“LA LUCE DUPLICE DEL BENE” di Belardinelli a cura di Vincenzo Capodiferro
Una
mistica silloge di Umberto Belardinelli dedicata a Santa Faustina,
discepola della Misericordia
Come
annota Gianfranco Galante, «Il libro è uno scrigno prezioso che
protegge il bene. La fede esprime armonia, saggezza, longevità;
esprime la sapienza del tempo che passa e che vive; nella fede c’è
il domani. Nessuno pensa che la fede possa morire. La fede è. Il
peso che esercita sul nostro essere è affascinante. La fede è forza
consolidata. La fede è appiglio certo. La fede è l’opera di
Umberto Belardinelli». “La luce duplice del bene. Silloge per S.
Faustina Kowalska”, è una raccolta poetica di Umberto
Belardinelli, edita da Tracce per la meta, Borgoricco 2019. Umberto
Belardinelli nasce a Messina nel 1956. A tre mesi dalla nascita
subito la sua famiglia si trasferisce a Varese. Fin da piccolo
avverte l’innata passione poetica. I motivi ispiratori della
poetica di Umberto si riallacciano a Quasimodo ed a Neruda. Umberto
ha ottenuto lusinghieri riconoscimenti a diversi concorsi letterari.
Dopo aver attraversato un’inattesa procella esistenziale, ecco che
approdando al porto della “quiete dopo la tempesta”, incontra
Santa Faustina e ne nasce un amoroso incontro. «Un libro di
altissima spiritualità,» - lo definisce Ilaria Celestini - «che
nasce come omaggio a Santa Faustina, la Santa della Divina
misericordia, e come meditazione accorata e raccolta sulla sua
straordinaria esperienza mistica». E Silvia Spaventa Filippi nella
introduzione: «Umberto è attratto dalla vita della Santa appena ne
conosce la Sua biografia e legge la Sua Testimonianza. Avverte dentro
di sé di continuare la sua missione e di evangelizzarla: infatti le
sue poesie interpretano ed incarnano il Verbo che poi è quello di
Cristo con rievocazione dantesca, regalando al lettore una perfetta
coincidenza colorata di una sensibilità più unica che rara».
Ascoltiamo in Pictura
Iesu:
Fu
sera quando il prodigio apparve
nella
piccola cella di Plok;
Faustina
si sentì rapita dalla pace
e
dalla sua benedizione.
“Imprimi
in un quadro ciò che vedi
e
qui sia scritta la speranza
che
in Me confida ogni preghiera”.
La
poesia di Umberto nasce dal cuore palpitante d’amore. Diviene in un
certo senso propagazione del Verbo Sacro. Non dimentichiamo che il
“Poieo” greco indica il creare. I poeti proseguono la divina
creazione infinita che accompagna il cosmo. Possiamo quasi osare che
Umberto, soprattutto in questa silloge, è un “ispirato” da
questa Santa, discepola della Misericordia, ma di più è un
“ispirato” dalla Misericordia di Dio. Il frangente in cui Umberto
scrive questa silloge è drammatico, fino al punto che con commozione
abbiamo ascoltato la sua voce forte: - E se non riuscissi a finire
questa preghiera a santa Faustina? Un dubbio esistenziale
incandescente, che tocca l’animo! Umberto reca con sé le tracce
antiche della sua patria primeva, l’Isola Bella del Mediterraneo
lago, la Sicilia. Quel suo patetico “verismo” che si esprime nei
suoi versi, qui si consola elevandosi goticamente a incessante
invocazione all’Altissimo, raggiungendo punte di misticismo
inaudito. Il francescano “Altissimu, onnipotente bon Signore” qui
viene capovolto: Buono, Onnipotente, Altissimo. Dio è Dio di
misericordia, non è solo l’altissimo irraggiungibile, quasi come
l’acqua: altissima
purissima levissima.
Questa è la bellezza profonda di questa silloge. Ed in questo suo
anelito leggiamo la stessa espressione di santa Faustina: «Nonostante
la mia grande miseria non ho paura di nulla, ma anzi spero di cantare
eternamente il mio canto di lode». Questa frase della Kowalska
esprime seriamente tutto l’intento di “La luce duplice del bene”.
Le due luci, come esprime Umberto, hanno significati diversi:
La
luce bianca era l’acqua dell’anima,
la
luce rossa era la vita della stessa.
Ma
queste due luci si collegano idealmente a quel costato trafitto da
Longino, onde uscirono sangue ed acqua ed all’eucarestia: il pane
ed vino sono la manna della Misericordia di Dio che scende sempre sul
deserto del mondo sempre più lontano da Dio. E torna il verbo di
Quasimodo: «Ognuno sta sul cuor della terra/ trafitto da un raggio
di sole:/ ed è subito sera». Ecco questa caducità, precarietà
esistenziale che Umberto sente sua, si slancia tra le braccia
dell’Assoluto che accoglie “il canto di lode”, di cui Suor
Faustina. Nessuno può toglierci più il canto, neppure quell’esilio
che pur il Quasimodo riprende, rileggendo il salmo: “Alle fronde
dei salici”. Le nostre cetre abbiamo appeso ai salici piangenti di
questa valle di lacrime. L’esilio è il mondo. Eppure in questa
Babilonia troviamo il tempo del canto, canto della speranza e
dell’amore. E possiamo superare l’impaccio di quelle fronde solo
rivolgendo lo sguardo verso l’alto: - Alzo gli occhi verso i monti.
Da dove mi verrà l’aiuto? Recita il salmo. Ed i salmi cosa sono?
Poesia d’amore.
In
questa silloge, come sottolineava Silvia, c’è una forte impronta
dantesca, che Umberto intelligentemente coniuga con una originale
rilettura del diario della Santa polacca: le sette pene dell’inferno.
Schopenhauer commentando Dante, esclamava: - Da dove ha potuto trarre
Dante Alighieri la materia del suo Inferno
se non da questo mondo? Ecco: come trovare sollievo dal dolore del
mondo? Il mondo è colmo di dolore, è la “valle delle lacrime”
del Salve
Regina.
Di qui il senso della Misericordia: il rifugio dal dolore lo troviamo
in quella che Umberto legge come “la Città senza tempo”. Questo
tema molto profondo riprende l’eterna città di Agostino che si
contrappone alla città del tempo. Dio ci soccorre offrendoci
momentaneamente nel tempo e poi senza tempo nell’eternità
l’accesso a questa città: questa è la Misericordia di Dio.
La
silloge di Umberto si conclude con una preghiera, rivolta all’eterna
Madre:
Mi
tenderai la mano,
quando
dissolverò nella luce del Pianeta
per
le parole di Santa Faustina?
Questa
bellissima preghiera si conclude con un profondo interrogativo, che
in parte è invocatorio, ma in parte ci deve portare ad una
riflessione attenta sul senso dell’esistenza umana. Questa
“preghiera” mi fa inconsciamente pensare alla madre ungarettiana:
… come
una volta mi darai la mano… Sarai una statua davanti all’eterno.
La
grande Madre è Maria, la Mater
Misericordiae.
E noi siamo, come dice Umberto, “gli apostoli dell’universo”, i
“figli della misericordia”. Quel “tendere la mano” è un atto
di tenerezza. Papa Francesco oggi parla tanto di “tenerezza”. La
tenerezza è legata molto alla misericordia. Il tender la mano di una
madre terrena rimanda al tender la mano di una madre eterna. O al
tender la mano di quel Padre buono, che attende sempre il figliolo
prodigo e spia dalla finestra, ogni giorno, attendendo il suo
ritorno. Il canto di chiesa ripeteva: - Torna deh torna figlio! Torna
al tuo padre amante. Ahi! Quante volte quante, io sospirai per te.
Ahi! Quante volte quante io sospirai per te. Noi attendiamo sempre il
ritorno all’Assoluto.
Vincenzo
Capodiferro
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