Il Differimento della (Rieducazione?) Pena per Motivi di Salute
Il Differimento della (Rieducazione?) Pena per Motivi di Salute
“Nella condizione in cui devo vivere, i capricci nascono da soli: è
incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi
eccezionali e artificiali sviluppino con particolare alacrità tutti i lati
negativi del loro carattere”
-GRAMSCI A., Lettere dal Carcere-
Didier Fassin ha recentemente pubblicato un saggio intitolato “Punire.
Una passione contemporanea”, nel quale si offre un’interessantissima
riflessione: “Nell’ultimo decennio il mondo è entrato in un’era del castigo.
[…] In linea di principio, di fronte ai disordini vissuti da una società, alla
violazione delle sue norme e all’infrazione delle sue leggi, i suoi membri si
affidano a una risposta fatta di sanzioni che alla maggior parte degli individui
appaiono utili e necessarie. Il crimine è il problema, e il castigo è la sua
soluzione. Con il momento punitivo, è il castigo a diventare il problema. lo
diventa a causa del numero di persone rinchiuse o poste sotto sorveglianza,
dello scotto pagato dalle loro famiglie e comunità, del costo economico e umano
che ciò determina per la collettività, della produzione e riproduzione di
disuguaglianze che favorisce, della crescita della criminalità e
dell’insicurezza che genera e, infine, della perdita di legittimità derivante
dalla sua applicazione discriminatoria e arbitraria. Ritenuto ciò che dovrebbe
proteggere la società dal crimine, il castigo appare sempre di più ciò che
invece la minaccia. Il momento punitivo incarna questo paradosso1
”. La bontà di tale argomentazione, molto probabilmente, può essere
apprezzata - anche ed a fortiori -allorquando ci si interroghi sulla
compatibilità della detenzione con lo stato di salute precario di alcuni
detenuti: il momento punitivo, infatti, in tali circostanze appare del tutto
paradossale.
È recentissima, d’altronde, la triste notizia di Ezio Prinno, un
detenuto del carcere di Opera costretto ad indossare ventiquattro ore su
ventiquattro un casco per evitare di procurarsi lesioni derivanti dai suoi
frequenti attacchi di epilessia. La madre, intervistata da “Il Dubbio”, ha
riferito parole che gettano in non poco imbarazzo gli operatori del diritto:
“non mi interessano gli sconti di pena, chiedo solo che mio figlio abbia una
carcerazione dignitosa2 ”. Lo studio dell’applicazione del
diritto alla salute all’interno delle carceri, infatti, spesse volte pare
condurre al disvelamento di una tristissima realtà: si potrebbe dire
provocatoriamente (ma non troppo) che si assiste più ad un differimento della
rieducazione che della pena. Gli artt. 146 e 147 c.p., d’altronde, sembrano
essere lenti dislessiche nel momento in cui consentono di osservare il detenuto
perseguendo ratio tanto distinte quanto distanti: l’obbligo
dell’ordinamento di eseguire le pene da un lato ed il diritto alla salute del
detenuto dall’altro. Tale circostanza induce una riflessione di non poco
momento: è il diritto alla salute del detenuto a dover cedere il passo a
vantaggio dell’obbligo, posto in capo allo Stato, di eseguire le pene o è il
contrario? L’art. 27 della Costituzione è chiaro nel rispondere a tale quesito:
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità
e devono tendere alla rieducazione del condannato3 ”. Se è vero,
come è vero, che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, allora,
non si comprende come si possa sostenere che il detenuto debba “adattarsi” al
carcere piuttosto che il carcere al detenuto. La stessa espressione
“incompatibilità con il regime carcerario” tradisce, a ben vedere, una visione
di tale complesso fenomeno scaturente da una prospettiva del tutto erronea: non
spetta, infatti, al detenuto essere “compatibile” con il carcere ma, casomai, è
il carcere a dover essere compatibile con il detenuto. In numerose ipotesi,
infatti, è il regime carcerario a palesarsi come incompatibile con il
detenuto.
Osservare la problematica del diritto alla salute nelle carceri attraverso
una prospettiva secondo la quale è il detenuto a doversi adattare al regime
carcerario conduce a conclusioni che, alla fin fine, ri(con)ducono la questione
alla pericolosità sociale e “secondo [le quali] per il differimento
della pena detentiva è necessario che la patologia da cui è affetto il
condannato sia tale da porlo in pericolo la vita o da provocare conseguenze
dannose rilevanti, esigendo un trattamento terapeutico che - anche tenuto conto
della pericolosità sociale del detenuto valutata comparativamente
- non si possa attuare nello stato di detenzione4 ”. La
pericolosità sociale diviene, fuori dai denti, il discrimine in grado di
determinare la compatibilità o meno del detenuto con il regime carcerario:
troppa, infatti, la discrezionalità che un concetto sì vago getta nelle mani del
magistrato di sorveglianza di turno. Al di fuori dei confini nazionali,
d’altronde, le prospettive di osservazione non sembrano mutare. Si pensi, ad
esempio, ad una recente pronuncia della Corte Europea secondo la quale “Il
regime speciale del 41-bis, previsto dall'ordinamento italiano per fini
preventivi e di sicurezza, non è contrario alla Convenzione
europea. Tuttavia, le autorità nazionali devono prevedere un continuo
monitoraggio e fornire un'adeguata motivazione nel caso in cui il
detenuto per il quale è stato disposto tale regime si trovi in gravi
condizioni di salute e abbia subito una perdita cognitiva grave5
”. La presenza della pericolosità sociale, in sintesi, garantisce
sempre e comunque la compatibilità del detenuto con il regime carcerario ma,
a contrario, non garantisce quasi mai la compatibilità del regime
carcerario con le condizioni psico-fisiche del carcerato. È per tale motivo che
si potrebbe dire che all’interno delle carceri italiane si assiste assai più
facilmente ad un differimento della rieducazione piuttosto che della pena.
La rieducazione, ai sensi della l. 354 del 19756 ,
dovrebbe attuarsi secondo un trattamento che “tende, anche attraverso i
contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale e [dovrebbe
essere] attuato secondo un criterio di individualizzazione in
rapporto alle specifiche condizioni degli interessati”. Tale affermazione,
ictu oculi, sembra ipotizzare una pena del tutto dissimile dal carcere
e, purtuttavia, è noto che “l’interesse per i contenuti della rieducazione
storicamente si accompagna, almeno nell’epoca moderna, al progressivo affermarsi
della pena detentiva come modello dominante di sanzione penale7
”. La riprova del fatto che sia questo “lo stato dell’arte” si ha nella
lettura di un’opera di autorevolissima dottrina che, nel momento in cui predica
che la pena detentiva debba “proporsi la finalità di ricostruire, attraverso
tutti i tentativi utili di rieducazione8 ” e che sia necessario
“superare sia la concezione pan-carceraria sia quella
carcerocentrica9 ” conclude chiosando: “il carcere
rappresenta l’anello di chiusura necessario a reggere la catena sanzionatoria,
ma altre sanzioni vanno previste sin dalla fase della sentenza10
” tradendo, in buona sostanza, un formale sacrificio all’altare della pena
carceraria. È come leggere, a modestissimo parere di chi scrive, le celeberrime
parole di Foucault: “conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e
come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non vediamo con quale
altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione di cui non si saprebbe
fare a meno11 ”.
Tale weltanschauung del diritto penale, al di là delle
apparenze, influenza anche la problematica del differimento dell’esecuzione
della pena per motivi di salute. Se il carcere, infatti, viene visto come lo
strumento principe per contenere la pericolosità sociale e quest’ultima
determina, sempre e comunque, una “compatibilità de facto con il regime
penitenziario”, allora, risulterà, sempre e comunque, assai arduo ottenere il
differimento della pena perché il carcere non diviene solo un’extrema ratio
ma, casomai, esso stesso si palesa come una ratio.
L’(ab)uso del concetto “pericolosità sociale” è, in sintesi,
figlio d’una più estesa visione del diritto penale connotata da un radicato
carcerocentrismo ed esasperata, oggi più che mai, da una politica che vede nel
diritto unicamente uno strumento per attirare consensi. Fino a che continuerà ad
esistere il “credo del carcere”, “un’istituzione al tempo stesso illiberale,
disuguale, atipica, almeno in parte extra-legale ed extra-giudiziale, lesiva
della dignità della persona, penosamente e inutilmente afflittiva12
”, molto probabilmente, continueranno a fare “notizia” detenuti privati
della loro dignità, anche nel momento in cui, a causa di una malattia, sono più
fragili. Si potrebbe dire, con le parole del Ferrajoli, che “di questa
istituzione sempre più povera di senso, di questa macchina disumanizzante, che
produce un costo di sofferenze non compensato da apprezzabili vantaggi per
nessuno, risulta per ciò giustificato, in una prospettiva di lungo termine, il
superamento13 ”, precisando, che ciò “non vuol dire […]
superamento della pena, che equivarrebbe di fatto, al di là delle illusioni dei
suoi fautori, a un sistema di diritto penale massimo, selvaggio e/o
disciplinare14 ” ma, casomai, significa introdurre un
“diritto penale minimo15 ”, inteso come “tecnica di
minimizzazione della violenza nella società: della violenza dei delitti ma anche
di quella delle reazioni ai delitti16 ”. Una buona parte della
dottrina, non a caso, sostiene la necessità di procedere ad una “forte”
depenalizzazione al fine di raggiungere tale obiettivo e, purtuttavia, prima di
ogni altra cosa, sarebbe opportuno “spodestare la reclusione carceraria dal
suo ruolo di pena principale e paradigmatica e, se non abolirla, quanto meno
ridurne drasticamente la durata e trasformarla in sanzione eccezionale, limitata
alle offese più gravi a diritti fondamentali […], i quali solo giustificano la
privazione della libertà personale che è pur essa un diritto fondamentale
costituzionalmente garantito17 ”.
Il diritto penale, in caso contrario, un bel giorno potrebbe
destarsi dai sogni e reincarnare il Gregor Samsa di Kafka: potrebbe, cioè,
trovarsi “tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto. Se ne
st[sarebbe] disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco
che [provasse] ad alzare la testa [potrebbe] vedersi il ventre
abbrunito e convesso, solcato da nervature arcuate sul quale si
[reggerebbe] a stento la coperta, ormai prossima a scivolare
completamente a terra. Sotto i suoi occhi [annasperebbero] impotenti le
sue molte zampette, di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua
corporatura abituale18 ” e non gli resterebbe più alcunché da
fare se non chiedersi “che cosa mi è accaduto?19 ” e sperare
di riaddormentarsi.
Daniel Monni
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