02 ottobre 2020

L'ATTESA a cura di Roberto Bertazzoni

 


L'ATTESA

È una condizione umana imposta dalla vita, dal tempo e dal naturale svolgersi delle cose. Sempre si attende qualcosa: un treno, un appuntamento, una telefonata, l'estate, un ritorno, un lavoro, l'ultimo dell'anno, l'amore, un compleanno, una nascita o una rinascita. Sempre.                                                                                                                                                       

Si potrebbe continuare, ma si arriverebbe comunque alla conclusione che questo spazio vuoto, che è l'attesa, si ripete infinite volte nel corso della vita, ed è presente nella quotidianità di ognuno di noi.

E qui in carcere? Ancora di più.

È una dimensione amplificata e, a volte, quasi insostenibile. Perché? Perché tutto, qui, è drasticamente lento.

Ad iniziare dal tempo che assume una diversa elasticità, secondo le capacità intellettive, emozionali, fisiche, della persona.

Ad esempio: per chi non fa nulla, è interminabile.

Aspettare procura disagio, questo è innegabile, soprattutto quando l'attesa diventa improduttiva, passiva, appunto, disagiante.

E qui già si vive nel disagio. Lo stesso che si prova per la nostra stessa sofferenza, solitudine, rimorso; per problemi famigliari, economici, di vita, di convivenza. È così.

Per cui si attende sempre qualcosa: l'apertura del mattino, la spesa, l'avvocato, una lettera, un permesso o “soltanto” che domani sorga e tramonti il sole.

E quindi cosa si può fare per elaborare tutto questo tempo vuoto che ci avvolge?

Ognuno si crea la propria “bolla di sopravvivenza”. C'è chi gioca a carte tutto il giorno, chi legge, chi dorme, chi studia, chi lavora. Chi si concentra sul cibo e allora “lievita”, ingrassando a vista d'occhio. Forse cercando, nel cibo, un sostituto dell'amore o un riempitivo per i vuoti dell'anima.

In qualche caso, direi, solo per il piacere di mangiare. Forse era così anche fuori, chissà.

Comunque si attende e, tra le altre cose, ci si prepara nella mente un “discorso dell'assenza”, con un'acquisita consapevolezza e verità per quello che verrà e che si dovrà sostenere, domani.

Lo si fa fin da subito. Sì, perché, pur sapendo di dovere andare avanti sempre, ci si trova ad essere incastrati in tre tempi diversi, ma uniti: il passato secondo il quale, pur non dimenticando, non è più giusto vivere. Il presente che corrisponde al tempo più difficile, un pezzo di pura angoscia e il futuro: quello che sarà.

E sempre si rincorrono, all'infinito, questi attimi impalpabili, ma allo stesso tempo, veri. Ci si domanda quale di essi resisterà e prevarrà rispetto agli altri.

L'attesa, qui in carcere, porta a questo.

Poi c'è la mente che vola, che non si arrende mai, che combatte ogni istante sino a farlo rimpicciolire e sparire, vivendo l'attimo. Quello presente, che sento e in cui credo.

È diventato già passato, è presente e, tra un momento futuro. Ma esiste.

Esiste per noi, in una parola che si chiama speranza, oltre la resilienza.

E come le sirene che, con il loro canto, attiravano i viaggiatori in paesi lontani, ma possedevano un'arma ancora più temibile del canto stesso: quella del silenzio, di non cantare più.

Quindi, l'istante felice arriverà, ma presuppone l'attesa, la speranza.

Il dono del tempo può essere, a volte, straziante, sprecato, doloroso. Ma è pur sempre un grande dono.

E noi ci crediamo.


© Roberto Bertazzoni

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