Raffaele La Capria – Ferito a morte a cura di Marcello Sgarbi


 
Raffaele La Capria Ferito a morte – (Edizioni Mondadori)


Collana: Oscar moderni: Cult

Formato: Tascabile

Pagine: 168

EAN: 97888047309O


Questo romanzo di La Capria – autore minore e un po’ trascurato, senza per questo essere meno interessante – svolge la sua narrazione nell’arco di undici anni e si apre sullo scenario della Seconda guerra mondiale. Un libro non facile, come l’ha definito lo stesso autore, che con il tempo è diventato di culto per critici e scrittori. Senza dimenticare che nel 1961 ha anche ricevuto quello che è forse il riconoscimento più ambito nel mondo letterario, il Premio Strega.

Durante un bombardamento Massimo De Luca, il protagonista di Ferito a morte, incontra Carla Boursier e sta con lei fino al giorno della sua partenza per Roma, nell’estate del 1954.

Il racconto è costruito su un’alternanza di salti temporali, dove il presente si mescola con i ricordi, riferiti di volta in volta a un anno diverso.

In Ferito a morte non sono soltanto i protagonisti a stagliarsi in un ritratto nitido ma anche Napoli, città nella quale è ambientata la storia.

Brillano per intensità e sguardo nell’interiorità le pagine dedicate alla pesca subacquea, nelle quali la descrizione è precisa e dettagliata. O quelle che parlano degli incontri al Circolo Nautico, dai quali emerge anche la psicologia dei personaggi un po’ indolenti, snobistici e annoiati che lo frequentano. O ancora le pagine che, raccontando del pranzo a casa De Luca, mettono in luce aspetti tipici del costume partenopeo.

È però Gaetano, l’intellettuale marxista che si confronta con Massimo a definire Napoli, in modo insolito ma con una sua verità, come una foresta vergine. La città è una giungla tropicale. Invade ogni cosa che incontra sulla sua strada, così come l’ambiente napoletano domina e corrompe le persone che ci vivono, che già di per sé indulgono a crogiolarsi nell’autoassoluzione da ogni peccato.

Ferito a morte è un quadro neorealista dell’Italia del dopoguerra che potrebbe a buon diritto fare parte di un film di Fellini.

«Viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme».

«Il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da mutare di punto in bianco la sua situazione. L’aspetto ambiguo dell’umanità del napoletano con la sua antitesi di miseria e commedia, di vita e teatro. Le due Napoli, una la montatura e l’altra quella vera. La Napoli bagnata dal mare e quella dove il mare non arriva, il Vesuvio e il contro-Vesuvio».

«Il polpo si sgroviglia sulle tavole della barca. Brutta l’agonia dei pesci. Di solito s’abbrevia col morso in testa. Se sono più grossi, un chiodo tra gli occhi, che si storcono come quelli delle bambole rotte. Il polpo fa disgusto però. Devi rovesciargli la testa come un guanto e mordere quella carne viva, molle col sapore salaticcio del moccio quando uno ha il raffreddore: no, è impossibile. Ma qualcosa si deve fare per questo polpo, è uno scempio. Un tentacolo quasi staccato, un occhio, una pallina bianca e nera, pendulo, trattenuto appena da un filamento, la pelle di un altro tentacolo strappata via uncinata dal tridente, e al posto del tentacolo un orribile verme sgusciato fuori di carne viva che si contorce. Sette vite come i gatti e le lucertole. Ninì distoglie per un momento lo sguardo da quella cosa che la morte ha masticato e vomitato nella barca e lo posa lontano sul mare accecante, decomposizione luminosa sotto la furia del sole. Nelle tempie il tam-tam. Il chiodo che serve a caricare l’asta del fucile sembra adatto. Ora il punto giusto tra i due occhi. Spinge il chiodo nella carne gelatinosa. Uno schizzo di materia sierosa biancastra gli scivola attaccaticcio sulla mano. Il cervello. Difficile trovarlo di solito, quello dei polpi dev’essere piccolissimo nella contrattile testa testicolare che hanno, tutt’un’acquetta bianca, come il cervello di Glauco, è probabile. La pelle del polpo scolora dal bruno cupo aggrumato in un grigiocenere smorente rapido come una persona impallidisce. Il vivo groviglio di tentacoli e ventose si scioglie, s’affloscia, al posto della vitalissima bestia uno straccetto sporco, bagnato, inerte sul fondo della barca».

«E un po’ prima dell’una un po’ dopo mezzogiorno, l’ora dei soci anziani, di quelli che contano nel Circolo e non solo nel Circolo, capi, notabili, decani di questo e di quello, si stanno spogliando in fretta e furia, paroliandosi allegramente, manate, colpetti sulle pance, urlati commenti nei reciproci corpaccioni che sono veramente uno schifo… no, ha ragione mamma, non è un ambiente molto chic questo, pensa Ninì. E dire che lei non li ha visti negli spogliatoi, li vede solo nelle sale del Circolo dove assumono un contegno. Qui li dovrebbe vedere, è un’altra cosa qui, sono diversi, si lasciano andare al rutto, al peto, girano tutti nudi con quei piedi unghiogialluti, li senti euforici sotto le docce che si raccontano storie di casino, che parlano di troie con competenza, rispondono cordialmente ad un insulto, e sempre esagerati nelle parole e nei movimenti, con quelle facce segnate, come dice Massimo, dalle rughe degli infiniti sorrisi servili rivolti ai potenti, e degli austeri cipigli rivolti agli inferiori. Poi te li trovi nelle sale del Circolo, in doppio petto, al tavolo di ramino o di baccarà, a discutere di questioni di precedenza e di procedura, ti fanno la lezione, statti zitto, io sono più vecchio di te, queste cose le so, ho l’esperienza. Esperienza un cacchio!».


© Marcello Sgarbi

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