MARCO ANTONETTI: DA “LUCHINO MIO” A “INSIEME” a cura di Vincenzo Capodiferro
MARCO
ANTONETTI: DA “LUCHINO MIO” A “INSIEME”
Una
forte esperienza sulla morte nell’espressione letteraria ed amorosa
di un padre di famiglia
Marco
Antonetti raccoglie in due volumi la testimonianza del cuore per la
tragica perdita del figlio Luca, di 26 anni: “Luchino mio”,
Varese febbraio 2018, ristampa, e “Insieme”, Varese ottobre 2018.
Marco insegna scienze motorie presso il Liceo Artistico di Varese. È
un appassionato di arrampicata sportiva. Marco è un uomo profondo.
Ancor più profondo è in questa mistica espressione del dolore per
la perdita del figlio. Qual dolore più grande può provare un uomo?
E una madre? Non sarebbe il caso di discuterne in questa
presentazione. Ma noi l’abbiamo voluto fare per partecipare anche
noi, in qualche modo, alla croce che l’umanità deve portare.
L’umanità deve portare la croce, o vuole o non vuole: è
necessaria per la sua salvezza. In questo cammino Dio l’aiuta:
perché egli per primo l’ha portata per tutti. E Dio è anche il
Cireneo, le pie donne che troviamo sul nostro cammino: è la Veronica
che ci asciuga le lacrime. E conserva il velo coi nostri volti
sofferenti. Se Leopardi per superare il dolore cosmico, nella
“Ginestra”, additava l’alleanza sociale degli uomini contro la
madre, l’inesorabile Natura, noi cristiani dobbiamo volentieri
metterci a disposizione nel portare sulle spalle, tutti insieme, la
grande croce che ci porta al Calvario ed alla resurrezione. Questa
croce immensa se portata da tutti, non pesa. Marco esprime la
profondità del dolore: De
profundis clamavi ad te, Domine; Domine exaudi vocem meam. Fiant
aures tuae intendendes in vocem deprecationis meae.
Siano le tue orecchie attente alla voce della mia supplica…
Emanuela Sonzini così commenta a principio del “Luchino”:
«Subito dopo la morte del figlio Luca, marco Antonetti ha sentito la
necessità di scrivere ciò che il suo cuore gli dettava… Grazie
Marco, “bastardo nella fede” che ci testimoni la ragionevolezza
della fede in Dio…».
«Ti
hanno già composto nella bara che attende la chiusura… Vorremmo
ritardarla, vorremmo starti vicino, vorremmo … ma troppi amici ti
attendono in chiesa…». Ecco alcune immagini, molto realistiche,
crude, che si ritrovano nel testo. Marco non usa mezzi termini, ecco
perché il testo è toccante, è coinvolgente: non puoi fare a meno
di provare anche tu il dolore esistenziale, di piangere o ridere, nel
ricordo dei momenti brutti, o belli di vita passati. È la pura
espressione del sentimento, dell’angoscia della vita. Diremmo: di
quella angoscia esistenziale che ha tormentato tanti…: perché
viviamo, perché moriamo…? La morte è lo scacco matto, è il
paradosso più assoluto. Paradossalmente sia Heidegger che un
Sant’Alfonso, nel mirabile libro, che forse oggi si legge poco, o
non si legge più - “L’apparecchio alla morte” -, si pongono il
lancinante problema dell’essere-per-la-morte. Tutta la vita è una
preparazione alla morte, perché la morte non è uno scherzo, ma
segna l’ingresso nell’eternità per chi crede e per chi non crede
l’ingresso nel “nulla eterno”, come lo definisce il Foscolo nel
carme: Forse
perché della fatal quiete/ tu sei l’imago…
La sera prefigura la morte. La notte però aspetta il giorno: ci sarà
un’alba?
«Mi
sono posto una domanda: ma io sono veramente certo di Dio e di te in
Dio, oppure mi convinco che sia così, nella forzata illusione che
altro non potrebbe essere?».
Ecco una domanda
sconvolgente che ci pone Marco. Il problema che ci pone è lo stesso
che Dio rivolge a Se Stesso: Mio
Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?
Perché io, Dio, mi sono abbandonato alla morte? Era proprio
necessario? Io che sono un Dio eterno, onnipotente, immortale nei
secoli dei secoli? Gesù piange per la morte di Lazzaro. Se
fossi stato con noi Lazzaro non sarebbe morto! Anche
Dio si commuove della morte dei suoi figli, dei suoi amici… Si
commuove della morte di Se Stesso: alle tre del pomeriggio il velo
del tempio si squarcia, il cielo si oscura… la terra trema. Dio lo
fa capire benissimo… il cielo piange la morte del Cristo. Lazzaro
viene resuscitato: prefigurazione della morte del Cristo. Ma Lazzaro
poi morrà di nuovo… La morte fisica non è un problema, è la
morte
secunda,
il vero problema: saremo vivi o morti per l’eternità? Però a
parole è facile: anche la morte
prima
è difficile da comprendere, è uno scandalo che mette in croce lo
stesso Dio! Dio vuole sperimentare questa atroce sofferenza della
morte. Marco trova una risposta nella fede: “Luchino mio” è
l’immagine della morte, “Insieme” è l’immagine della
resurrezione. Forte
come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la gelosia,
canta
il Cantico
dei Cantici.
Solo l’amore può sconfiggere l’eterna sterminatrice. Anche il
Foscolo, che tanto cristiano non era, deve riconoscerlo: Celeste
è questa corrispondenza d’amorosi sensi.
Amore
è a-mors:
ciò che è senza morte, ciò che resiste alla morte. Bella è
l’immagine del Cristo velato che riporta Marco; nel Cristo velato
ricorda il figlio velato: «Obitorio… piano 2 … stanza 7. Sei lì,
abbiamo due minuti di tempo, non di più. Il regolamento non prevede
visite prima dell’autopsia. La porta si apre, ti vedo, un lenzuolo
sul corpo: dalla strada al lettino … così … intoccabile fino a
dopo l’esito medico. Il capo girato verso sinistra, ma io entro
dalla parte opposta e con il cuore che sembra fermarsi o forse batte
all’impazzata, ti vedo e … credo di morire … non è possibile.
Il volto pieno di sangue …,» etc. È il volto di Cristo. Siamo
tutti dei Cristi … velati. Ma non lo sappiamo. Siamo tutti dei
morti viventi e diventeremo dopo la morte dei viventi morti, ma non
lo sappiamo ancora. La fede di Marco non è tanto manzoniana. Dinanzi
alla morte, umanamente parlando, non c’è nulla da fare. Renzo e
Lucia confidavano nella Provvidenza, erano dei vinti che confidavano
in Dio. Ma questo, in effetti è un esperimento letterario. In
letteratura tutto è possibile, ma nella realtà? Le cose cambiano.
Anche Manzoni è passato attraverso il dramma della conversione. E,
secondo me, l’Innominato che si converte rappresenta la
trasposizione del giovane Alessandro che passa dai Lumi e Cristo, ma
questa è solo una mia opinione. I vinti di Verga erano gli sconfitti
dalla vita e dalla storia, ma dinanzi a sorella nostra morte
corporale, come la declamava Francesco, tutti siamo vinti. Anche i
ricchi, i potenti, i re della terra sono impotenti, poveri dinanzi
alla morte. Ade è ricco di vite strappate alla Vita. Satana ha
scelto l’eterna morte, la tenebra impenetrabile pur di non vedere
il Volto dell’Assoluto. La
luce venne nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno capita.
Il mistero della morte è incomprensibile, è un assurdo stroncante,
indicibile. Non ci sono delle risposte, ci sono solo delle domande
senza risposta. È l’eterna domanda di Agostino e di Leibniz: si
deus est unde malum? Si non est unde bonum? Berdjaev
dà una certa risposta: proprio il male è la dimostrazione
dell’esistenza di Dio. Quella di Marco non è una fede data per
scontato, è una fede critica, coraggiosa, bastarda,
come la definisce la Sonzini. È una fede però autentica, perché
passa attraverso la ferita della perdita: a
te una spada trapasserà il cuore! Anche
Maria passa questo momento incomprensibile. È facile credere quando
tutto va bene, quando abbiamo la benedizione del Signore, come diceva
Calvino: la ricchezza è segno della benedizione del Signore. Ma
quando le cose vanno male? È il dramma di Giobbe! È la sfida di
Satana: metti alla prova Giobbe! Adesso crede, ma poi vedremo se
crederà. Nudo
uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato
e il Signore ha tolto. La
sfida continua sempre: Giobbe è l’umanità. Continua ancor oggi.
Nella visione di Leone XIII, il 13 ottobre 1884, Satana ancora sfida
Dio su Giobbe. 100 anni: due guerre mondiali, totalitarismi, stermini
di massa, bombe atomiche: forse la fede è crollata? Ripetiamo con
Agostino: i defunti non sono morti, ma abitano prima di noi nella
luce di Dio. La morte è la porta d’ingresso nell’Essere vero.
Marco si chiede ancora il senso della felicità: «Se credessi che
l’essere felice è realizzare i propri sogni, mi sentirei
nell’illusione più grande perché, un secondo dopo aver provato
l’esaltazione di questo stato interiore, avrei bisogno di buttarmi
su altre realizzazioni per finire nel circolo perverso di un bisogno
adrenalinico che va sempre alimentato». Non cadiamo nella logica del
pendolo di Schopenhauer: dolore e noia, dolore e noia… tic tac…
all’infinito. «La tua morte, Luca non è stata l’ultima opzione
per la mia vita; ogni grammo di questa mia sofferenza è dentro il
peso di questa croce che non mi abbandona ma che, nell’apparente
contraddizione del Mistero che così ha voluto, mi regala
l’esperienza della letizia in Dio con cui stai già condividendo il
tempo che verrà». La vera felicità non è la soddisfazione
momentanea, ma è il riposo in Dio: inquietum
est cor nostrum donec requiescat in te
(Conf.
I,1). Abbiamo ripreso alcuni passi di “Luchino mio” per
testimoniare questa autenticità profonda che si respira leggendo
questo testo. La vita è un dramma, ma non in senso letterario. La
vita è sogno, ma è un sogno un po’ complicato, è un sogno reale,
a volte è un incubo. La realtà purtroppo non è fatta sempre solo
di rose, ma di spine: sono più spine che rose. La vita è durezza,
asperità. È come quelle rocce scoscese che Marco deve scalare, ma
ogni uomo è scalatore. Se non si sale nell’alto, si muore. Se ci
si ferma a guardare in giù, si è perduti. Non
progredi, regredi est. La tua grazia, Signore, vale più della vita.
Così ripeteva don Tommaso Latronico, sacerdote di Comunione e
Liberazione, morto nel 1993 per una terribile leucemia. E scriveva:
«Nell’esperienza dell’uomo tutto passa e finisce. Soprattutto le
cose belle (l’infanzia, l’amore …) sono destinate a finire nel
rimpianto, nella nostalgia e nel ricordo. C’è solo un’esperienza,
che inizia e non finisce, e con il tempo cresce: è l’incontro con
Cristo». E ricordiamo Carducci: Pianto
antico.
Qual è l’… albero
a cui tendevi/ la pargoletta mano,
se non la croce santa? Anche Carducci si converte … segretamente a
quella croce … prima di morire… riceve i sacramenti da un
sacerdote travestito da barbiere. È quella croce che ci ricorda
ancora Marco, nel discorso d’addio al funerale, richiamando il
classico “muor giovane colui che al ciel è caro”: «Sappiamo che
se Dio prende con sé un giovane è perché ha bisogno di un angelo
che lo aiuti a portare il peso del mondo e tu, Luca, ora sei il
nostro angelo. Ti abbiamo ricordato con una foto che ti simboleggia.
Sei ritratto con le braccia aperte, e in quell’abbraccio noi ci
sentiamo tutti accolti». Luca con le braccia aperte simboleggia una
croce vivente. Ogni uomo è croce che vive e se distende le braccia
si accorge di essere aperto all’Assoluto, all’Infinito.
Vincenzo
Capodiferro
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