19 aprile 2021

LA VITA PRETENDE DIGNITÀ Un romanzo ‘neoverista’ di Gianfranco Galante a cura di Vincenzo Capodiferro

 


LA VITA PRETENDE DIGNITÀ

Un romanzo ‘neoverista’ di Gianfranco Galante


Gianfranco Galante nasce a Varese nel 1964. Vive per un breve periodo in Sicilia, quella Sicilia che lascerà nel suo animo un profondo ed indelebile solco, per poi tornare a Varese nel 1972. Già dall’adolescenza ha la passione dello scrivere. Ricordiamo tra le sue raccolte poetiche più recenti: “Paesaggi d’estate” (2018); “Emozioni in bilico” (2018); “Il pensiero soffia ancora” (2019). Tra le opere di narrativa: “Volevo raccontare una storia” (2020). “La vita pretende dignità” è un suo romanzo appena edito da Macchione, a Varese. «La vita racconta. racconta, la vita sé stessa; racconta a noi e spiega, racconta noi stessi agli altri, insegna, guida, offre opportunità e sfide; la vita apprende. La vita è; ed in quanto tale è luce non tenebra…». Gianfranco si ispira direttamente al sussurrare degli eventi. Egli stesso si richiama al principio giovanneo: In principio era il Verbo. Il Verbo, il Logos è una rappresentazione del reale. “La vita pretende dignità” è un romanzo neo-verista, che affonda le sue radici in quella sicilianità, tanto cara al Verga ed al Capuana. È un intreccio di storie che si ispirano alla nuda e cruda realtà: quella di Rosario, detto Sasà, un giovane siculo emigrato, quella di Laka, una ragazza peruviana immigrata. Qualcuna di queste storie ha un finale tragico, qualche altra comico, cioè finisce nel classico “e vissero felici e contenti”. Badate bene: cambia solo il finale. Tragedia e commedia hanno in comune il dramma. Questo dramma esistenziale che Gianfranco astrae dalla realtà in questo romanzo ha un comune denominatore: l’emigrazione. Il suo vociare, l’espressione narrativa, nascono in fondo dal suo vissuto da emigrato. Vero è che Gianfranco è nato a Varese, come tanti naturalizzati, ma la voce della terra più non muore, risorge dal sangue, dall’appartenenza. Quello che Hegel chiamava lo Spirito del Popolo è presente in ognuno di noi, non ci possiamo far nulla. In Argentina, meta di tanti nostri afflussi demografici, tanto da farla diventare l’Alter Ego della patria, l’Altra Italia, si era creata una lingua mista, italo-americana, particolarissima: un’entità singolarissima di connubio tra genti diverse, ma accomunate dall’anelito al progresso, alla liberazione. L’emigrazione era vista ed è vista, come liberazione. Emigrazione ed immigrazione vanno intese pertanto sotto questo comune senso. Così possiamo capire bene il sottile filo conduttore che lega le vicende del romanzo di Gianfranco. Quella pretesa della dignità, tra l’altro ha un duplice valore: negativo nel primo caso, in quanto si presenta come denuncia sociale della mala vita, non ‘malavita’, cioè nel senso di vita cattiva di Sasà, e positivo nel secondo, in quanto premio, per le sofferenze di Laka. La vita premia o castiga in base a come ciascuno la prende e si comporta. Potremmo dire, come i filosofi: la virtù è premio a se stessa, il vizio è castigo a se stesso. C’è una “lettera breve” a principio del romanzo, una lettera immaginaria scritta da un ‘ex’ alla sua amata, che comincia così: «Avrei dovuto chiederti perdono un milione di volte, ma son riuscito a chiederti perdono solo mille volte, in mille modi diversi, cercando quello giusto; mi aspettavo almeno qualche volta di essere compreso…». Come non ci ricorda il Montale? Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/ e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Con la differenza che qui non viene riflessa l’immagine, seppure sbiadita, di una donna-angelo, ma riportato il vuoto cosmico dell’abbandono famigliare, dello sfacelo sociale, morale del “nido” pascoliano, di un modello atavico, ora considerato arcaico, quasi come dire ‘superato’, ma per che cosa? Da una baumaniana liquidità onni-annegante, cioè negante la dignità, quella dignità che aveva riportato l’uomo dalla bestialità alla pietà: Dal dì che nozze e tribunali ed are/ Dier alle umane belve esser pietose. In questo abisso baumaniano si riscontra il naufragio dell’umanità: E il naufragar m'è dolce in questo mare. Di questo romanzo ha scritto saggiamente Enea Biumi: «È la vita che assurge a protagonista e, filosoficamente, si pone come specimen di questo nuovo e interessante scritto dell’autore Gianfranco Galante.
Un inno alla vita, dunque, che non prescinde dalle persone. Anzi. Le mette in primo piano come protagonisti di un mondo e di un modo di essere imprescindibilmente rispettosi: di sé stessi e degli altri. Didascalicamente si potrebbe parlare di un saggio…». E Pietro Macchione: «Una sorprendente prova narrativa, che conduce il lettore nei meandri più oscuri dell’animo umano, dove si annida la violenza verso se stessi e gli altri, ma dove nasce anche la dignità…».



Vincenzo Capodiferro

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