BANKITALIA, L’ORO DI ZIO PAPERONE di Antonio Laurenzano
di
Antonio Laurenzano
In vendita l’oro di Bankitalia? Le riserve auree della Banca d’Italia
tornano sotto i riflettori della politica e accendono suggestioni e
polemiche. Di forte impatto mediatico la proposta di legge del leghista
Claudio Borghi, presidente della commissione Bilancio della Camera per
“chiarire che le riserve auree appartengono allo Stato, non a qualcun
altro, perché non esiste una legge che lo affermi esplicitamente.”
Una proposta che nasconde aspetti controversi.
La nostra banca centrale è il quarto detentore di riserve auree al
mondo dopo la Fed, la Bundesbank e il Fondo monetario internazionale
(FMI): un patrimonio di 2452 tonnellate di lingotti e monete d’oro,
di cui solo 1100 tonnellate (poco più del 44%) è in Italia, nei caveau
di Palazzo Koch di Via Nazionale, a Roma. Il resto è al sicuro altrove:
il 43,29% negli Usa, il 6,09% in Svizzera, il 5,76% nel Regno Unito.
Valore stimato a fine gennaio pari a 91,8 miliardi di euro. Un asset
importante per la tenuta del sistema finanziario del Paese contro crisi
valutarie e rischio sovrano. La sua gestione è vincolata agli indirizzi
adottati dal Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) e dalla Bce
a salvaguardia della politica monetaria unica per la quale la Banca
di Francoforte, in base al Trattato sul funzionamento dell’Ue, ha
il compito di “detenere e gestire le riserve ufficiali” dei Paesi
aderenti all’Eurozona che quindi non ne hanno la libera disponibilità.
Una lettura del Trattato poco gradita a chi guarda alle riserve auree
di Bankitalia come a una possibile soluzione di emergenza ai problemi
dei conti pubblici. Usare cioè le riserve per evitare una manovra correttiva
e scongiurare l’aumento dell’Iva nella Legge di bilancio del prossimo
anno. Vendere parte dell’oro per incassare 15-20 miliardi di euro
e allontanare i fantasmi di un pesante deficit di bilancio con i relativi
problemi di mercato. La proposta di legge di Borghi, al vaglio del Governo,
è generata dal rallentamento dell’economia che influirà sugli impegni
della maggioranza di rispettare le stime crescita/deficit e le promesse
sulla tenuta dei conti pubblici.
Nessuno assalto alla diligenza, assicurano a Palazzo Chigi, nessuno
attacco a Bankitalia la cui governance è stata in questi giorni più
volte delegittimata per la mancata vigilanza sui crac bancari degli
ultimi anni. Ma cosa nasconde il richiesto azzeramento dei vertici della
banca, la sua discontinuità di azione? Nasconde forse l’inquietante
insofferenza della sua indipendenza, il disegno di un ritorno sotto
l’ombrello del Tesoro per renderla funzionale al “piano B” dei
sovranisti di casa nostra: uscire dall’euro, nazionalizzare il debito
svalutandolo nella nuova moneta. Fantapolitica o, con gli scongiuri
del caso, il folle disegno di riportare indietro nel tempo le lancette
della storia economica italiana? Azzerare cioè gli effetti della moneta
unica e quelli del divorzio fra Tesoro e Bankitalia, sottoscritto nel
luglio 1981 da Andreatta e Ciampi, per avere mani libere nella politica
monetaria. La Banca d’Italia, per contenere l’inflazione, fu liberata
dall’obbligo di comprare i buoni del tesoro rimasti invenduti sul
mercato per finanziare, con emissione di nuova moneta, il disavanzo.
Si vuole ora replicare, fuori da ogni vincolo europeo, per garantire
un “quantitative easing” alle finanze pubbliche, surrogando quello
europeo di Draghi, in scadenza.
E’ il passato che ritorna … nel nome del cambiamento! Sarebbe
un’operazione scellerata, espressione di una politica economica
sull’orlo del precipizio che rischia di consegnare il futuro dell’Italia
alle speculazioni del mercati e ai ricatti dei poteri forti.
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