02 ottobre 2021

L’EREDITA’ POLITICA DIFFICILE DI ANGELA MERKEL Di Antonio Laurenzano

 


L’EREDITA’ POLITICA DIFFICILE DI ANGELA MERKEL Di Antonio Laurenzano

Con il rinnovo del Bundestag, Angela Merkel, “la ragazza venuta dall’Est”, si avvia a uscire di scena. Si chiude un’era. Una storia politica da manuale, una statista di grande capacità che, in sedici anni di cancellierato, ha saputo attraversare tempi difficili, impersonando per la Germania la rinascita della nazione dopo la caduta del muro di Berlino e per l’Unione europea una preziosa bussola di riferimento.

Dopo un’infanzia trascorsa nella Ddr, figlia di un pastore luterano, laurea in fisica a Lipsia, Angela Dorothea Kasner, alle prime elezioni post riunificazione nel dicembre 1990, a soli 36 anni, si guadagna un posto al Bundestag. E’ l’inizio di una travolgente ascesa politica. Nel 1994, su designazione del potente cancelliere Helmut Kohl, è nominata ministro per la Famiglia e poi dell’Ambiente, nel 1998, a seguito degli scandali finanziari e della sconfitta elettorale di Kohl di fronte all’avanzata della Spd di Gerhard Schroder, assume la presidenza della Cdu. Nel novembre 2005 il grande salto: sfida e vince, anche se di misura, il cancelliere uscente Schroder, ripristinando quella “Grosse Koalition” , che la Germania Federale aveva già sperimentato negli anni Sessanta, per garantire la stabilità istituzionale in una fase politica di grandi crisi e di profonde trasformazioni sociali ed economiche. Inizia una esaltante stagione politica e con essa la trasformazione dell’ambiziosa ragazzina dell’Est: diventa “Mutti”, la madre severa ma rassicurante, silenziosa sovrana, quasi invisibile nelle sue mise scialbe e anonime, che “sotto la scorza mite e accomodante è fatta dello stesso acciaio con cui i Krupp fabbricavano cannoni e locomotive per tutti gli imperi d’Europa”. Ne fanno le spese gli alleati di governo. Prima la Spd, che crolla alle elezioni del 2009, quindi i liberali, che collassano nel 2013. Da qui il poco invidiabile soprannome guadagnato sul campo di “Schwarze Witve” (Vedova nera).

Conservatrice con l’aria di sembrare progressista, Angela Merkel ha navigato con perizia per quattro mandati. Precisi i segni caratteristici della sua politica, prudente e riflessiva: abilità nel compromesso, tenacia nelle battaglie, capacità di manipolare l’agenda dei suoi interlocutori (alleati, avversari, leader stranieri). Ha affrontato non poche bufere politiche, dall’emergenza profughi all’ambiente, dai rapporti con Cina e Russia agli estremismi di destra. Senza ignorare le trattative sul nucleare iraniano, i discussi accordi fra Ue e Turchia, l’autorevole contributo al Recovery Fund per salvare l’Europa devastata dal Covid. Il suo cancellierato ha coinciso con un riposizionamento della Germania sul piano internazionale con un ruolo ancora più forte e consapevole.

La leadership di Angela Merkel ha così contrassegnato un’epoca politica da rendere la sua eredità piena di incognite. Lascia una Germania che sta vivendo il suo secondo miracolo economico, molto diversa da quella avuta in consegna nel 2005 dal suo predecessore, considerata “il malato d’Europa”. Nonostante la pandemia, oggi la disoccupazione è la metà di quella di sedici anni fa, il pil pro-capite è cresciuto due volte più velocemente di quello inglese, francese o giapponese. Importante l’azione svolta da Angela Merkel anche per l’Europa. Ha salvato il Trattato costituzionale sottoscritto a Roma nell’ottobre 2004 dai capi di Stato o di governo dei 25 Paesi dell’Ue, bocciato dagli elettori francesi e olandesi, trasferendone una buona parte nel Trattato di Lisbona. Ha garantito la copertura politica del “whatever it takes” dell’allora presidente della Bce Mario Draghi, per contrastare la speculazione contro l’euro, evitando il collasso finanziario di alcuni Paesi fortemente indebitati, fra cui l’Italia. Un forte europeismo non disgiunto da un convinto multilateralismo.

Tante luci, ma anche alcune ombre nel lungo cancellierato di Angela Merkel. Non promuove riforme significative dell’economia tedesca, beneficiando di quelle introdotte da Schroeder attraverso i quattro Piani Hartz, limitandosi a consolidarle. In realtà, il Paese, secondo i suoi avversari politici, avrebbe avuto bisogno di liberalizzazioni nel campo dei servizi, dai trasporti alla distribuzione, dalle assicurazioni al settore bancario ancora fragile a causa della sua frammentazione e del rapporto stretto di alcuni istituti di credito con la politica. Sotto accusa per la protezione data, in particolare, all’industria dell’auto in assenza di una sufficiente capacità innovativa e per la pagina nera scritta per il tardivo salvataggio della Grecia, nella prima metà del decennio scorso, giunto quando il fallimento finanziario di Atene avrebbe messo in grosse difficoltà le banche tedesche (oltre francesi e olandesi) che avevano prestato fondi in maniera eccessiva (e speculativa). “Molto cinismo, con l’ossessione di fare gli interessi commerciali e geoeconomici del suo Paese, anche rispetto alla promozione della solidarietà tra europei”, nel severo giudizio del Financial Times.

Lascia un’eredità politica difficile in una Germania con una inedita coalizione di governo da formare e in un’Europa che resta intergovernativa senza una bussola, con il rischio di un ritorno all’austerità con gli eredi della “ragazza dell’Est”. Un’altra storia.

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