06 agosto 2020

“LA RABBIA” ANDREA TRISCIUZZI (resina bronzata) a cura di Maria Marchese

 


“LA RABBIA” ANDREA TRISCIUZZI (resina bronzata) 

“Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che la contengono” . (Bertolt Brecht) 

Andrea Trisciuzzi sconfessa gli argini eretti dal “socialmente accettabile” , quali origine di un processo che snatura e fuorvia l’individuo, allontanandolo dal ricongiungimento col proprio io reale. Egli li divelle, per dirimere la rabbia addentro le sembianze di un urlo lacerante: quello scaturito nell'eco dell’abbandono più intimo e assordante. Esso digrada nel disvelarsi formale e spirituale dell’opera stessa, che si protrae dal 1987 al 2018 “Lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto” . (Seneca) L’artista romano avviluppa, con le proprie palme, la brutalità sprigionata dall’impotenza, da parte dell’essere umano, di fronte al profondo dolore: ivi ella pulsa e insorge, quale viva e intangibile materia. Ne intuisce le ribellioni e le meste rade per dispiegarne, poi, il canto più solenne. Lo chiama quindi in un unico nucleo essenziale: le mani dell’esteta plasmano l’impeto di un amaro travaglio, trasferendo nella creta la barbarie inflitta da quest’ultimo nei confronti dell’uomo, inteso nella propria interezza. È un'uterina afflizione, che ha origini arcane… nell’io autentico dell’artista. La esprime così in una veste formale, intessuta dalle trame di un palpabile assurdo: l’ossimoro poeta, in esse, traducendo un granitico patimento esistenziale attraverso la duttilità dell’argilla. Andrea Trisciuzzi trasla un significato umano, che asseconda la possanza di frantumare il nucleo primievo dell’individuo, accorpandolo in un eloquio solitario e tacitiano, la cui foggia esasperata e innaturale diviene un muto suono in grado di raggiungere remoti abissi e altresì superne sfere dell’anima. L’autore esprime, attraverso un’apparente frugalità, dignità animiche opposte, enfatizzandone i dettagli formali; nell’opera si evincono, infatti, la rinuncia (dimorata nella genuflessione del soggetto) come la rivolta (le mani, dalle proporzioni volutamente esasperate, serrate a pugno e ricongiunte al petto) , l’invocazione (promanata dalle labbra dischiuse) e altresì la negazione di quest’ultima (la furia, con cui il soggetto reclina all’indietro il capo, rende fallace il tentativo di professare questo totale sconvolgimento) . Nello stesso anno (1987) , l’artista romano realizza l’originale, suggellandone l’essenza viva con la resina. Bronza quindi quest’ultimo per allignarne le radici ad un primievo passato, conferendogli l’importanza di un valore necessario e fondamentale. “Ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza, che non è stata colta dall’uomo” . (Alda Merini) Andrea Trisciuzzi risolve questa apparente follia attraverso le proprie opere: esse divengono esaustive dissertazioni visive, che custodiscono intuizioni e sofferenze dimorate in quella diversità, difficilmente colta dalla comunità. “Il rimpianto è il vano pascolo di uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto occupando lo spirito con nuove sensazioni e con nuove immaginazioni” . (Gabriele D’Annunzio) Il percorso artistico dell’esteta romano è scandito da passi precipui, che si traducono in un crescendo di realizzazioni sensibili intense, scelte e inusuali. Esse involvono la feracità di uno spirito, che traduce preziosi deliri attraverso l’eloquenza dell’arte. Quest’ultima diviene il perno unico e decisivo, in grado di contenere una veemenza mentale e animica che, diversamente, potrebbe sfociare nell’umana tristezza e miseria. Per suggellare quest’antica simbiosi, Andrea Trisciuzzi, nel 2018, realizza la gabbia rossa che custodisce questo importante e viscerale plastico.

 Testo a cura di Maria Marchese

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