“QUESTA MESSE IMPURA” DI FELICE DI BENGA a cura di Vincenzo Capodiferro
“QUESTA MESSE IMPURA” DI FELICE DI BENGA
Poesie robuste che scuotono…
“Questa messe impura” è una raccolta di poesie di Felice Di Benga, edita da Fara, Rimini 2024. L’autore, Felice Di Benga, nato a Napoli nel 1955: laureato in Scienze agrarie, vive a Roma. Ha girato il mondo e conosce cinque lingue. È cultore della Scienza Storica. Tra le sue raccolte segnaliamo: “Ci troviamo soli a consumare” (Fara 2020), la quale ha ricevuto vari riconoscimenti. Scrive Adalgisa Zanotto nella “Motivazione”: «Di fronte a poesie robuste che scuotono, sei scosso da un’aurora silente e sussurrata». I versi di Felice risultano ruvidi e raspanti come quegli steli di paglia della messe, che egli cita nel titolo. La sua poesia ci ricorda quella civiltà contadina, celebrata dai nostri Scotellaro. Egli d’altronde proviene dalla tradizione agraria.
Ci trascinerà
questa messe impura
che fa di ogni giorno
un unico fascio indistinto.
Nulla ci salverà
se non l’amore diviso in mille rivoli…
C’è un’evidente allusione alla parabola della zizzania. La vita scorre in sfumature grigiastre, tra bene e male, tra luci e tenebre. Questo è il Panta Rei. Si legge nella postfazione: «Non si tratta forse del nostro stare al mondo come un “unico fascio indistinto”, essendo fili d’erba di un campo dove condividono grano e zizzania…?». Questo fascio indistinto che ci illumina, tra luci ed ombre e altrimenti non potrebbe essere tale (troppa luce e troppa tenebra ci rendono ciechi) ci ricorda quel fascio di impressioni di Hume: la vita è sogno.
Non parla la finestra
che accoglie un vagabondo meriggio…
Cosa resta di noi
se non i corpi sfuggiti…
Grande enfasi! Noi siamo come finestre sul mondo. Dalle nostre finestre, gli occhi, entra la luce dentro la nostra anima. Siamo platoniche caverne, monadi leibniziane, ma abbiamo delle finestre, non siamo senza finestre, né porte. Siamo in comunicazione col mondo, con altre anime. Ma non solo: l’arte ci offre spesso finestre schellinghiane, donde, affacciandoci, scorgiamo l’altro mondo, quello della fantasia. Il tutto si trova fuso in quello scettico “fascio indistinto”, che coglie fantasia e realtà. Solo l’amore ci salva, come dice il nostro. Scriveva Hugo: «Disgraziato chi avrà amato soltanto corpi, forme, apparenze! La morte gli toglierà tutto. Cercate di amare le anime, le ritroverete». I nostri corpi sfuggono continuamente. «Godi, fanciullo mio...». Una nota di profondo pessimismo pervade le forme poetiche di Felice, che risuona anche egli, nel suo nomen/omen come ungarettiana “Allegria”.
Fummo
cercatori di anime…
Come diceva Hugo. «Il dettato poetico di Felice Di Benga è cristallino. La trasparenza della sua voce è però tagliente: invisibili spigoli affettano la realtà, incidono la carne… La vita è un flusso che dipende e non dipende da noi...» (“Postfazione”).
Noi siamo come gli spettatori dell’eracliteo fiume. Crediamo che l’acqua sia sempre la stessa, ci aggrappiamo ai nostri scogli mentali. Ma tutto cambia, anche noi, anche quell’osservatore O., che scruta con occhio scientifico la realtà. Tutto scorre. La realtà è paradossale. È “messe impura”. Le nostre categorie mentali non sono pure, come pretendeva Kant. L’Osservatore trascendentale si trova immerso in un campo di grano indistinto, in mezzo a percezioni subliminali. Percepiamo indistintamente il tutto, il campo, ma non i singoli elementi. Percepiamo il mare, ma non le singole onde, percepiamo il mare di grano, ma non le singole spighe che ondeggiano al vento. Siamo noi stessi delle “canne pensanti”. La nostra visione del mondo è impura: questo il messaggio profondo che vuole infonderci la poesia di Di Benga.
V. Capodiferro
Commenti
Posta un commento
I commenti sono moderati e controllati quotidianamente.
Tutte le opinioni sono benvenute. E' gradita la pacatezza.