27 giugno 2022

SALARIO MINIMO E DIGNITA’ DEL LAVORO di Antonio Laurenzano

 


SALARIO MINIMO E DIGNITA’ DEL LAVORO

di Antonio Laurenzano

Prosegue il dibattito sul salario minimo dopo lo storico accordo raggiunto a Strasburgo fra Consiglio Ue, in rappresentanza dei 27 Stati membri dell’Unione, e il Parlamento europeo. Un negoziato durato oltre un anno e mezzo per scrivere le nuove regole che, negli auspici della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, “tuteleranno la dignità del lavoro e faranno in modo che il lavoro paghi il giusto compenso”. La direttiva, che dovrà essere approvata dalla plenaria del Parlamento europeo, non impone agli Stati di cambiare i sistemi nazionali esistenti sul salario minimo, ma stabilisce un quadro procedurale per promuovere salari minimi “adeguati ed equi”. Non ci sarà quindi un salario europeo valido per tutti i 27 Paesi ma sarà commisurato al costo della vita all’interno di una normativa finalizzata al superamento di ogni disuguaglianza. L’Europa chiede ai suoi partner di dare la giusta attenzione alla questione salariale proprio nel momento in cui l’inflazione rialza la testa mettendo a dura prova il potere d’acquisto di vaste fasce sociali. Sarà competenza degli Stati decidere se legiferare o meno sul livello salariale minimo.

Sono attualmente 21 gli Stati membri dell’Ue nei quali esiste il salario minimo, negli altri sei vige la contrattazione collettiva, tra cui l’Italia, oltre a Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia e Cipro. La direttiva propone ai primi di verificare l’adeguatezza del salario minimo legale rapportato alle condizioni socio-economiche, al potere d’acquisto, nonché al livello di sviluppo della produttività nazionale. Ai Paesi con relazioni industriali regolamentate dalla contrattazione collettiva viene raccomandato di creare un piano d’azione per aumentare la copertura della forza lavoro, coinvolgendo le parti sociali. In Italia, in particolare, dove c’è un consolidato sistema di contrattazione collettiva che copre l’88,9% dei dipendenti di imprese del settore privato extra-agricolo, non c’è una legge che fissa un minimo legale (fermo al Senato un disegno di legge del M5S per un salario minimo a 9 euro). Allarmanti i dati dell’Inps: oltre 5 milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno di mille euro al mese, 4,5 milioni quelli che vengono pagati meno di 9 euro lordi all’ora, oltre 2 milioni i lavoratori che percepiscono 6 euro lordi all’ora. Assicurare diritti e dignità a chi lavora, “tenendo bene insieme salario minimo e contrattazione, l’uno in funzione dell’altro”, ha osservato il Ministro del Lavoro Orlando.

Ma sono in molti a chiedersi se l’introduzione di un salario minimo nel nostro Paese possa effettivamente avere una qualche utilità sociale in termini di aumento reale dei salari e di crescita del potere d’acquisto dei lavoratori. Tante le questioni sul tappeto. Prioritario sarebbe stabilire il “primato giuridico” fra salario minimo previsto dalla legge e i minimi tabellari inclusi nella contrattazione collettiva per evitare un deleterio contenzioso giudiziale, a scapito della certezza del diritto. Una eventuale convergenza verso l’alto dei salari minimi già previsti dalla contrattazione collettiva potrebbe generare ricadute economiche per le imprese e quindi, a cascata, per i consumatori per effetto del conseguente aumento dei prezzi. E una rincorsa fra prezzi e salari alimenterebbe pericolosamente la spirale inflazionistica. In un contesto economico, caratterizzato da sistemi produttivi in continua trasformazione tecnologica, ed è questa l’obiezione di fondo, risulta difficile incasellare in termini generali il salario minimo a tutela delle condizioni retributive dei lavoratori. Diritti che potrebbero invece essere meglio garantiti se ancorati alla professionalità e al risultato finale, e quindi alle condizioni di maggiore flessibilità proprie della contrattazione collettiva.

Per le parti sociali un intervento legislativo non è la soluzione, mortifica la contrattazione che è il cuore del sistema italiano nell’ambito della concertazione sindacale. “E opportuno non scardinare la contrattazione, secondo il Presidente di Confindustria Bonomi, ma potenziarla, affidandole il compito di determinare il valore economico di mercato dei mestieri nei diversi settori produttivi”. Il salario minimo potrebbe invece costituire un paracadute per quei lavoratori, quasi un milione, non coperti dai contratti, in particolare nel settore agricolo, turistico e domestico. Secondo una ricerca di Adapt del Centro Studi Marco Biagi dell’Università di Modena, “esiste un mondo sommerso di contratti pirata gestiti da organizzazioni sindacali non rappresentative”, per rapporti di lavoro precari sottoscritti fuori da ogni logica salariale.

Per alzare le retribuzioni il taglio del cuneo fiscale resta la strada maestra. Ridurre il gap tra salario e costo del lavoro. Su 300 miliardi di salari lordi pagati ogni anno nel settore privato, 100 vanno ai contributi previdenziali e 80 per l’Irpef. In totale il 60% a carico di imprese e lavoratori. A tanto ammonta la differenza tra il costo complessivo del lavoro e quanto arriva nelle buste paga dei lavoratori italiani. Abbattere il cuneo fiscale puntando sulla produttività per reperire le risorse e aumentare le paghe nette di chi lavora. Non si può andare avanti a colpi di bonus, serve qualcosa di strutturale. Il taglio del cuneo supportato da una riforma fiscale in grado di ridurre la pressione sui redditi di lavoro, colpendo le altre componenti del reddito, potrebbe dare una svolta alla curva dei salari in Italia. La politica dei redditi attende da anni risposte che non arrivano.

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Miriam Ballerini a Fagnano Olona (VA)