18 febbraio 2019

BANKITALIA, L’ORO DI ZIO PAPERONE di Antonio Laurenzano

            
BANKITALIA, L’ORO DI ZIO PAPERONE
                   di  Antonio Laurenzano

In vendita l’oro di Bankitalia? Le riserve auree della Banca d’Italia tornano sotto i riflettori della politica e accendono suggestioni e polemiche. Di forte impatto mediatico la proposta di legge del leghista Claudio Borghi, presidente della commissione Bilancio della Camera per “chiarire che le riserve auree appartengono allo Stato, non a qualcun altro, perché non esiste una legge che lo affermi esplicitamente.” Una proposta che nasconde aspetti controversi.
La nostra banca centrale è il quarto detentore di riserve auree al mondo dopo la Fed, la Bundesbank e il Fondo monetario internazionale (FMI): un patrimonio di 2452 tonnellate di lingotti e monete d’oro, di cui solo 1100 tonnellate (poco più del 44%) è in Italia, nei caveau di Palazzo Koch di Via Nazionale, a Roma. Il resto è al sicuro altrove: il 43,29% negli Usa, il 6,09% in Svizzera, il 5,76% nel Regno Unito. Valore stimato a fine gennaio pari a 91,8 miliardi di euro. Un asset importante per la tenuta del sistema finanziario del Paese contro crisi valutarie e rischio sovrano. La sua gestione è vincolata agli indirizzi adottati dal Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) e dalla Bce a salvaguardia della politica monetaria unica per la quale la Banca di Francoforte, in base al Trattato sul funzionamento dell’Ue, ha il compito di “detenere e gestire le riserve ufficiali” dei Paesi aderenti all’Eurozona che quindi non ne hanno la libera disponibilità.     
Una lettura del Trattato poco gradita a chi guarda alle riserve auree di Bankitalia come a una possibile soluzione di emergenza ai problemi dei conti pubblici. Usare cioè le riserve per evitare una manovra correttiva e scongiurare l’aumento dell’Iva nella Legge di bilancio del prossimo anno. Vendere parte dell’oro per incassare 15-20 miliardi di euro e allontanare i fantasmi di un pesante deficit di bilancio con i relativi problemi di mercato. La proposta di legge di Borghi, al vaglio del Governo, è generata dal rallentamento dell’economia che influirà sugli impegni della maggioranza di rispettare le stime crescita/deficit e le promesse sulla tenuta dei conti pubblici.
Nessuno assalto alla diligenza, assicurano a Palazzo Chigi, nessuno attacco a Bankitalia la cui governance è stata in questi giorni più volte delegittimata per la mancata vigilanza sui crac bancari degli ultimi anni. Ma cosa nasconde il richiesto azzeramento dei vertici della banca, la sua discontinuità di azione? Nasconde forse l’inquietante insofferenza della sua indipendenza, il disegno di un ritorno sotto l’ombrello del Tesoro per renderla funzionale al “piano B” dei sovranisti di casa nostra: uscire dall’euro, nazionalizzare il debito svalutandolo nella nuova moneta. Fantapolitica o, con gli scongiuri del caso, il folle disegno di riportare indietro nel tempo le lancette della storia economica italiana? Azzerare cioè gli effetti della moneta unica e quelli del divorzio fra Tesoro e Bankitalia, sottoscritto nel luglio 1981 da Andreatta e Ciampi, per avere mani libere nella politica monetaria. La Banca d’Italia, per contenere l’inflazione, fu liberata dall’obbligo di comprare i buoni del tesoro rimasti invenduti sul mercato per finanziare, con emissione di nuova moneta, il disavanzo. Si vuole ora replicare, fuori da ogni vincolo europeo, per garantire un “quantitative easing” alle finanze pubbliche, surrogando quello europeo di Draghi, in scadenza.
E’ il passato che ritorna … nel nome del cambiamento! Sarebbe un’operazione scellerata, espressione di una politica economica sull’orlo del precipizio che rischia di consegnare il futuro dell’Italia alle speculazioni del mercati e ai ricatti dei poteri forti.         

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