Mario
Lattes pittore
Marco
Salvario
Mario
Lattes, nato nel 1923 in una Torino da lui forse più odiata che
amata e morto nel 2001, è stato un personaggio importante del mondo
culturale torinese ed europeo. Protagonista e ispiratore di
coraggiose iniziative, mi era noto soprattutto nel ruolo di editore e
scrittore; ha infatti diretto la Lattes Editori fondata dal nonno
Simone Lattes nel 1893, ha collaborato a riviste importanti come la
“Gazzetta del Popolo”, ha fatto nascere la rivista “Questioni”
cui hanno collaborato nomi del calibro di Abbagnano, Sanguinetti,
Adorno e Arpino, e ha scritto romanzi e racconti tra i quali ricordo
“Le notti nere”, “Il borghese di ventura”, “L’incendio
del Regio”, “L’amore è niente” e, uscito postumo, “Il
castello d’acqua”. Pur essendosi sempre definito laico, Mario
Lattes nei suoi scritti, sempre connotati da temi autobiografici e
contraddistinti da pessimismo e ironia, palesa le profonde radici
della propria cultura ebraica.
La
Fondazione Bottari Lattes lavora da alcuni anni alla realizzazione
del catalogo generale delle opere artistiche di Mario Lattes anche
nei campi della pittura e dell’incisione e ha allestito due mostre
in contemporanea. A Torino le opere esposte possono essere ammirate
fino al 27 ottobre 2018 presso lo Spazio Don Chisciotte in via Della
Rocca 37B; a Monforte d’Alba fino all’1 dicembre 2018 presso la
Fondazione Bottai Lattes in via Marconi 16.
Mario
Lattes è stato un artista estremamente versatile nella ricerca dei
temi, degli stili, delle tecniche espressive. Spesso il tuo tratto
abbozza, suggerisce, mostra non l’immagine ma la sua tensione
interna: non di una rappresentazione reale si tratta quindi ma di
sogno, ricordo, intuizione, ricerca. La sua opera è sempre pervasa
da un'unica visione, amara e disillusa, che esprime la sofferenza e
la crudeltà del vivere. L’uomo non è in armonia né con la
natura, né con se stesso; non si conosce e non ha risposte ai grandi
misteri con cui si deve cimentare, primo di tutti quello della morte,
a volte irrisa e disprezzata (lo si coglie anche nei titoli di molte
opere: “Scheletro con tunica rossa”, “Cimitero”, “Paesaggio
con teschio e condor”, “Natura morta con vaso di fiori e
teschio”), però sempre temuta come salto verso il nulla e
l’ignoto, nel non-io, nel non essere più. L’uomo è solo e
l’artista si cimenta nello sforzo disperato e inadeguato di creare
un ponte, una comunicazione con il prossimo o almeno, sarebbe già un
successo, di arrivare a comprendere almeno in parte se stesso.
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