In ricordo di P.P.P. a cura di Giuseppe Terranova

In ricordo di P.P.P.



La mia indipendenza, che è la mia forza,

implica la solitudine, che è la mia debolezza

(PPP)


A cinquant’anni dall’efferato omicidio di P. -col rischio di farne 1 santino, 1 marchio o una pop star-, enti culturali e istituzioni varie stanno commemorando lo scrittore tragicamente scomparso mezzo secolo fa, tramite mostre fotografiche, proiezioni cinematografiche e documentaristiche, convegni e reading di testi, spettacoli teatrali e concerti, incontri e dibattiti, articoli giornalistici e programmi televisivi, testimonianze di chi l’ha conosciuto e pubblicazioni editoriali varie con la vendita anche a prezzi contenuti delle sue opere letterarie. Forse, in tutto questo clima di rievocazione ed in questa abbondanza di ricordi, la cosa più sensata l’ha detta Ninetto Davoli in una recente intervista televisiva, asserendo di non capire tutta la fiumana d’iniziative per commemorare il cinquantenario della morte di P., celebrazioni che nemmeno a lui sarebbero piaciute. Ma comunque, a mio avviso, val la pena di ricordare anche noi quest’usignolo della diversità, come lo definisce Mattia Morretta in un capitolo del suo libro intitolato Tracce vive.

Pertanto ricordiamo anche noi la sua sfaccettata produzione artistica (con la sperimentazione di diverse forme d’arte; infatti, l’opera pasoliniana è come 1 fiume con la foce a delta, dalle numerose ramificazioni); e vogliamo ricordare anche la sua attività d’intellettuale impegnato e poeta civile fuori dagli schemi (anche se da giovane P. è stato vicino al marxismo gramsciano [su cui saranno letti alcuni versi tratti da Le ceneri di Gramsci] e anche iscritto al PCI (nonostante la tragica fine di suo fratello Guido [nome di battaglia Ermes], partigiano osovano della brigata “Osoppo”, legato al Partito d’Azione e di idee patriottiche e liberali, trucidato nelle malghe di Porzûs da partigiani garibaldini); ma dal PCI è stato espulso per indegnità morale e, a poco a poco egli se n’è distaccato, in nome di una Weltanschauung libertaria, iniziando così la metamorfosi da intellettuale organico ad artista tragico. Infatti, da allora, non è stato mai più un militante ortodosso, né chierico d’alcuna chiesa; mai più organico a una fede, o a una ideologia o a un partito politico, ma sempre artista eterodosso, indipendente, scomodo e controverso. Egli è intervenuto -con grande passione- nell’agone civile e politico, scandalizzando benpensanti, falsi perbenisti e moralisti di professione. In vita e post mortem tanti hanno cercato di tirarlo per la giacchetta, di qua e di là, ma invano: P. non è stato e non è ascrivibile a nessuna fazione ideologica; ma semplicemente è stato poeta e coscienza critica del Belpaese, un Grillo Parlante per i sordi e gli svagati della sua epoca, ma anche lui finito male come l’animaletto della fiaba collodiana.

P. è stato un Giano bifronte, un intellettuale incompreso, tragico e antimoderno e uno scrittore complesso e spigoloso, versatile, eclettico e poliedrico; è stato 1 poligrafo, che s’è servito di vari linguaggi e che ha sperimentato ogni registro espressivo. Montale l’ha definito 1 ossimoro permanente, una contraddizione vivente (di certo non un complimento!); qualcun altro, in positivo, l’ha addirittura definito un uomo-orchestra (prolifico e dalla produzione multidisciplinare) e dal genio leonardesco, multiforme e visionario, ribelle e conservatore insieme [come s’è visto anche nella poesia introduttiva “Io sono una forza del passato”], ma sempre controcorrente e fuori dal coro, ateo dichiarato e feroce anticlericale (ma di una sensibilità ricca di spiritualità e d’ammirazione per Cristo); insomma, un enigma irrisolto e 1 icona potente, 1 incarnazione della contraddizione [comunista ma eretico, beniamino dei radicali ma antiabortista, omosessuale ma profondamente cattolico]; un unicum nella 2a metà del secolo scorso per la sua molteplice attività di filologo, poeta, narratore, saggista, critico d’arte e critico letterario, drammaturgo, giornalista, sceneggiatore, regista, pittore, polemista a tutto campo, e altro ancora; e per ultimo -più che profeta- precursore preveggente e anticipatore di quello che sarebbe avvenuto dopo la sua morte in Italia, voce solitaria gridante nel deserto e vittima sacrificale.

Anche se qualche settimana fa egli ha avuto in Parlamento 1 commemorazione bipartizan, non si dimentichi che in vita non è stato ben visto né da cattolici [soprattutto per la pseudo oscenità dei suoi film e per la sua vita privata e per il suo anticlericalismo), né da comunisti (per le sue prese di posizione, per es., contro gli studenti sessantottini a difesa dei poliziotti e contro l’aborto); e, ancor meno, è stato ben visto dalla Destra e dalla maggioranza silenziosa della Prima Repubblica [all’epoca della sua barbara uccisione, i giornali di destra fecero scempio della sua memoria, definendolo pervertito, adescatore di ragazzini e intellettuale che quella morte violenta se l’era cercata]. Per fortuna, oggi il suo mito è diventato trasversale e ciò che ha detto e scritto non suscita più prese di posizione oltranziste pro o contro di lui, né suscita più le feroci polemiche e le barricate ideologiche d’un tempo.

Di P. s’è detto tutto e il suo contrario. Egli, senz’altro, è stato uno straordinario interprete e una figura imponente nel suo tempo, in quanto intellettuale che sfugge tutte le volte che lo si vuole ingabbiare e imbalsamare. Zanzotto ha scritto di lui: Dappertutto, con la passione di tutto”. Dacia Maraini, a precisa domanda su cosa più le manchi di P., ha più volte risposto che dell’amico le manca la voce e soprattutto il suo grande amore per la poesia. Il giorno del suo funerale, Alberto Moravia -nella sua orazione funebre- fece di P. 1 commovente elogio, definendolo -prima che scrittore- poeta, un grande poeta, di quelli che ne nascono pochissimi (non più di 3 o 4) in un secolo; e Elsa Morante -a tre mesi dalla morte dello scrittore, con cui aveva rotto i rapporti da tempo, dichiarò d’essere convinta che la diversità pasoliniana non fosse derivata dalla sua omosessualità, ma dalla sua poesia, con cui s’era attirato l’odio di vecchi e giovani (come scrive anche Mattia Morretta nel suo saggio Di petrolio e poesia. L’eredità di PPP). De Cataldo ha sintetizzato così la figura di P.: poeta controverso, regista scandaloso e intellettuale scomodo, che ha avuto la triplice colpa d’essere un intellettuale libertario, cattolico e comunista non ortodosso nel contempo, omosessuale demonizzato e perseguitato per la sua inclinazione e ostentazione sessuale e per la sua vis polemica.

P., infatti, ha avuto sia illustri estimatori tra il fior fiore della narrativa e della poesia italiana del tempo [penso a Moravia, Maraini, Morante, Zanzotto, Merini, Bellezza, A. Bertolucci, Caproni], sia detrattori [tra cui Montale, Sanguineti e Ceronetti]. Ha subito ben 33 processi per vari reati ascrittogli: oscenità e immoralità, adescamento e corruzione di minorenni, diffamazione, vilipendio della religione di Stato e anticlericalismo, disobbedienza alla disciplina militare, ricettazione e, addirittura, favoreggiamento e rapina a mano armata; tutti finiti, ovviamente, con l’assoluzione con formula piena perché i reati addebitatigli erano insussistenti.

Del suo barbaro omicidio e della sua misteriosa morte tanto s’è discusso e ancora si continua a discutere, nonostante i processi si siano conclusi da tempo: chi ha parlato dell’impossibilità che sia stato solo Pelosi a commettere il delitto (senza complici e mandanti, un delitto solo a sfondo sessuale ad opera di 1 ragazzo di vita); chi invece ha parlato di delitto politico, ipotizzando dietro l’omicidio trame nere e servizi segreti deviati; chi addirittura ha parlato di mafia e banda della Magliana, e via dicendo. Ma nemmeno i processi hanno sciolto i dubbi sull’omicidio e le sentenze processuali hanno lasciato zone d’ombra e lati oscuri, con troppi “interrogativi” rimasti inevasi e insoluti.

Egli è stato negli anni Settanta uno scrittore corsaro; uno scrittore luterano in un mondo oscurantista, controriformistico e ancora per certi versi tridentino (anche se c’era già stato il Concilio Vaticano II); uno scrittore eretico contro il pensiero dominante e l’Italia dei compromessi; uno scrittore profetico (“Io so, ma non ho né prove né indizi/Perché siamo tutti in pericolo”), anticonformista, antiomologante, antiborghese, anticapitalista e antimodernista.

Limitandomi al suo poetare, ritengo che la poesia sia stata il suo metaforico rifugio, il suo confessionale, il suo eremo, dove parlare liberamente e senza remore di tutto (l’amore per la madre Susanna [si veda la commovente e lucida poesia “Supplica a mia madre”, che verrà letta più avanti], la sua omosessualità, ma soprattutto la sua solitudine). P. è stato innanzitutto un poeta, intransigente con sé stesso, con gli altri e con la sua epoca; infatti, la poesia è il luogo dove egli s’interroga su di sé, sulle questioni più scottanti del suo tempo e dove risalta il suo impegno politico-civile, rifiutando di fare d’essa un recinto estetico, per farne -al contrario- un terreno di riflessione sulle contraddizioni del Belpaese perbenista e consumistico in grande trasformazione. Tutta la sua quotidianità -fin dalla giovinezza- è stata intrisa di poesia, anche (o soprattutto) nei momenti più scottanti e dolorosi, più tristi e controversi della sua breve vita. Poesia fatta di versi amari e disillusi, contro il petrolio (metafora di 1 mondo privo di luce e tenebroso, quello sotterraneo del malaffare, dell’intrigo, dell’illegalità e delle trame oscure); metafora in cui si riassume l’immane potenza del negativo esistenziale e socio-politico di un Paese intero, che racchiude in sé tutto ciò contro cui P. ha lottato tutta la vita: Potere, Palazzo, trame eversive della strategia della tensione, intrighi politici, censura istituzionale ed editoriale, partiti maneggioni, nuovo fascismo, borghesia rapace e immorale, urbanizzazione selvaggia, industrializzazione violenta e disumanizzante, omologazione come appiattimento e uniformità culturale e valoriale, mutazione antropologica, consumismo ed edonismo alienanti, sfrenati e spersonalizzanti, videocrazia (indottrinante e massificante potere della TV), pregiudizio sessuale duro a morire e conseguente discriminazione dei diversi, e via dicendo; contro la modernità, che ha visto anche la scomparsa delle lucciole a causa dell’inquinamento.

Di lui ci restano le domande scomode, le ferite mai rimarginate, la fede disperata nel potere della parola e dell’immagine, l’ansia di verità, l’instancabile ricerca di risposte sull’Italia consumistica e omologante, l’interrogarsi sui misteri italiani irrisolti e sui traumi epocali del Belpaese ancora bigotto e oscurantista, arroccato su posizioni di retroguardia sui diritti sociali e civili; di lui ci resta l’attenzione letteraria, poetica e cinematografica verso coloro che vivono ai margini della società, verso i diseredati e i reietti; di lui ci resta la grande determinazione nel lottare contro i pregiudizi di genere, anticipando -pur nella sua lotta solitaria- movimenti di liberazione sessuale che si svilupperanno nei decenni successivi.


Giuseppe Terranova


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