21 giugno 2013

La peste del Trecento


Immaginario di un virus letale
 
-  La peste! La peste!
Urlano uomini e donne, pazzi di terrore. La paura è dipinta sui volti delle popolazioni del Trecento. La  peste fa orribile strage e rovina. Più avanza, più le notizie si susseguono ininterrotte e sempre più lugubri e impressionanti. Ogni passeggero può essere un untore, o un apportatore del terribile morbo. Le città sono deserte, chiudono le loro porte. Le saracinesche dei castelli sono abbassate. La gente fugge verso le montagne per sottrarsi al miasma. Tutti fuggono: è uno spettacolo di desolazione. Chi assiste i poveri appestati? Tutti fuggono perché hanno la certezza di essere colti dal morbo crudele, solo avvicinandosi ad un ammalato. Per questo gli appestati vengono ammucchiati per strada, vivi e morti, o negli ospedali o si lasciano nelle case soli ed abbandonati. Si dimenticano anche i parenti e gli amici. Fuggire! Fuggire! La peste infuria. La peste bubbonica! La peste nera! È tanti lustri che non fa più la visita all’Europa questa terribile mietitrice, eppure il suo nome mette ancora spavento. Il Medio Evo conobbe questa sterminatrice di popoli, tremenda giustiziera, mandata da Dio a punire le umane iniquità. Si chiama anche peste asiatica, perché è nata in Asia e dopo aver invaso il grande Impero Cinese, mietendo a migliaia le vittime raggiunge l’India e continuando la sua marcia inarrestabile attraverso la Persia si propaga in Armenia e poi in Egitto. Quando i pellegrini della Terra Santa danno l’allarme essa già batte alle porte dell’Europa, che trema impotente alla venuta del contagio. Le isole dell’Egeo sono le prime ad essere invase, poi le rive del Mar Nero. Già avanza verso il Don attraverso le pianure russe. L’Italia può guardarla ancora da lontano, sennonché le navi sono il nefasto veicolo propagatore. Con le ricche merci che caricano nei porti del Levante portano anche la morte distruttrice. I cronisti tramandano che i viaggiatori che sono su quelle navi muoiono tutti, o quasi, prima di arrivare in Italia, quasi come se fossero vascelli di fantasmi. Pisa e Genova, abituate a vedere le loro galere come superbe dominatrici dei mari entrare nei loro porti cariche di ogni ben di Dio si ravvedono e provano che la ricchezza invece di portare il benessere può portare strage e morte. Di là si propaga in Toscana, in Umbria, in Romagna ed oltre, nel Napoletano e in Lombardia. Diventa la regina indisturbata d’Italia, mentre tutti ne seguono esterefatti il corso sterminatore più o meno violento, ad intervalli più o meno lunghi, per più di trecento anni. Da Ostia è importata a Roma ed infesta parecchi quartieri, soprattutto laddove la popolazione è più fitta e le norme igieniche più trascurate. Parecchie nazioni sono invase. Giovanni Villani nelle sue “Cronache”, così ci descrive il terribile itinerario: «Grande pestilenza di mortalità e di fame avvenne nelle parti di Germania, cioè nella Magna di sopra, verso tramontana, ed estesasi in Olanda, Frisia ed in Sislanda; e per Brabante, Fiandra ed Analdo, insino in Borgogna e parte di Francia, e fu sì perigliosa che più che il terzo delle genti morirono; e da un giorno all’altro quelli che pareva sano era morto». E  A. Coppi, nella sua Storia delle più celebri pestilenze, Roma 1832, ci riporta dei dati sconcertanti: l’Italia e la Francia sono le più colpite. Tanto per fare degli esempi: Avignone ai tempi conta 100.000 abitanti, in tre mesi ne perde più di 60.000. Muoiono 500 persone al giorno, poi 1000, poi i vivi non bastano a seppellire i morti. A Parigi ne muoiono più di 1.300 al giorno. L’Italia è spopolata. Solo a Siena giacciono inermi 70.000 cadaveri, a Parma 40.000, a Trapani quasi tutti gli abitanti, a Firenze più di 100.000, come riporta anche Spondano nei suoi Annales Ecclesiastici ad annum MCCCXV. Il morbo si comunica al solo avvicinarsi all’appestato, anzi al solo guardarlo. La prima manifestazione è un bubbone olivastro, o paonazzo, che compare sulle anche o sotto le ascelle. La povera vittima viene assalita subito da una febbre ardente, una sete insaziabile le divora le viscere e poi mancanza di respiro, stringimento di gola e vomito accompagnato da spasimi atroci. La pelle diventa nera ed emette da tutti i pori un fetore intollerabile: alla fine la vittima spira in mezzo a convulsioni indescrivibili. Così scrive Agnolo Tura in una testimonianza della Cronaca Senese: «Per la città non si sentiva più un rintocco di campana, né alcuno rimaneva a piangere i morti, perché i superstiti temevano di subirne la medesima sorte… Il padre non assisteva alla morte del figlio, il fratello fuggiva il fratello, la sposa abbandonava lo sposso per timore del contagio, potendo questa terribile malattia comunicarsi solo con l’alito. Si seppellivano i cadaveri senza nessuna cerimonia e solennità e molti di essi venivano dissotterrati dai cani che li facevano a brani perle vie… Ed io stesso, Angelo di Turo, detto il Grosso, sotterrai i miei figli in una fossa con le mie mani e similmente fecero molti altri». Nessun mezzo umano vale a combattere la peste. Ancora nel 1879, portata dai Cosacchi dopo la guerra Russo-Turca, fa la sua comparsa sulle rive del mar Caspio. L’Europa trema di nuovo. La scienza non ha alcun rimedio, ancora, per debellare il formidabile virus. A nulla serve fermare i passeggeri, sequestrare le merci, sorvegliare le persone sospette, sottometterle a rigide quarantene, farle disinfettare con lavande e con profumi prima di rimetterle in società. L’igiene certo non è curata e la profilassi nemmeno, ma a nulla serve prendere precauzioni contro il mortifero spirito del morbo. I principi e i nobili, ad esempio, prendono precauzioni per evitare l’importazione del male, ma sono tutte inutili e vane. La morte non guarda in faccia a nessuno. Fuggire! Ecco il supremo comandamento in tempo di peste. Cede cito: parti al più presto! Longinquo abi: va lontano! Serusque reverte: tarda a tornare! Mox, longe, tarde. Haec tria tabipicam tollunt adverbia pestem. Subito! Lontano! Tardi! Ecco le parole d’ordine quando la peste si avvicina. Si cercano le cause della peste in alcuni moti astrali. Si accusano gli ebrei di aver avvelenato i pozzi e le fontane. E proseguono gli stermini di quei poveri ebrei, capro espiatorio di tutti i mali del mondo fino al novecento inoltrato, soprattutto in Germania e Francia. Non sono bastati i pogrom delle crociate. E mentre la morte imperversa molti di abbandonano alla frenesia a godere la vita che fugge. Il timore di una morte così orribile rompe tutti i vincoli sociali. Tutti fuggono, tranne qualche cittadino generoso, qualche magistrato intrepido, qualche medico o qualche religioso, mosso da cristiana carità, che resta ad affrontare con eroismo nobile le furie della strage. La storia ancora ricorda l’immaginario di questo virus letale che ha infestato il mondo intero allora conosciuto. Manzoni ne “I Promessi Sposi” ne dà sentite descrizioni, e parla dei monatti, spronati dall’interesse a soccorrere gli appestati.
Vincenzo Capodiferro

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