01 novembre 2021

Gesualdo Bufalino – Diceria dell’untore – a cura di Marcello Sgarbi

 


Gesualdo Bufalino – Diceria dell’untore – (Edizioni Sellerio)

Collana: La rosa dei venti n. 3 Pagine: 224

EAN: 97888389224019 Fuori catalogo

Cercando paragoni o rimandi letterari al virus che ormai da quasi due anni ci affligge, vanno giustamente citati il “Decamerone” di Boccaccio o “I promessi sposi” del Manzoni, ambientati durante due epidemie di peste. Oppure Albert Camus, che proprio in “La peste” trattava il morbo con una spaventosa aderenza alla realtà attuale. E in tempi più recenti, il Saramàgo di “Cecità” che ha forti attinenze con il nostro vissuto quotidiano o “L’ombra dello scorpione” di Stephen King, che ne ha ancora di più. Ma prima del Covid-19 – e prima della terribile “spagnola” del 1918 – si moriva di tubercolosi, il cosiddetto “mal sottile”. Ed è dall’esperienza autobiografica dell’autore con questo virus batterico a “la Rocca”, un sanatorio siciliano dove l’Io narrante racconta della sua esistenza in costante bilico, che nasce “Diceria dell’untore”. Pubblicato solo grazie alle insistenze di Elvira Sellerio – lungimirante editrice - il romanzo è ambientato nel 1946 e ha quasi l’atmosfera di un noir. Condotto da Gesualdo Bufalino con una scrittura sapiente e una cifra stilistica assolutamente unica, vede svettare insieme al protagonista almeno altri tre personaggi memorabili: il “Gran Magro”, mefistofelico e alcolizzato primario del sanatorio; padre Vittorio, interlocutore di Bufalino sui dubbi e sulle ragioni intorno alla fede e l’eterea ballerina Marta, con cui l’autore intesse un amore senza futuro. Un apprendistato di morte da cui nessuno (o quasi) scampa, ma che insegna a tutti il valore della vita.

Il peccato: inventato dagli uomini per meritare la pena di vivere, per non essere castigati

senza perché.

Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente

di lena e di sangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, immortali…

Non mancava molto ormai: già erano scomparse l'incredulità e la vergogna dei primi tempi,

quando ogni fibra è persuasa ancora d'essere immortale e si rifiuta di disimpararlo.


© Marcello Sgarbi


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