10 giugno 2021

“IL SILENZIO DI MIO PADRE” Una raccolta di racconti a sfondo autobiografico intensa ed esclusiva di Sergio Melchiorre a cura di Vincenzo Capodiferro

 


IL SILENZIO DI MIO PADRE”

Una raccolta di racconti a sfondo autobiografico intensa ed esclusiva di Sergio Melchiorre


Il silenzio di mio padre” è un testo di Sergio Melchiorre, pubblicato da Youcanprint a gennaio del 2021. Raccoglie una serie di racconti ambientati nei luoghi del cuore, a Gessopalena, in provincia di Chieti. Sergio è figlio di un partigiano, attivo nella “brigata Majella”, Aronne Angelo Melchiorre, morto il 26 gennaio 1974, quando il ragazzo era un giovane adolescente. Questo libro è incentrato sulla figura paterna: «l’uomo, il minatore, il padre, il partigiano». Le espressioni narrative, che fuoriescono da erlebnis, sono ambientate ad “Amardolce”, “paese dove parlano pure le pietre”. «Quel microcosmo racchiuso tra la Maiella e Pallano ed ancora di più Via del Popolo, Lu Viche de Mezze per i gessani, sono il palcoscenico dove si muovono le comparse che animano il libro,» - scrive Aldo Pellicciotta nella Prefazione - «recitando, loro malgrado, il canovaccio improvvisato di una vita vera e sofferta. Costretti da un triste destino a nascere su quel masso di gesso, così bello, nelle calde notti d’agosto, quando la luna, riflettendo i suoi raggi sugli specchietti colorati del minerale fa brillare mille stelle rilucenti…». Il contesto dove fioriscono questi fiori narrativi è Gessopalena, ma ogni rosa sorge tra spine: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…». Sottolineiamo alcuni concetti: triste destino. È il fatalismo cieco, schopenhaueriano, verghiano dei vinti irredenti. Almeno i vinti manzoniani potevano sperare nella Provvidenza. I protagonisti sono i vinti, gli ultimi, che … saranno i primi. E poi quell’immagine delle stelle lucenti in un paesaggio da Betlemme ci ricorda naturalmente il “X Agosto” di Giovanni Pascoli, il pianto delle stelle, l’«atomo opaco del male». Anche Sergio canta, da orfano, la morte del padre, il silenzio. Il padre partigiano ha vissuto il dramma della guerra, del dolore, è abituato ai silenzi, medita sulle ferite, non solo corporee, ma quelle che intaccano l’anima, le cui cicatrici sono indelebili. Loredana Vigani sottolinea questo silenzio nell’Introduzione: «Gesù pregava nel deserto, Lao-Tze sulle montagne della Cina, Gandhi e Madre Teresa di Calcutta ne hanno sottolineato la virtù». Il silenzio è la forma più alta di espressione. Scriveva Euripide: «Gridi chi ha voce più forte del silenzio!». Ecco come ci descrive Sergio il padre: «Mio padre comunicava attraverso il silenzio, i suoi occhi parlavano il linguaggio delle emozioni che le sue labbra non riuscivano a proferire». Inutile commentare che esiste il linguaggio non verbale, che è più profondo, più esteso del linguaggio verbale. Le faccine darwiniane, tanto imitate nei nostri cellulari, esprimono la grammatica di una lingua universale, che ci accomuna a tutti gli esseri viventi, a tutti gli animali. Il linguaggio del silenzio ci riavvicina alla comunicazione dell’universo immenso, ci getta nel mondo dell’intuizione pura, della comprensione che avvolge non solo l’io superficiale, di bergsoniana memoria, ma anche, altresì, l’io profondo. È una comunicazione totale. L’uomo è un ente comunicante per natura. La sua politicità, espressa nel primo principio della Politica vera, quella di Aristotele, implica necessariamente la comunicabilità. Spesso questa comunicabilità si incrina e procede, oltre la dialettica, la logica dialettica, la dialettica hegeliana, verso una guerra. Il senso profondo allora diviene: come comunicare con un nemico che ha perso oramai l’anima? Il nazista, colui che uccide col gas nei lager, colui che ammazza i civili, come nella strage di Sant’Agata, il 21 gennaio del 1944? C’è una differenza forte tra il silenzio comunicante di un Angelo, come il padre di Sergio, e quella oramai di un mostro, la cui coscienza è affogata nel male. Con ciò non si vuole demonizzare, né generalizzare. Inutile rinvangare la “banalità del male”! Il padre e la madre sono personaggi portanti della collezione dei racconti, alcuni di quali già premiati, come “Il cacciatore di mosche”, primo posto al Premio Internazionale di Letteratura «Per troppa vita che ho nel sangue – Antonia Pozza», 3 giugno 2017; come “Volpe argentata”, Premio speciale della giuria alla XXXI edizione «Città di Pinerolo»; come “Mio padre, uomo taciturno ed introverso”, terzo posto al concorso «Alla scoperta della Resistenza», Varzi, Pavia 2017. Poterli commentare tutti richiederebbe molto spazio. Ci soffermiamo ancora un po’ sulla figura della madre: «Mia madre, Elena Maria, detta Minervina, mamma di nove figli e moglie di Aronne, Angelo, combattente partigiano della “Brigata Majella”, ha passato gli ultimi anni della sua tormentata esistenza, lavorando all’uncinetto…». «La pensione francese tardava ad arrivare, sebbene mio padre avesse lavorato in Francia, per un periodo di tempo molto lungo…». Questa grande donna ha mantenuto i figli lavorando all’uncinetto. Quanti sacrifici! E lo ricorda al suo amato figlio: «Sergio, ho fatto cento coperte a mano ed è grazie a loro se ho potuto permettermi di farti laureare». Periodi tristi! Di ristrettezze che tutti abbiamo passato! Ho voluto riportare una nota, molto forte, che rimarca quella finzione in cui spesso ci troviamo immersi. Qui è il giovane Sergio che subito capisce, e ci riporta con vivo fervore: «… vivevamo ad Amardolce con molte persone che ci amavano, ma che fingevano, forse inconsapevolmente, o per falsa discrezione, di ignorare il nostro disagio finanziario…». Amara realtà! È stato sempre così. Un ultimo pensiero va naturalmente alla Resistenza, di cui Aronne Angelo è stato uno dei protagonisti, insieme alla leggendaria figura del capitan Troilo che Sergio rievoca. La Resistenza comincia col delitto Matteotti, il 12 giugno del 1924, con la secessione aventiniana e finisce il 25 aprile del 1945 con l’annientamento definitivo dei nazifascisti, anche se i fascisti continuarono a governare in Italia, laddove non c’è mai stato un processo, un Norimberga, ma laddove col decreto spugna di Togliatti, i podestà continuarono tranquillamente a fare i sindaci per decenni, cambiando casacca. Fu resistenza morale e culturale, fu resistenza degli esuli, fu resistenza armata. Come scrisse Alessandro Galante Garrone: «Essa ha inciso ben più nel profondo che le guerre del Risorgimento…, essa non fu un nuovo Risorgimento, un ritorno alle nostre guerre di indipendenza, come pur retoricamente si sente dire, essa anzi fu proprio quel che nel nostro Risorgimento mai si effettuò, la guerra “alla spagnola”, invano sognata dal Balbo fin dal 1821, la guerra di insurrezione per bande del piemontese Carlo Bianco, e che Giuseppe Mazzini vaticinava nel 1833 sulle colonne della “Giovine Italia”, proprio come la guerra sacra al popolo. Il fatto nuovo, miracoloso, che per la prima volta si produsse nella nostra storia, fu appunto questo: che il popolo non trascinato da una dinastia o da un esercito, o da un governo legittimo, spontaneamente scese a combattere per la sua libertà. Ciò che dà significato politico alla guerra partigiana è proprio questo carattere di spontaneità popolare…». Se il Risorgimento, come scriveva Gramsci fu rivoluzione passiva, la Resistenza fu rivoluzione attiva. Se i reduci del ’18 reclamavano il Risorgimento degli irredentisti, e Benito Mussolini ancorché si credeva un risorgimentale, i partigiani reclamarono ancor più il Risorgimento degli irredenti. Il Risorgimento si conclude con la Resistenza.

Sergio Melchiorre è nato a Le Creusot, in Francia, il 3 marzo del 1956. Si è laureato in Lingue a Bologna ed oggi insegna a Luino, in Provincia di Varese. Scrive poesie, romanzi ed è sceneggiatore. Ha pubblicato, tra l’altro, “Uno di noi” nel 1993 ed ha ricevuto molteplici premi e riconoscimenti della sua attività letteraria. La sua ultima raccolta di versi è “Occhi autunnali”, Lecce 2018.

(c) Vincenzo Capodiferro

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