Di lentissimo azzurro di Angela Caccia a cura di Vincenzo Capodiferro
DI LENTISSIMO AZZURRO
Poesia che si riflette in sguardi, gesti e battaglie, perfino sconfitte, di Angela Caccia
Angela Caccia è nata il 25 novembre 1958, risiede a Crotone (KR). Studi: Diploma di maturità classica e Laurea in scienze giuridiche. Coordina un blog di poesia; ha la direzione artistica del Festival di Poesia “A sud di ogni altrove” che ha cadenza annuale nel comune di Santa Severina (KR). Dal 2006 al 2011 ha coordinato l’Associazione Culturale “Le Madie Cutro/Crotone”. Ha pubblicato su diverse riviste e su quotidiani nazionali. Molteplici i riconoscimenti ed i premi culturali conseguiti dal 1999 ad oggi. Tra le pubblicazioni ricordiamo: “Nel fruscio feroce degli ulivi” (Fara 2013); “Il tocco abarico del dubbio” (Fara 2015); “Piccole forse” (LietoColle 2017); “L’alveare assopito” (Fara 2022); “Di lentissimo azzurro” (Campanotto 2025).
“Chi ama la poesia, sia nel ruolo di scrittore che di lettore, compie una scelta su come stare al mondo, accettando di essere manutenuto anche dalla dimen sione poetica. L’arte - e, a mio avviso, soprattutto la poesia - che si riflette in sguardi, gesti e battaglie, per sino nelle sconfitte, manifesta chiaramente come abbia contribuito alla formazione dell’essere umano, la cui essenza si esprime nella creazione poetica”. (Prefazione)
Scritta a mano
di lentissimo azzurro
coi tratti della cura e della calma
tra le pagine di un libro
assopita come una Biancaneve.
Noi
che fummo
voce e linguaggio
l’uno all’altro ora
ci guardiamo di sfondo
ognuno da un confine
di croci.
“Di lentissimo azzurro” è un’immagine forte, magniloquente. Ci ricorda i pennini e i calamai. Azzurro è simbolo di vita, luce, mare e cielo: la terra di Crotone, la “terra dove eccedono le radici”, come dice Angela. “Noi/ che fummo/ voce…”. Ci ricorda fortemente un incipit manzoniano. Ognuno di noi è un “Ei fu”. La vox, il linguaggio è sacro, perché fa da mediatore tra la realtà e il pensiero, ma soprattutto, il linguaggio è il custode dell’essere – come diceva Heidegger – dimora entis, soprattutto il linguaggio originario, quello poetico, da ποιέω, creare. Poesia è traccia della originaria creazione, quella divina, è istinto divino che è in noi, ominidi/dei (Homo Homini Deus):
E queste mani che incessantemente emulano un dio
nell’atto di creare tracciano il passo di sponda
mutano prospettiva ad ogni istante.
“Di lentissimo azzurro” è una folla di radici, che cacciano ogni genere di piantume, di fiori, di frutti, anche di spine, di dolori. Queste gemme d’amore e di dolore, di vita, spesso sono in contrasto tra di loro, come le onde del mare che noi non vediamo, ma che si rincorrono, si schiantano contro scogli, come sogni svaniti nel nulla. L’azzurro/mare/cielo si scontra spesso con la dura terra. La fedeltà alla terra si paga, con la gravità: l’essere incatenato in una platonica caverna.
Diamoci questo scontento
che il mare come il tempo
ha lo stesso senso della metrica...
Bellissima quest’immagine! Nella poesia, poi, in particolare, è valida sempre l’equazione platonica tempo=immagine dell’eterno. La poesia è eternalizzazione del tempo. Già Foscolo l’aveva intuito.
Perderemo un petalo al giorno
ma la parola alzerà difese
al nostro grammo di storia.
Un’altra intensa immagine dell’onomatopeica metaforizzante che spesso usa la Nostra, ricollegandosi a quel simbolismo che scorre nei nostri versifici (di un Pascoli, ad esempio): siamo come margherite che perdono petali. “M’ama! Non m’ama!”. Angela parla di “verginità del verso”, pura espressione del sentimento, statuto dell’arte (crociana e non):
Anche il caos che partorisce una stella
ha bisogno di disciplina
e questa vita ha mammelle gonfie di poesia.
Caos si muove secondo un’Ἀνάγκη, cioè una necessità, un fato, un karma, un contrappasso. È tutto studiato, anche l’informe, il diverso. L’essere è identità e diversità, come diceva Platone. La Vita è la Madre della Poesia, coma la materia, la grande Mater, dal cui seno sono edotte tutte le forme: Formae educuntur e potentia materiae.
“Di lentissimo azzurro” è una miniera d’amore, di voci profetiche, ora sussurranti, ora forti, ora clamantes in daeserto, ora folli urlanti alla folla, come un Zarathustra. Chi potrà comprendere il senso recondito della poesia? Nessuno comprenderà a fondo il poeta, ma basta rincorrere quei versi come le nubi celesti, le onde di mare. Noi rincorriamo all’infinito quel senso, perché abbiamo bisogno di senso, perché spesso, anzi quasi sempre un senso non c’è. La poesia diventa ricerca di senso esistenziale, non solo sintattico-grammaticale, come nel versificare della Nostra.
Da quel profondo affollare di radici nascono nuovi mondi, nuove visioni prospettiche, leibniziane, subconsce e consce, che si diffondono nel mondo, recando in sé le loro rationes seminales.
Vincenzo Capodiferro
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