19 dicembre 2023

IL PROBLEMA DEL REALISMO IN GUGLIELMO DI CHAMPEAUX (1070-1121) a cura di Vincenzo Capodiferro

 


IL PROBLEMA DEL REALISMO IN GUGLIELMO DI CHAMPEAUX (1070-1121)


Il problema del realismo in Guglielmo di Champeaux (1070-1121) non è un problema banale. Già era stato posto dai Greci ed ha animato la filosofia medievale e poi oltre è stato più volte ridestato. Eppure quella posizione, ante rem, fu bollata come assurda ed eretica. Fu accettata per tutto il clou del medioevo l’in re, trasposizione dell’aristotelismo di Tommaso d’Aquino, cioè una via di mezzo, fino a finire al post rem, con un altro Guglielmo, di Occam, il quale liquidò tutto il problema abbattendo la metafisica col rasoio.

Le idee sono reali o no? Questo è il grave problema, ripreso dai logicisti dell’Ottocento e del Novecento, da Frege a Russel, da Husserl a Wittgenstein. Le posizioni estremiste (ante rem e post rem) furono in qualche modo escluse in quanto eretiche. La prima conduceva al panteismo dell’ubiquità della sostanza e la seconda al triteismo di Roscellino.

La critica di Abelardo non coglie in pieno però il problema, perché apre la via al concettualismo. Abelardo era stato discepolo sia di Roscellino che di Guglielmo e cercò una via di mezzo trai due, riducendo gli universali a segni linguistici cum fundamento in re. Ma aprì indirettamente quella via che poi porterà pian piano all’atomismo logico neopositivistico e peggio: all’atomismo ontico. La conoscenza viene ridotta solo al particolare: il generale è relegato nella sfera dei limbi celebrali. Nulla di strano che Kant, seguendo questa scia, recluderà gli universali nelle carceri apriori dell’Intelletto puro, un altro fantasma dell’Opera, che non si capisce cosa è effettivamente: né sostanza, né atto, né persona. Un deus ex machina irrisolto che condurrà Fichte all’Egolatria (Tutto è Io). L’inversione della metafisica oggettiva in metafisica soggettiva comincia già agli arbori medievali. Las scienza moderna nasce sul fondamento del nominalismo medievale. Newton applica il rasoio occamista ai fenomeni scientifici. L’atomismo logico era stato previsto già da Platone: le idee atomiche. Ma si può spezzettare la materia logica in atomi e molecole senza considerare la forza, o energia che unisce queste particelle?

L’ente comune viene escluso dalla cognizione già dai tempi di Parmenide, che ebbe tutti contro. Perché non possiamo conoscere l’ente comune? La visione sinottica, o d’insieme, o del tutto, non precede forse quella della parte? Invece ci si ferma a una visione da talpa, miope, che guarda solo le virgole, i punti, i punti e virgola. Alla fine la visione analitica prevale su quella sintetica. Husserl ha dedicato al problema del Tutto e della parte la Terza Ricerca logica. Precisiamo qualche punto: innanzitutto l’ente comune è oggetto di intuizione intellettuale. È un dato assoluto e certo, un dato di senso intellettuale inconfutabile. Perciò Parmenide osservava che essere e pensare coincidono.

Ora se ammettiamo che l’ente comune, cioè generale, e quello comunissimo, o generalissimo, sia solo una nozione intellettuale e non corrisponda a reale è un’assurdità. Questa è una prova ontologica ma rivolta all’ente stesso. L’ente esiste o non esiste. E se non esiste, allora esiste il nulla? Ma in tal caso, cioè se il nulla esiste, allora è già ente.

Ammettere che l’intelletto possa cogliere solo il parziale o la somma di parzialità, o che il generale, o l’universale sia dato dalla somma matematica delle parti è un’assurdità. Gli psicologi della Gestalt stessi ci hanno dimostrato che il tutto è più della somma delle parti. La melodia non è data dalla somma delle singole note, ma da un tutt’uno che non coincide con il particolare. Se suoniamo le note di una melodia ad una certa distanza l’una dall’altra non ci dicono nulla. L’empirismo classico coglie solo un aspetto parziale. Tutta la scienza si è mossa su questa scia. Basta guardare ai paradigmi del mondo kuhniani. La teoria della relatività, ad esempio, è una visione d’insieme. Teoria significa visione. Tale è anche il senso comune di Aristotele e di Reid. La visione sinottica, o generale, o olistica precede sempre quella particolare. Da ciò deriva che la visione sintetica precede sempre quella analitica. Così si imposta il problema dell’intelletto agente di Aristotele, variamente risolto dall’illuminazione agostiniana alla sintesi apriori kantiana. L’intelletto non è cieco, non ha bisogno dei paraocchi sensibili o dei fantasmini dell’immaginazione. C’è l’occhio della mente, capace anche di vedere nel sensibile, di cogliere l’ecceità (Scoto). Leibniz (les petits perceptions) e Herbart avevano intuito la visione metacognitiva (subconscio). L’occhio mentale vede il particolare nell’universale e non l’universale dal particolare. Non scinde, non prescinde, cioè non divide dall’insieme. La nozione primissima che l’intelletto generale coglie è proprio l’ente purissimo, o ens communis di Guglielmo di Champeaux. Gioberti e Rosmini avevano riconfermato l’ontologia classica. L’ente generalissimo precede tutte le altre nozioni. Enrico di Gand, superando la divisione netta di matrice tomista ed araba (Avicenna) di essenza ed esistenza, aveva riconosciuto anche l’esistenza dell’essenza (ens essentiae). L’ente comune, o latissimus è un reale, non solo un mentale (aprioristico kantiano o aposterioristico che fosse). I generi e le specie sono già in mente Dei. Pur ammettendo l’evoluzionismo, questo in quanto superamento del fissismo delle specie naturali, deve già essere rapportato all’ente comune. Proprio perché c’è un’area di comunanza nell’ente è possibile il passaggio da una specie all’altra. L’ente comune è come l’aria, un’aria spirituale che respiriamo. D'altronde Spirito significa soffio. L’aria non si vede eppure c’è. Il pensiero non si vede, eppure c’è, si sente. Qualcosa o qualcuno per esistere deve prima essere. La scissione o rottura tra essenza ed esistenza ha portato poi a dualismi fuorvianti, come quello kantiano.

Tra l’intelletto e il senso c’è una mente comune che mette insieme i dati di entrambi (come se avessimo due cervelli in uno). Poi c’è la volontà e c’è una facoltà intermedia tra ragione e volontà. Poi c’è il cuore, o intelligenza estetica, o sentimento. Sono istanze non separate. E così è nel mondo dell’essere: non c’è una precisa separazione tra ente comune e ente specifico. L’umanità esiste negli individui, la giustizia nei giusti, la bontà nei buoni, etc. l’ubiquità è un’argomentazione riduttiva. Come dire: l’aria non esiste in ogni posto dove respiriamo? O l’acqua non esiste in tutto l’oceano, o solo in una parte? Come dire: a Venezia esiste l’acqua del mare e non a Napoli. C’è un ente indistinto dall’intelletto stesso, si fonde con esso. Tutto è collegato. Le menti non sono monadi autorecluse in sé. Gli stessi atomi sono collegati dall’energia. Le particelle atomiche sono legate da una forza invisibile. Altrimenti andrebbero per fatti loro. L’antimateria esiste anche se non la vediamo direttamente. Cogito ergo sum: posso partire dall’autocoscienza per giungere all’essere, o partire dall’essere per arrivare alla coscienza assoluta.

Se si ammette un mondo matematico-geometrico perfetto ideale alla husserliana maniera, si deve ammettere una Coscienza assoluta, cosmica, dotata essa stessa di inconscio (Jung). Spesso anche in psicologia si è trascurato l’Io collettivo e come questo influisca su quello singolare. Ci si è fermato solo al singolo, come se il singolo fosse tutto (“malattia mortale” di Kierkegaard). Il singolo è superiore alla specie. Ma da dove avremmo l’idea di singolo se non vi fosse il totum in cui il singolo vive? I socialisti, tra cui Marx avevano evidenziato il ruolo della Società. La Società crea il singolo. La società è un ego comune, cioè un ente comune. La società precede il singolo, come la Polis precede il cittadino e lo Stato precede ogni singolo individuo, da Aristotele ad Hegel.

Essenza ed esistenza sono distinte, ma non separate. C’è stato un salto dall’essere all’avere: ciò che è l’essere e ciò che ha, o possiede l’essere. Ma un essere che sia stato dotato di esistenza, già possiede in sé un ente che potenzialmente può suscitarsi in esistente. Questo è un ente nascosto, ancora latente, che poi, coma dall’oscurità alla luce, spunta, diventa essere pienamente. La ragioni seminali degli Stoici, riprese da Agostino forse ci danno l’idea di questo ens latus. Ciò che è nascosto viene alla luce: questa è anche l’”aletheia” greca, l’uscita fuori, o estasi. L’esistente è un’estasi, un uscir fuori dell’ente da sé. Hegel aveva individuato il processo dialettico ontico originario. Ogni ente è potenza diveniente atto, cioè attualizzantesi. Si è confusa l’esistenzialità con l’attualità, ciò che esiste solo hic et nunc. Il nascondimento è un processo necessario all’ente. Tutte le prove di esistenza non tengono conto così dell’essere generale, ciò che esiste prima. Il principio logico, storico, il fondamento su cui si costruiscono le strutture del reale. Il campo è un ente generalissimo, il seminatore è un ente personale che eccede l’ente stesso, un Is, o Quis (come in Bruno). I semi sono gli enti potenziali che si possono sviluppare secondo il loro modus operandi, o essendi. Così come quidquid percipitur admodum percipienti percipitur, così ogni ente è al suo modo di essere. Secondo Rosmini l’idea di essere fonda ogni nostra conoscenza: «Pigliate qualunque oggetto vi piaccia, cavate da lui coll’astrazione tutte le qualità proprie, le qualità meno comuni e via via le più comuni, ciò che vi rimarrà come ultima qualità di tutte sarà l’esistenza: e voi per essa potrete ancora pensare qualche cosa, penserete un ente». Il principio di intenzionalità originario si rivolge all’ente comune (inintentionaliter) e poi all’essere proprio (secunde intentionaliter). La prima intenzionalità si rivolge sempre all’essere generalissimo, la seconda intenzionalità all’essere finito, o proprio. Il problema russelliano dell’insieme di tutti gli insiemi che non è insieme di sé, che riprende poi il paradosso zenoniano dello spazio dello spazio rimanda all’ente infinito che è un ente problematico (infinito in potenza ed infinito in atto), cioè a Dio stesso, il primo ente. Per Rosmini l’essere ideale è la forma universale e non può derivare dalle sensazioni, né dall’io, né dall’astrazione, né dalla riflessione, né dall’ente finito, né dalla creazione, cioè è increata, quindi connaturata alla Deità, cioè co-originaria. Le stesse categorie apriori kantiane sono idee di Dio, non si spiegano diversamente, forme logiche ed ontiche pure: se fossero solo logiche non fonderebbero nessuna realtà. La prima formola ideale di Gioberti è: l’Ente è necessariamente. Questa è la prima pura tautologia che costituisce il fondamento dell’Identità, il principio di identità di Aristotele, primo principio della logica. Questo principio si applica solo all’ente in sé, ma è inapplicabile al tempo (principio di ragion sufficiente di Leibniz): «è la semplice ripetizione del giudizio intuitivo, che lo precede, lo fonda, lo autorizza». L’essere è la rivelazione di Dio, da cui anche l’ultimo Heidegger, seppur implicitamente fu folgorato. L’Essere chiama. Tutto ciò che esiste è una risposta all’ente. Altrimenti non si spiega nulla. La prima forma, la Forma formarum è l’ente comunissimo: esso è la sintesi di tutte le categorie, logiche ed ontiche. Questo ente comunissimo non può essere ricavato per via analogica. L’analogia entis vale solo per gli enti finiti, non può essere applicata all’ente infinito. Tutta l’ontoteologia si fonda sull’equivocità tra ente infinito, o comunissimo, ed ente finito. L’ente generalissimo non è né può essere un ente finito. È ciò che è, ciò che fonda ogni ente, ciò per cui, in cui ogni ente è ciò che è: l’id assoluto, il principio di equivalenza, di eguaglianza univoca che risiede nell’essere puro. Questo essere è idealissimo, ma è anche realissimo: se non esistesse, nulla potrebbe sussistere. O bisognerebbe ammettere il nulla come essere assoluto. Ma anche in questo caso il nulla sarebbe il pre-ente assoluto. Un non-ente può darsi solo in via negativa, non positiva, o apofatica. Cioè è impossibile il nulla catafatico, non quello apofatico: questo è il vero senso del paradosso di Parmenide. Per queste ragioni la posizione del realismo detto esagerato del maestro Gugliemo di Champeaux andrebbe seriamente ripresa in considerazione.

V. C.

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