UNA LETTERA DEL 1941 a cura di Marco Salvario
UNA LETTERA DEL 1941 a cura di Marco Salvario
A volte la morte di persone care ci costringe a
mettere ordine tra le testimonianze del loro passato; ricordi
nascosti in scatole polverose, in astucci segnati dal tempo, in buste
logore, in plichi legati da spago o da cordini colorati. Dal passato
di mia madre, purtroppo recentemente mancata, affiora una montagna di
antiche testimonianze. Ricordi di gioie e di dolori, di momenti
condivisi con persone ormai quasi tutte scomparse.
Tra le tante testimonianze fa capolino una
breve lettera di settantotto anni fa, scritta dalla sua maestra. La
data è 27-VII-41. L’Italia è in guerra e il clima che si
respira, malgrado siano molte le avvisaglie della catastrofe verso
cui il paese sta scivolando, sembra ancora sereno. Da poco, dopo la
conquista dei Balcani, Hitler ha scatenato l’attacco sul fronte
russo e Mussolini l’ha appoggiato con l’invio di decine di
migliaia di soldati male equipaggiati. Un mese dopo inizierà il
tesseramento del pane.
La lettera è scritta su un cartoncino sagomato
rozzamente e ingiallito dal tempo con una calligrafia che fa pensare
a un pennino intriso d’inchiostro, le righe prodigiosamente diritte
e allineate a sinistra mentre a destra la passione dello scrivere
spinge le parole ad appiattirsi per sfruttare anche l’ultimo
millimetro di spazio disponibile.
Mi sono commosso leggendo la descrizione che
l’insegnante fa di mia madre, “… la tua figuretta esile, dai
grandi occhi attenti e pieni d’intelligenza.” Un’immagine
dolcissima, anche se non gradita agli ideali di quel periodo dove la
donna doveva essere prosperosa, atletica, solida fattrice di una
numerosa prole littoria. La fragilità di mia madre e la sua
intelligenza erano viste come difetti.
Il fascismo controlla ogni momento della vita
degli italiani e lo dimostra con la censura che butta l’occhio
persino sulla lettera di una maestra in vacanza a una sua studentessa
tredicenne. Un timbro rotondo. Verificato. Sapendo di
quest’occhio pericoloso, si scrive con reticenza e cautela. Della
guerra si accenna di sfuggita, e potrebbe persino essere pericolosa
la frase, “Sono lieta di pensarti in un luogo sereno e pieno di
pace.” Questo è velato disfattismo! Pace e serenità non sono
certo tra gli ideali del ventennio, anche se il duce ha affermato che
“l’Italia desidera la pace, ma non teme la guerra”. Non
dimentichiamo che l’Italia inizia la belligeranza contro Francia e
Inghilterra il 10 giugno del 1940 e solo due giorni dopo deve
registrare il primo bombardamento aereo su una Torino assolutamente
impreparata, che causava diciassette morti e gravi distruzioni.
Ritorno sul timbro, su quella violazione della
privacy nella corrispondenza privata effettuata in modo invasivo e
indiscreto e segnalata con arroganza e prepotenza. Probabilmente non
è un caso che il timbro cada proprio dove è scritta la parola
“guerra”. Fosse successo oggi, penserei all’utilizzo di
un software di riconoscimento che appena individua una parola tra
quelle critiche, si attiva, invece si trattava di solerti piccoli
funzionari allenati allo stesso compito.
Da quel timbro della censura, emblema dei
diritti di riservatezza violati senza pudore, io sono offeso ancora
oggi. Posso capire in parte la censura delle lettere inviata da e per
il fronte, ma la morsa feroce imposta sulla posta interna, è
un’ingerenza insultante e costosa. Una testimonianza semplice ma
inequivocabile di come fosse schiacciata ogni forma di libertà in
quel tragico periodo.
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