ANTONIO
BRESSI: “AMATO. TRA GALANTUOMINI E BRIGANTI”
Opera
di ricordo e di storia di una comunità silana
“Amato.
Tra galantuomini e briganti” è un’opera storica di Antonio
Bressi, edita da Titani, London 2018. Antonio Bressi è nato a san
Floro – CZ – ma vive e lavora a Roma: giornalista, scrittore, si
dedica soprattutto alla storia ed agli studi demo-antropologici. «Per
quasi un decennio Antonio Bressi,» scrive Silvestro Bressi nella
prefazione, «per varie vicissitudini, è stato costretto ad
accantonare nel cassetto della sua scrivania, una ricerca sul borgo
di Amato che oggi, finalmente, grazie soprattutto alla costanza che
lo contraddistinguer quando si tratta di omaggiare l’amata
Calabria, ha deciso di dare alle stampe». E quasi di rimando
risponde l’autore: «Con immensa soddisfazione offro questo lavoro
agli amatesi, a tutta quella gene che mi ha visto nelle sue strade
ragazzo e poi adulto, ospite dei miei zii, immacolata e Peppino
Falvo. Quando si vive lontano dagli affetti e dai luoghi familiari,
il ricordo del paese, delle costumanze, del nostro essere si rafforza
e si arricchisce di particolari». È chiaro che questa opera nasce
dall’amore per la terra, e quello che dice Antonio è vero: più
stai lontano più l’amore si rafforza. La lontananza rafforza
l’amore. Abbiamo conosciuto gente che da anni ha lasciato il paese,
eppure pensa sempre al paese, ricorda i fatti del paese, i
personaggi, la lingua, i racconti, le tradizioni. Il paese diventa
una persona, che si ama: chi è questo paese? «Comune della
provincia di Catanzaro, a metri 480 s. l. m., alle pendici
meridionali della Sila piccola, di ettari 2.090… Le origini si
possono far risalire all’avvento dei Normanni…». Antonio ricorda
il paese degli affettuosi zii. Ricorda anche quei personaggi, che
attorniavano quei nostri centri. Ognuno aveva un soprannome: come era
bello! Come Jolanda
‘a pacchiana, o
«il minuto marito della comare Iolanda, ‘u
cumpare Turuzzu,
dipendente dell’Ospedale Militare, molto stimato dagli Amatesi i
quali lo chiamavano don Salvatore, quando parlava di Amato, era
solito fare riferimento ad una sorgente di acqua solforosa indicata
come “l’acqua santa” e a una cava di argilla, a suo dire,
particolarmente adatta per la realizzazione di vasi». Ogni paese
aveva la sua lingua, la sua cultura, le sue tradizioni, era un
microcosmo all’interno dell’infinito macrocosmo. Peccato che i
paesi stanno morendo, mentre crescono le anonime megalopoli. L’opera
del Bressi è di indubbio valore storico, riporta dati interessanti
di vario tipo: archivistico, economico, geologico, idrico, sociale.
C’è un elenco sinottico dei vari personaggi, redatto, in base alle
professioni, allo stato sociale. C’è un inserto molto bello sul
medico-poeta Francesco Priolo (1908-1955). Il lettore potrà
assaporare in uno sguardo d’insieme tutte le ricchezze di questa
terra. Ma soprattutto c’è il riporto dell’ancestrale lotta tra
galantuomini e cafoni: i briganti! Mai come nei paesi del Sud si
applica integralmente la teoria sociale rousseiana e marxiana:
oppressori ed oppressi, signori e servi, borghesi e proletari. La
società dei paesi è profondamente dualistica: ecco perché qui è
stata possibile questa mancata “lotta di classe”. I briganti sono
i rivoluzionari, che si ribellano allo strapotere della borghesia,
vendutasi ai nuovi padroni, i piemontesi, pur di mantenere in piedi i
suoi privilegi sociali ed economici. Vediamo come il Nostro ce li
descrive: «Come lupi affamati i briganti scendevano per procurarsi
senza tanti riguardi le vettovaglie occorrenti. Naturalmente gliele
davano spontaneamente o meno anche sotto minacce a mano armata di
ritorsioni». Ad Amato circolava la banda di Pietro Bianco di
Bianchi. Arrivavano anche ad effettuare stragi efferate di animali,
anche cento alla volta. Perché arrivavano a tanto odio? Vorrei
spiegarvelo raccontando anche qui un episodio personale che mi era
capitato quando ero giovane ricercatore: accompagnato da don Peppino
Cracas, cancelliere della corte d’Appello di Potenza, andammo a
trovare lo storico don Tommaso Pedio, nella sua casa nei pressi di
Via Pretoria, a Potenza. Egli lo conosceva bene e mi presentò a lui.
Ed egli:
-
di dove sei?
- di
Castelsaraceno. Risposi.
- Ebbene - riprese - non lo sai che il 1 febbraio del 1861 furono fucilati nella piazza del paese, 9 giovani, tutti figli dei cafoni, perché non si erano presentati alla ferma di leva?
- Sono stati fucilati - ancora lui - per un mero errore giudiziario, perché il governatore Giacomo Racioppi, non ha comunicato all’esercito che il termine ultimo della presentazione alla ferma era stato rimandato di un mese, dal 1 febbraio al 1 marzo del 1861. La popolazione non ne sa nulla. Arrivano i soldati, rastrellano i giovani, figli di contadini e li fucilano per renitenza alla leva.
Come
mi è rimasto impresso nella mente questo tragico ricordo riportato
dal Pedio! Avevamo fatto fare anche una lapide in ricordo dei 9
giovani affissa in piazza, ma poi è stata divelta.
Molto
bella è, a proposito, anche la storia che Antonio, ci riporta, della
druda, Caterina Cappellano, detta Jotta,
o Tota,
l’amante del brigante Tallarico. Questa storia di Antonio Bressi
smentisce così il mito dell’antistoricismo di Nietzsche e company.
A che serve la storia antiquaria, o la storia monumentale? Eccome
che serve! Un uomo senza storia è come un perenne malato di
Alzheimer. Forse perciò Nietzsche uscì fuori di testa, perché
dimenticò chi era se stesso. Senza queste testimonianze tutto
sarebbe perduto ed i nostri paesi sarebbero tutti finiti nel “nulla
eterno” della sera foscoliana. Plutarco ricorda che se nessuno
avesse scritto su Sparta, sarebbe stata una città dimenticata,
perché a Sparta nessuno scriveva. Nessuno ne avrebbe saputo niente.
La storia di Bressi poi non è distaccata, ma è una storia
affettuosa, ricca d’amore, che si perde tra ricostruzioni e ricordi
infantili, tra storia critica e storia romantica. In appendice viene
riportata un’ampia documentazione, molto interessante soprattutto
la raccolta delle regole della Congrega di Maria SS. ma Immacolata.
Concludiamo, dalla prefazione: «Pagine scritte con amore, a un tiro
di schioppo dal “cupolone”, da una penna scorrevole che rende
omaggio all’operosa e serena cittadina di Amato e ai tanti suoi
figli emigrati e non, e che offre la possibilità agli studiosi di
approfondire le ricerche che Antonio ha portato avanti con la stessa
dedizione con cui ha curato gli studi dedicati alla sua san Floro».
Pagine
scritte con amore:
non è una storia anonima, impersonale, ma una storia d’amore.
Amato si vede che è l’amato per eccellenza, suscita amore. È il
nomen-omen che ci ricorda lo stesso autore: «Amato con il suo
fascino non poteva essere dimenticato soprattutto quando un amore
fatto di gratitudine e di stima ce lo ha reso veramente tale, ossia
nomen
omen
amato!»
V.
Capodiferro
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