QUALE EUROPA? LE INCERTEZZE DEL VOTO di Antonio Laurenzano
QUALE EUROPA? LE INCERTEZZE DEL VOTO
di Antonio Laurenzano
A pochi giorni dal voto per l’Europarlamento, una domanda è d’obbligo: quale Europa uscirà dalle urne? Risposta difficile al termine di una campagna elettorale segnata da nomi e contrasti sulle liste e povera di programmi e contenuti. Scarsa l’informazione dei partiti sulla dimensione europea della consultazione elettorale, una informazione involuta su un provincialismo dialettico, una querelle strapaesana al servizio di una misera caccia al voto, dissimulata da candidati-civetta. Non un test politico-economico sull’Europa del futuro ma, banalmente, un sondaggio elettorale per la verifica dei rapporti di forza fra i vari partiti. Sullo sfondo di riciclaggi, trasformismi politici e di un marketing elettorale borderline (in terra magiara), non stupisce che a contendersi il consenso siano finiti candidati “impresentabili” per l’Antimafia e candidati sprovvisti di un’adeguata statura politico-culturale necessaria per affrontare non una trasferta turistica (pagata) in Alsazia, a Strasburgo, ma un compito di grande responsabilità, come quello parlamentare europeo. All’Europarlamento non ci sono seggi per “turisti per caso”, ma per soggetti responsabili, capaci di visione, quella necessaria per operare per le generazioni future con progetti di grande respiro, nel segno dello storico Manifesto di Ventotene.
Da anni l’Europa non riesce a fare alcun passo decisivo per diventare una entità sovranazionale con una politica estera comune, una difesa comune, una fiscalità comune, per potersi cioè relazionare sullo scenario geopolitico mondiale con una propria identità. Sempre più latitante la “politica visionaria” dei Padri fondatori per la mancanza nei Paesi dell’Unione di leadership adeguate: immobilismo e scarsa coscienza europea. Accantonata, a volte calpestata, la memoria storica e culturale del Vecchio Continente, la costruzione di un’Europa unita, la sua integrazione, è scivolata nelle pastoie burocratiche, invischiandosi nei cavilli dei regolamenti comunitari. Lo “spazio di libertà, di giustizia e di pace”, alto richiamo ideale, si concretizza attraverso una reale appartenenza e cioè su un principio di cittadinanza basato su un progetto politico.
La prossima legislatura europea, la decima, dovrà farsi carico di un’agenda complessa in cui si incroceranno non solo interessi nazionali diversi, ma anche idee diverse sui programmi che dividono i partiti all’interno di ogni singolo Paese. Molte e impegnative le sfide che l’Unione europea sarà chiamata ad affrontare nei prossimi cinque anni, sul tappeto dossier complicati, compromessi faticosi da negoziare: transizione ecologica e digitale, patto per la migrazione, rapporto con Cina e Usa. L’Europa dovrà decidere se fare quel salto di coesione necessario ad affrontare il nuovo contesto internazionale che la vede oggi esposta su più fronti. Ed è difficile pensare a una politica estera e di sicurezza comune senza una condivisione degli strumenti economici collegati a investimenti in aree di importanza strategica per l’Unione per “un cambiamento radicale”, come proposto da Mario Draghi nel suo recente rapporto sul futuro della competitività europea.
In questo complesso quadro programmatico sarà importante rafforzare il ruolo del Parlamento europeo che, pur non avendo il potere di iniziativa legislativa come i Parlamenti nazionali, dai Trattati di Roma del 1957 ha visto crescere i suoi poteri nella procedura legislativa ordinaria: l’80% degli atti legislativi richiede il concorso paritetico di Parlamento e Consiglio. Ma è tenuto ancora ai margini delle politiche strategiche dei governi nazionali, quelle tradizionalmente vicine al cuore delle sovranità nazionali, le cui decisioni vengono prese esclusivamente dal Consiglio europeo (dei capi di governo nazionali). Così prevedono i Trattati che hanno creato una Unione europea con due motori, uno sovranazionale e l’altro intergovernativo. L’assetto istituzionale dell’attuale Unione è non solo eccessivamente complesso, provocando spesso paralisi decisionali, ma è in parte anche obsoleto dopo oltre settant’anni di vita in un mondo molto cambiato dalla metà del secolo scorso. Ritrovare dunque lo spirito originario e ritornare al respiro di una nuova fase costituente con la revisione dei Trattati istitutivi per riequilibrare i poteri all’interno dell’architettura comunitaria, rimuovendo dalla sua governance lacci e lacciuoli, con il giogo dei veti costanti delle minoranze. Un processo di crescita istituzionale che, se si vuole una “Europa migliore, unita nella diversità”, richiede ai candidati al seggio di Strasburgo responsabilità, diligenza, competenza, a prescindere dai facili slogan elettorali (“l’Italia cambia l’Europa”, “Europa sociale, verde, giusta”, “più Italia meno Europa”, “l’Italia che conta”) o da scellerate proposte di legge per togliere la bandiera europea dagli uffici pubblici.
Su temi rilevanti per il comune futuro dell’Ue lasciare gli elettori nel buio o ricorrere a messaggi ambigui e retorici (sia da parte sovranista che europeista) mina la democrazia e quindi i valori fondanti del progetto europeo. Non parlando di Europa e della “comune casa europea”, complice il colpevole silenzio della Scuola, si rischia di allontanare sempre più i cittadini, anche quelli di domani, dalle istituzioni europee, non rafforzandone la partecipazione al voto. Una partecipazione che nel tempo è andata progressivamente scemando: dall’86% dell’affluenza nelle prime elezioni a suffragio universale diretto del 1979 al 55% delle ultime elezioni del 2019, con una presenza giovanile di una fascia di età 18/24 anni del 43%. Quanti elettori parteciperanno all’election day del 9 giugno? E quanti i giovani che andranno a votare? Per quale Europa?
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