01 marzo 2021

ALCUNI MODELLI PEDAGOGICI Appunti... A cura di V. Capodiferro

 


ALCUNI MODELLI PEDAGOGICI

Appunti... A cura di V. Capodiferro


L’aula è una stanza in cui si svolgono attività didattiche e/o di apprendimento, ma la stanza è solo il locus formale. La stanza esteriore deve rimandare a quella interiore, la propria aula, dove c’è, come diceva il grande Agostino, il Maestro interiore. Noli exire … Dentro di noi abita la Verità. In omaggio a questo socratismo io credo che il ruolo del docente in aula sia proprio una socratica maieutica: aiutare il giovane a far partorire la verità da dentro di sé. Sempre vero è l’antico principio del Conosci te stesso. I giovani apprendono ad apprendere e noi che abbiamo studiato tanto pedagoghi e pedagogie, non mettiamo in pratica neppure un minimo di questa grande scienza. Anche il docente diventa un allievo e l’allievo un docente, perché, come avrebbe confermato anche Hegel, tra docente e allievo c’è dialettica ed in questa dialettica c’è inversione, come nel servo-padrone. Così c’è la dialettica del dicente-docente. Il docente è in funzione della classe e la classe in funzione del docente, non esistono l’uno senza l’altro. L’aula è vuota senza una classe, ma la classe dice ancora classismo, come la fascia dei crediti, se pur necessaria, dice “fascismo” pedagogico. L’aula allora deve essere un luogo aperto, senza classi e senza fasce, un luogo dove l’allievo, pur tra solidi muri deve poter andare oltre. Sia ben chiaro: tutto è necessario, ora la verifica, ora la classificazione, ora la valutazione dei crediti, ora le regole, i principi, però non si deve mai perdere di vista l’uomo. C’è sempre l’uomo dietro tutto ciò, altrimenti noi docenti potremmo considerarci già dei falliti, se avessimo riposto tutte le nostre funzioni nel semplice spiegare e valutare. Davanti ai nostri occhi noi abbiamo sempre dei cervelli pensanti, non sono delle macchine! Davanti a noi abbiamo i banchi: piccole cattedre!

Modelli pedagogici

Ho ritenuto riportare almeno quattro modelli pedagogici cui mi sono ispirato nei pochi anni di esperienza di insegnamento.

J.J. Rousseau

Rousseau ci propone, una pedagogia fondata sul principio che “l’uomo è naturalmente buono” ed è la società che lo corrompe. L’Emilio è un saggio di teoria pedagogica, quando la pedagogia ancora non esisteva come branca autonoma del sapere, ma ricco di spunti ed indicazioni concrete tanto da sembrare ancora oggi una specie di “manuale pedagogico”. La base di partenza è quella dell’antropologia di Rousseau: «Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo». Ma subito aggiunge: «L’educazione è un’arte, è quasi impossibile che riesca […] tutto ciò che si può fare a forza di cure è di avvicinarsi più o meno allo scopo, ma per raggiungerlo bisogna essere fortunati». Egli ha quindi consapevolezza della relatività e fallibilità del processo educativo. Benché abbia in mente un modello ideale, conosce bene le difficoltà pratiche dell’educazione. In ogni caso, la linea guida dell’educazione in Rousseau è l’aderenza alla Natura, in questo caso dell’uomo, ben sapendo che al punto in cui siamo, non possiamo fare a meno dell’educazione. Rousseau ha ben chiara la funzione dell’educazione nella formazione dell’uomo: «Tutto ciò che abbiamo alla nascita e di cui abbiamo bisogno da grandi, ci è dato dall’educazione e questa educazione ci viene dalla Natura, o dagli uomini o dalle cose». E ben comprende, modernamente, che essa è il risultato dell’interazione di più fattori: «Quella della natura non dipende da noi, quella delle cose dipende da noi solo sotto certi aspetti. Quella degli uomini è la sola di cui siamo padroni».

Da Rousseau ho potuto apprendere che l’educazione deve essere fondata sulla libertà e sull’amore.


Makarenko A.

Il “Poema pedagogico” rappresenta universalmente il “poema” dell’illimitata fiducia nell’educabilità umana, della responsabilità personale, della formazione e della vita del collettivo, attraverso il contributo di ogni singolo individuo, della fertilità del nesso studio-lavoro, dell’“uomo nuovo” e delle “prospettive”. L’ottimismo makarenkiano si traduce nella fede che possiede colui che vuole modificare la realtà e lottare per un futuro migliore. Gli uomini devono però porsi delle prospettive. L’educazione alle prospettive avviene con l’applicazione del principio già enunciato: “avanzare il più possibile richieste all’uomo e il più possibile avere rispetto per lui”. Le richieste sono un segno di fiducia verso i ragazzi, che si liberano nell’attività pratica e mentale delle loro precedenti condizioni d’inferiorità e subalternità, dandosi delle nuove prospettive da raggiungere, assaporando la gioia della conquista. Il sistema makarenkiano è risultato potentemente efficace in tutte le realtà educative. Attraverso l’applicazione, in ambito familiare, del sistema delle “linee prospettiche”, il maestro sprona i genitori a guardare e traguardare la prospettiva sociale, lo scopo sociale: “Non state educando i figli   soltanto per la vostra gioia di genitori (…) su di loro ricade la responsabilità morale dello sviluppo del futuro cittadino. (…) La vostra attività nella società e nel lavoro deve riflettersi anche nella famiglia; la vostra famiglia deve mostrare il proprio volto politico e civile, e non separarlo dal volto di genitore”.

Da Makarenko ho potuto apprendere l’importanza del collettivo e del sociale rispetto all’individuale.

Tolstoj L.

Nella scuola Tolstojana si possono già notare degli elementi di una scuola senza classi a pianta aperta (o con l’apertura dei locali destinati alle aule) con l’insegnamento e l’attività di ricerca e di preparazione ad esso connessa discussa in gruppo. Sono del tutto assenti le figure dei principianti, non ci sono classi o gruppi fissi per età e livello di preparazione, ma solo due suddivisioni di massima e gruppi flessibili che si formano e si sciolgono in funzione dell’attività svolta. Non ci sono programmi o lezioni prefissate, ma delle esperienze vissute in comune sollecitate dai maestri ma misurate correttamente in base a razioni e apporti degli alunni. Non ci sono schemi didattici prescritti con la sola preoccupazione di renderli familiari a chi insegna, ma la continua stimolazione ad un lavoro di tipo culturale e la predisposizione di materiali e situazioni perché si possa compiere.

Non ci sono orari vincolanti né viene data importanza all’ora di inizio o di fine della giornata scolastica ne rispetto alla sua articolazione in lezioni dedicate a specifiche discipline. Una scuola dunque che descolarizzata cioè sottratta dalla logica dell’istituzione chiusa e predeterminata nei suoi obiettivi e nella sua metodologia di funzionamento. Tolstoj vede la scuola anche come laboratorio per l’insegnante anticipando così un discorso che verrà riproposto da Dewey e la sua ricerca scolastica è volta a raggiungere un rapporto con gli alunni più alla pari possibile che possa valorizzare tutti i contributi provenienti sia da adulti che dai giovani alla vita comune.

Di Tolstoj ho potuto apprendere la genuinità, lo spontaneismo e la fiducia.

Don Lorenzo Milani

«Alla scuola di Barbiana noi, figli di montanari, trovavamo la nostra identità e gli strumenti che ci rendevano capaci di esprimere la nostra cultura. Eravamo protagonisti attivi (Self help e tutoraggio).

In tale intelaiatura, l'educatore si trasformava da trasmettitore delle conoscenze in costruttore di schemi logici e di contesti flessibili, un intreccio d’idee e di fatti idonei a produrre apprendimento. Il nostro maestro, privilegiando l’approccio globale, non rispetterà gli orari o la progressione lineare delle singole discipline, non disgiungerà mai la cultura umanistica da quella scientifica. Quando il professor Agostino Ammannati veniva a trovarci il priore gli cedeva volentieri il posto per insegnare I Promessi Sposi e La Divina Commedia, dimostrando umiltà e rispetto per le singole competenze…

A Barbiana che era un vero e proprio centro editoriale, il tempo e il luogo della fruizione dello strumento didattico coincidevano con il momento e il luogo della produzione. Gli strumenti che mancavano si potevano inventare come racconta lui stesso in una lettera: “Abbiamo fatto fare un microfilm della partitura dell’allegretto della VII (Sinfonia di Ludwig van Beethoven) e lo proiettiamo sullo schermo nel tempo che gira il disco. S’è fatto e rifatto tante volte quanto è bastato al più duro dei ragazzi a imparare a seguirla tutta colla canna voce per voce. Insomma una soddisfazione immensa …” …

Andiamo per gradi e vediamo come da un dettaglio, un articolo di giornale, sia stato possibile produrre la Lettera ai giudici. In questo caso non c’è stato un vero e proprio uso del Notes e dei fogliolini. Non c’è stato il tempo per una vera e propria Scrittura collettiva. Eppure la stesura di questa lettera rappresenta il periodo più ricco della scuola…

Riassumo sinteticamente le fasi dell'itinerario di quella regia e lavoro di gruppo il cui input fu dato dall'articolo della Nazione, che mi pare fosse stato portato dall’Ammannati e da Ferrero Facchini, amici cari a Lorenzo. Siamo nel ’65. Tutti i pomeriggi, subito dopo mangiato, leggevamo la corrispondenza e il giornale. In quell’occasione il comunicato dei cappellani fu messo in evidenza. Tutta la rete di relazioni che ruotava attorno alla Comunità di Barbiana fu mobilitata. Il Priore scrive quasi di getto la Lettera ai Cappellani Militari. Lo scritto letto e riletto è sottoposto a revisione. Molte sono le matrici battute a macchina dai ragazzi e ciclostilate mentre la forbice e la colla scomponevano e ricomponevano i paragrafi cercando logiche d’aggregazione dei contenuti. Nascevano i capitoli che si collocavano su di uno schema che cambiava continuamente. Giuristi come Gianpaolo Meucci furono costretti a riflettere ignorando il rischio. Bisognava cercare verità oggettive. La legge doveva cambiare. La lettera viene incriminata».

[Da E. MARTINELLI, Pedagogia dell’aderenza, S. Editrice Fiorentina, Firenze 1999, pp. 67 sgg.]

Da Don Milani ho potuto apprendere il coraggio e la discutibilità dei sistemi pedagogici opprimenti e chiusi.

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