LA VITA PRETENDE DIGNITÀ Un romanzo ‘neoverista’ di Gianfranco Galante a cura di Vincenzo Capodiferro
LA VITA PRETENDE DIGNITÀ
Un romanzo ‘neoverista’ di Gianfranco Galante
Gianfranco
Galante nasce a Varese nel 1964. Vive per un breve periodo in
Sicilia, quella Sicilia che lascerà nel suo animo un profondo ed
indelebile solco, per poi tornare a Varese nel 1972. Già
dall’adolescenza ha la passione dello scrivere. Ricordiamo tra le
sue raccolte poetiche più recenti: “Paesaggi d’estate” (2018);
“Emozioni in bilico” (2018); “Il pensiero soffia ancora”
(2019). Tra le opere di narrativa: “Volevo raccontare una storia”
(2020). “La vita pretende dignità” è un suo romanzo appena
edito da Macchione, a Varese. «La vita racconta. racconta, la vita
sé stessa; racconta a noi e spiega, racconta noi stessi agli altri,
insegna, guida, offre opportunità e sfide; la vita apprende. La vita
è; ed in quanto tale è luce non tenebra…». Gianfranco si ispira
direttamente al sussurrare degli eventi. Egli stesso si richiama al
principio giovanneo: In
principio era il Verbo.
Il Verbo, il Logos è una rappresentazione del reale. “La vita
pretende dignità” è un romanzo neo-verista, che affonda le sue
radici in quella sicilianità, tanto cara al Verga ed al Capuana. È
un intreccio di storie che si ispirano alla nuda e cruda realtà:
quella di Rosario, detto Sasà, un giovane siculo emigrato, quella di
Laka, una ragazza peruviana immigrata. Qualcuna di queste storie ha
un finale tragico, qualche altra comico, cioè finisce nel classico
“e vissero felici e contenti”. Badate bene: cambia solo il
finale. Tragedia e commedia hanno in comune il dramma. Questo dramma
esistenziale che Gianfranco astrae dalla realtà in questo romanzo ha
un comune denominatore: l’emigrazione. Il suo vociare,
l’espressione narrativa, nascono in fondo dal suo vissuto da
emigrato. Vero è che Gianfranco è nato a Varese, come tanti
naturalizzati, ma la voce della terra più non muore, risorge dal
sangue, dall’appartenenza. Quello che Hegel chiamava lo Spirito
del Popolo
è presente in ognuno di noi, non ci possiamo far nulla. In
Argentina, meta di tanti nostri afflussi demografici, tanto da farla
diventare l’Alter Ego della patria, l’Altra Italia, si era creata
una lingua mista, italo-americana, particolarissima: un’entità
singolarissima di connubio tra genti diverse, ma accomunate
dall’anelito al progresso, alla liberazione. L’emigrazione era
vista ed è vista, come liberazione. Emigrazione ed immigrazione
vanno intese pertanto sotto questo comune senso. Così possiamo
capire bene il sottile filo conduttore che lega le vicende del
romanzo di Gianfranco. Quella pretesa della dignità, tra l’altro
ha un duplice valore: negativo nel primo caso, in quanto si presenta
come denuncia sociale della mala vita, non ‘malavita’, cioè nel
senso di vita cattiva di Sasà, e positivo nel secondo, in quanto
premio, per le sofferenze di Laka. La vita premia o castiga in base a
come ciascuno la prende e si comporta. Potremmo dire, come i
filosofi: la virtù è premio a se stessa, il vizio è castigo a se
stesso. C’è una “lettera breve” a principio del romanzo, una
lettera immaginaria scritta da un ‘ex’ alla sua amata, che
comincia così: «Avrei dovuto chiederti perdono un milione di volte,
ma son riuscito a chiederti perdono solo mille volte, in mille modi
diversi, cercando quello giusto; mi aspettavo almeno qualche volta di
essere compreso…». Come non ci ricorda il Montale? Ho
sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/ e ora che non
ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Con la differenza che qui non viene riflessa l’immagine, seppure
sbiadita, di una donna-angelo, ma riportato il vuoto cosmico
dell’abbandono famigliare, dello sfacelo sociale, morale del “nido”
pascoliano, di un modello atavico, ora considerato arcaico, quasi
come dire ‘superato’, ma per che cosa? Da una baumaniana
liquidità onni-annegante, cioè negante la dignità, quella dignità
che aveva riportato l’uomo dalla bestialità alla pietà:
Dal dì che nozze e tribunali ed are/
Dier alle umane
belve esser
pietose.
In questo abisso baumaniano si riscontra il naufragio dell’umanità:
E
il naufragar m'è dolce in questo mare.
Di questo romanzo ha scritto saggiamente Enea Biumi: «È la vita che
assurge a protagonista e, filosoficamente, si pone come specimen di
questo nuovo e interessante scritto dell’autore Gianfranco
Galante.
Un inno alla vita, dunque, che non prescinde dalle
persone. Anzi. Le mette in primo piano come protagonisti di un mondo
e di un modo di essere imprescindibilmente rispettosi: di sé stessi
e degli altri. Didascalicamente si potrebbe parlare di un saggio…».
E Pietro Macchione: «Una sorprendente prova narrativa, che conduce
il lettore nei meandri più oscuri dell’animo umano, dove si annida
la violenza verso se stessi e gli altri, ma dove nasce anche la
dignità…».
Vincenzo Capodiferro
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