S. Watson Dunn – La pubblicità – a cura di Marcello Sgarbi

 


S. Watson Dunn
La pubblicità (Edizioni Garzanti)

Collana: Manuali Garzanti

Formato: Copertina rigida rilegata con                       sovracopertina

Pagine: 511

Fuori catalogo – disponibile solo su                           www.ebay.it


Sul tema della pubblicità i libri a disposizione sono tanti e i più diversi. Si va da quelli che possono essere avvicinati alla manualistica – come Il copywriter mestiere d’arte di Emanuele Pirella o La trama lucente e La parola immaginata di Annamaria Testa – ad altri con contenuti ed esperienze più personali come Confessioni di un pubblicitario, scritto da David Ogilvy, Le fabbriche di scintille che ha come autore Ambrogio Borsani o Confessioni di una macchina per scrivere di Pasquale Barbella. Da notare, al proposito, c’è anche il fatto che gli scrittori citati sono stati prima copywriter e in seguito direttori creativi di famose agenzie pubblicitarie. Rispetto al modo di fare pubblicità sono passati parecchi anni dall’uscita di questo libro di Watson Dunn, edito nel 1965. Nel frattempo, molte cose sono cambiate. In Italia, il decennio Sessanta-Settanta corrisponde all’epoca di Carosello, che termina il suo ciclo di trasmissioni nel 1977.

Il programma pubblicitario era lo specchio del costume e della società del boom economico, dove i prodotti pubblicizzati in tivù erano soltanto una minima parte di brevi storie scritte da importanti sceneggiatori quali la coppia Age-Scarpelli o Tonino Guerra e interpretate da attori famosi come – solo per fare qualche nome - Gino Cervi, Virna Lisi, Ernesto Calindri, Vittorio Volpi, Ugo Tognazzi o Nino Manfredi.

Negli anni Settanta la pubblicità italiana ha conosciuto un lungo periodo in cui la parola ha prevalso sull’immagine, un fatto dovuto in parte anche a una generazione di cantautori caratterizzati da una prevalenza del testo sulla musica nelle loro canzoni. Un esempio tipico, in questo senso, è Francesco Guccini. In quella stessa stagione, il modo di comunicare dei pubblicitari italiani cominciava a perdere quell’aura di semplicità di cui si era circondato negli anni Sessanta per farsi più strategico. Nelle agenzie di pubblicità nazionali, tutte filiali di agenzie di origine inglese o americana, si adottava sempre di più la terminologia straniera. Sulla base di questo presupposto, per l’ideazione delle campagne pubblicitarie veniva utilizzato un documento strategico chiamato copy strategy.

In quello scenario l’unica eccezione era rappresentata dall’agenzia Armando Testa, dalla quale sono uscite campagne come quelle del caffè Lavazza e dei supermercati Esselunga, la sola agenzia nella storia della pubblicità ad avere aperto una propria sede a New York. Se poi vogliamo dirla tutta nel 2010 c’è stato un caso analogo, quello di Lorenzo Marini – un ex creativo che ha fatto coppia con Maurizio Sala proprio all’Armando Testa – anche lui autore di due volumi, Questo libro non ha titolo perché è scritto da un art director e Vaniglia. Marini, quindi, insieme ad Armando Testa, è il solo ad avere fatto controtendenza nel settore pubblicitario. Il compito principale della copy strategy era – ed è, quando viene ancora utilizzata - quello di individuare il pubblico di riferimento del messaggio pubblicitario, il vantaggio offerto dal prodotto al consumatore e le ragioni della sua validità.

La strategia pubblicitaria ha in seguito avuto altre declinazioni, con casi illustri come quello di Jacques Séguéla, inventore della star strategy nonché autore di altri due libri esperienziali cardine per chi si voglia accostare in modo un po’ insolito alla pubblicità: Hollywood lava più bianco e Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario, mi crede pianista in un bordello.

Séguéla, determinante in Francia per l’elezione di François Mitterand nel 1981, con la star strategy attribuiva ai prodotti pubblicizzati dalla sua agenzia un fisico, uno stile e un carattere. Come se fossero per l’appunto delle star, delle stelle dello spettacolo. Il fisico per convincere, lo stile per sedurre e il carattere per durare nel tempo. Un’altra scuola di pensiero strategico era quella che si rifaceva a Rosser Reeves, promotore della USP – Unique Selling Proposition – cioè una sola, grande promessa legata al prodotto. Parafrasando Séguéla, un caso emblematico degli anni Sessanta in questo senso può essere quello rappresentato dal detersivo Dixan, che prometteva “un pulito che più pulito non si può, nemmeno col candeggio”.

Gli anni d’oro della pubblicità possono essere considerati quelli che vanno dalla fine degli anni Settanta all’inizio dei Novanta, siglati da campagne come quella per l’amaro Ramazzotti, la “Milano da bere”. Un altro specchio che rifletteva un secondo boom economico in un momento storico in cui si affacciavano le tivù private, oggetti di consumo diventati poi status symbol – come lo Swatch – e il made in Italy acquisiva sempre più attrattiva nel mondo.

La pubblicità di Watson Dunn, invece, racconta quella degli albori. Un po’ come ci è capitato di vedere in televisione nella serie americana Mad Men, con protagonista Donald Don Draper, che incarnava il prototipo del pubblicitario mitizzato di Madison Avenue, strada iconica di New York per il settore della comunicazione.

Un ottimo libro, in ogni caso, per chiunque voglia conoscere un po’ di più la pubblicità attraverso uno stile piano e discorsivo, ben articolato nella suddivisione degli argomenti e dei capitoli.

La pubblicità di Watson Dunn può senz’altro essere accostato a un saggio dello stesso periodo: Gli strumenti del comunicare, scritto dal massmediologo Marshall McLuhan e uscito in libreria nel 1964.


© Marcello Sgarbi

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