il suo punto debole, per riuscire narratore, era quello di mancare di cupidità nel conoscere i fatti altrui, ovvero pettegolezzi. E per quanto riguarda la sua sovrana tecnica, ricordo che la Bibbia stessa non la ignora, e che comunque la tecnica non annulla la capacità magica dell’arte che crea e ricrea verità fondamentali. Gadda ha creato un suo modo di fare il romanzo, è un chirurgo che accosta e non sutura le parti, ma i suoi romanzi stanno bene in piedi, anche se non corrono spediti. Anzi fanno vortice come se fossero attratti dal profondo territorio oscuro dal quale Gadda ha inviato messaggi violenti e straripanti. Ogni pagina è un racconto, e i suoi romanzi sono racconti di racconti, somma che diventa moltiplicazione in una struttura centrifugata. Per questa sua prosa del molteplice, che affatica le meningi del lettore medio, oltrechè per le asperità della lingua e la proliferazione dei dettagli, è destinato a non diventare mai un narratore popolare, anche se lui ribatte che è una superstizione romantica il darci a credere che la lingua nasca o debba nascere soltanto dal popolo. “Nasce dal popolo come nasce anche dai cavalli, che con il loro verso ci hanno suggerito il verbo nitrire, e i cani guaiolare o uggiolare… La lingua, specchio del totale essere, o del totale pensiero, viene da una cospirazione di forze, intellettive o spontanee, razionali o istintive, che promanano da tutta la universa vita della società e dai talora urgenti e angosciosi moti e interessi della stessa società… Le parole debbono essere feconde, non quelle sterili dei dannunziani o di scrittori smidollati come sono quasi sempre i narratori corrivi che fanno mercato della loro scrittura”.
Il linguaggio di Gadda vitalizza tutto ciò che altrove agonizza, è vita, è storia, è religione, è arte, ci fa conoscere, ci fa capire ciò che siamo diventati. E’ un linguaggio senza pari nella letteratura moderna. E’ il narratore che ha messo su la più grande orchestra letteraria di scrittura del novecento, ha liricizzato le idee meno musicali, ha naturalizzato la cultura più artificiale, ha trasformato ogni materia in narrazione. Ha cambiato i connotati della nostra letteratura. Anzi, le dirò di più : se vogliamo capire questo nostro secolo caratterizzato politicamente dal comunismo e dal nazi-fascismo, se vogliamo capire il fenomeno sociale dell’avvento della masse a protagoniste folli, o la nevrosi che ha travolto le menti più fragili e insieme le più sensibili; se vogliamo capire il fenomeno che tuttora perdura della corruzione generale, dei ricchi e dei poveri, e di una dissennatezza che non ha risparmiato nessuno, non possiamo prescindere da Gadda e dalla lettura del “pasticciaccio”.

A me, onestamente, sembrava che il professore esagerasse, e Vallone se ne accorse. ”Quant’è che non legge, o rilegge Gadda? Provi a rileggerlo, e ancora rileggerlo, poi mi saprà dire… Gadda non scrisse mai per far soldi, ma per necessità. Ci fu un tempo che fece letteralmente la fame, era disperato. Aveva quasi sessant’anni, una laurea in ingegneria col massimo dei voti, ma non aveva lavoro, e neppure una lira in tasca. Le sue opere, pur apprezzate da una ristretta cerchia, non si vendevano neanche a regalarle. Ma a lui non interessava la fama, la notorietà, non ci teneva affatto. E quando arrivò, proprio con il “Pasticciaccio”, si può dire che gli fece passare la voglia di scrivere. Era enormemente infastidito dalle attenzioni, curiosità, autografi, ecc. che ora riceveva. In realtà lui aveva sempre riso dello sciocchezzaio della borghesia romana, o milanese, che parlava di lui come di uno scrittore barocco, o grottesco (lo stesso Moravia disse che le sue parole avevano la “gobba”), e di una sua lingua “macaronica”, licenziosa, se non oscena addirittura.

Già. Per non parlare delle sue proverbiali digressioni che fanno dimenticare il nucleo centrale della storia, come ad esempio il sogno del brigadiere Pestalozzi, l’ambiguo topaccio-topazio che fugge da tutte le parti in cerca della “topa”, in cui vorrebbe rientrare; l’importanza degli alluci nella pittura italiana, la gallina che scacazza, l’appuntato che scorreggia, il vecchio miserabile che muore nei suoi escrementi, e via di seguito, digressioni anche piene di odori, come si vede.

Giusto. Bene, perfetto. E’ quella la grandezza di Gadda, in cui la struttura è più potente dei contenuti. Non ci sono confini, viaggia all’infinito, viaggia nell’universo-vita, così un inconsapevole ligio brigadiere dei carabinieri sogna la massima trasgressione sociale, l’incesto, perché vorrebbe rientrare nel grembo materno, ma noi tutti vogliamo rientrare nel grembo materno, quando la vita ci ferisce, tutti vogliamo tornare all’epoca del prima della nascita. E poi un vecchio miserabile muore in rappresentanza d’ogni morte, che non ha nulla di eroico, è la morte e basta, urina, feci, sangue. Nell’ “Aldalgisa” Gadda aveva parlato del pensiero dell’esagono per indicare la geometria segreta e vincolante della sua originale narrazione. Nel pasticciaccio allarga i confini, perché vuole complicare il panorama complessivo, far confluire gli interrogativi come un fiume con mille diramazioni provenienti da tutti i livelli possibili ed ecco la necessità del molteplice, del pulviscolare, in questo giallo che è una grande metafora dell’esistenza. Le digressioni sono in realtà i dettagli del nostro vivere, quella digressione ti blocca su un dettaglio che sembra trascurabile, ma è essenziale; quell’altra ti spinge oltre, nel circolo vizioso della conoscenza orfana della verità. Insomma, quanto più sai, tanto più ignori, come diceva Socrate.

Per finire, Professore, che cosa fa veramente grande Carlo Emilio Gadda, in questa ridda infernale del “Pasticciaccio” che mi ricorda un po’ la peste manzoniana, in questi frammenti, torsi narrativi dell’esistere, in questi circoli che non si chiudono, in queste tragiche curvature dell’orizzonte, in questa magica acrobazia mentale sempre con il rischio di precipitare ad ogni parola come un equilibrista folle che cerca l’inafferrabile?
Vede, il “Pasticciaccio” ha parecchi livelli di conoscenza, è un po’ la summa della sua arte, trasmette luce, elettricità, illumina ogni particolare finché non brucia. E’il tentativo di strappare alla morte una lingua italiana marmorizzata, metallizzata, ossificata, resuscitare parole, suoni, musica. Ma è anche un gran bazar, lei ci può trovare di tutto, anche gli odori, o meglio le puzze e il fescennino, il grottesco e l’umorismo più spietato, un riso di alto livello ma sul crinale fra comico e tragico.
Come ha detto lei, è una peste manzoniana portata ai nostri giorni, un testo estremamente attuale che tira fuori ininterrottamente i bubboni di una società in decomposizione, una società senza più ideali; è una peste che non vedrà il miracolo della pioggia che lava i mali. Il nostro male è invisibile e incurabile. Quella del nostro secolo è una peste nella quale è impossibile salvare l’anima.
Ma è anche un romanzo paradossale, di amore e morte, tanto per intenderci. Il commissario Ingravallo è invaghito di Liliana, la vittima, che forse è lesbica, con tutte quelle “nipotine” a getto continuo che vanno e vengono nella sua casa in via Merulana. Al commendatore Angeloni piacciono i giovani garzoni che gli portano il prosciutto a domicilio. Ha mattutini sogni erotici incestuosi il brigadiere Pestalozzi, la Ines guida le indagini verso la soluzione del caso, a causa della gelosia, dell’amore tradito del proprio ganzo.
Ci sono tutti i modi d’amare, permessi e proibiti: omosessualità, necrofilia, onanismo e incesto. Per Gadda, che non si è mai capito di che tendenze fosse (non si sposò mai, nessuna indiscrezione è trapelata circa i suoi gusti sessuali), va bene tutto. Tutta la vicenda del pasticciaccio parte da quel corpo assassinato di Liliana, alla quale l’assassino ha sollevato le gonne sul petto per mostrarne il sesso nudo. Sembra di rivedere il quadro di Courbet: l’origine. E’ lì infatti l’origine di tutto, nascita, amore e morte. Romanticismo? No, l’esatto contrario, la celebrazione funerea del romanticismo.
Sì, è vero, Gadda è anche barocco. Scrive barocco, perché barocca è la vita quando è forte l’odore della morte e ancora più intenso è il desiderio di vivere, Gadda è spesso satirico, e pieno di rabbia e sdegno, scrive con ira, ogni pagina è liquida: sangue, lacrime, sudore, feci, urine e tutti gli altri umori, è un mare di parole salate dove quotidianamente noi ci bagniamo, ci sbracciamo, ristagniamo.

Su tutto, però, alla fine, c’è il riscatto di un pathos intenso e la sua profonda pietà per la intimità violata, pietà per questo immenso, smisurato, infinito angoscioso ridicolo spettacolo che è l’umanità stessa. Sì, ciascuno di noi è un povero pasticciaccio umano e ciò, forse, lo indurrebbe a “ripentirsi ,quasi”. Pentirsi di che? D’esser nato, o di aver scritto il Pasticciaccio? Il fatto è che Gadda lì finisce di scrivere, o quasi. Dopo quel romanzo incompiuto, non scriverà più nulla. O quasi. Ergo, senza letteratura, la vita è nulla, o quasi.

Gadda morirà a Roma diversi anni dopo , vivendo in disparte , e in perenne difesa dagli ammiratori e dai mass media. E non si capisce questa sua scelta definitiva di vivere e morire in una città che lui stesso aveva definito caotica, indisciplinata, di nessuna consistenza e solidarietà sociale, anche se era innamorato dei suoi monumenti, del suo cielo e dei sonetti del Belli. Ma Roma era barocca, era un “pasticciaccio”, appunto, che lui avrebbe pietosamente e ferocemente investigato fino alla morte, avvenuta il 21 maggio 1973.

Proprio ora che comincio a rileggere il Pasticciaccio, e subito m’imbatto in quel mezzo tonto di Ingravallo, nella sua parrucca da giungla nera, metà commissario e metà filosofo, che vive di silenzio e di sonno, e dice tra sé e sé: “Le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che di si voglia di un unico motivo: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”, e man mano proseguo nella lettura, propria ora finalmente, capisco perché ho portato con me questo libro , in questa clinica un po’ antiquata e demodè, dove sto ormai da giorni e giorni e tutto si riduce a feci e sangue, sostanze ambivalenti, tragiche e grottesche, eroiche e ridicole, drammatiche e comiche della vita, anzi - direbbe il commissario Ingravallo-Gadda, - sono le due sostanze fondamentali di una vita, che per il resto è solo apparenza.
----------------------------------
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti sono moderati e controllati quotidianamente.
Tutte le opinioni sono benvenute. E' gradita la pacatezza.

Vicenza Jazz XXVIII Edizione 13-19 maggio 2024

                                        Vicenza Jazz                                          XXVIII Edizione 13-19 maggio 2024     ...