06 luglio 2018

SULL’AUTENTICITÀ Prima riflessione a cura di Vincenzo Capodiferro



LAGART
LABORATORIO FILOSOFICO ARTISTICO
ALOISIANUM – GALLARATE

SULL’AUTENTICITÀ
Prima riflessione

Riprendendo il tema della prima lettura di Taylor, Il disagio della modernità, mi sono soffermato in particolare sul concetto di autenticità. L’individuo è un ente speciale. Già Aristotele vi individuava la sostanza ilemorfica e sinolica. Riferito all’uomo però acquisisce un senso ancora più alto, perché l’uomo non è un semplice essere, ma un essere che si pone delle domande, ed heideggerianamente può compiere quel salto qualitativo dal piano ontico al piano ontologico. L’uomo si trova a vivere la situazione struggente della gettatezza, da cui si erge la pro-gettatezza. Ex nihilo omne ens quia ens fit, si chiedeva Heidegger. Ma come avviene il miracolo? Come dal nulla all’essere tutto ciò che è, che esiste? Vi è, risponderemmo con Tommaso, l’actus essendi! L’Uomo è invocato dall’Essere, quell’Essere che aveva sconvolto Parmenide, ed Eraclito nella sua Fenomenologia del purissimo - romantico - Divenire. L’atto di essere non può essere determinato da un Volontà cieca ed irrefrenabile, come quella prevista da Schopenhauer, o dalla Madre e matrigna leopardiana, o dall’Universo Mostro nietzschiano che si ripete all’infinito. O dal Nulla Eterno indigesto e nauseabondo degli esistenzialisti? La chiamata all’essere implica una dimensione vocazionale dell’esistenza. L’esistenza è “uscita fuori all’essere”. Ci sovviene l’«esci dalla tua terra», l’invito rivolto ad Abramo, o l’«Esci!» di Lazzaro dal sepolcro. presuppongono non tanto un ente impersonale, cioè ontico, quanto personale, cioè ontologico, un Chi, non un Cosa. Chi sei, o Signore? Chiese il cieco che riacquistò la vista dopo che Gesù ebbe spalmato sputo e fango sui suoi occhi. Noi siamo Lazzaro, noi siamo Abramo. Dobbiamo uscire dal nulla d’essere, ma non possiamo uscire da soli, se non siamo chiamati dall’Essere. L’autenticità è data dalla risposta, non solo dal riconoscimento, già presente in Martin Buber nell’Ich und Du. Se corrispondiamo all’Essere siamo noi, siamo ciò che dobbiamo essere. Il dio parmenideo, cui crede ancor oggi Emanuele Severino è un dio dell’eterno presente, che ha la sua verità nell’Adesso, la sua eternità è il presente. Il Logos greco si riferisce ad una realtà che c’è da sempre. La domanda dell’uomo sul vero essere, quella che si chiedeva anche Heidegger, a principio di Essere e Tempo, non va formulata confrontando l’essere degli uomini con gli animali - qui Kierkegaard direbbe che il Singolo è superiore alla specie - col mondo, o con Dio, ma confrontata con la missione che gli viene affidata dall’Essere. Questo è il verso senso: l’essere è attesa, è speranza. A questa domanda l’uomo non riceve risposte su ciò che è, ma su ciò che sarà. Ciò che l’uomo è nel corpo e nell’anima lo si dà guardando al vissuto, all’Erleben, di Husserl e di Dilthey. Ma è la possibilità futura che schiude all’uomo il concetto dell’uomo. La vita umana deve essere messa a repentaglio se la si vuol guadagnare: chi perderà la propria vita la conserverà per l’eternità, ma chi vorrà conservarla, la perderà, dice il Signore. Deve darsi se vuole acquistare salvezza e futuro. L’aspettazione del futuro rende l’uomo a dare sé stesso senza riserve e senza restrizioni. Per poter amare è necessaria la speranza e la certezza del futuro. L’amore guarda sempre alle possibilità non realizzate del prossimo e perciò gli accorda la libertà e il futuro. Il mondo non è ancora concluso, ma va inteso come un mondo che è impegnato nella storia, un mondo nel quale si può essere a servizio della verità futura che è stata promessa, della giustizia e della pace. Questo è il tempo della diaspora, il tempo per seminare con speranza, il tempo del dono è l’attesa e l’attesa è dono e sacrificio, perché questo tempo si trova nell’orizzonte di un nuovo futuro. Perciò diventa possibile il dono di sé in questo mondo, l’amore diventa possibile giorno per giorno. La speranza ed il dono di sé diventano possibili in quanto orizzonte di aspettazione che è l’attesa, che trascende il mondo presente. Questa è la vera autenticità la gloria della realizzazione del sé o la miseria dell’alienazione di sé sorgono l’una e l’altra dalla presenza o dalla mancanza di speranza in un mondo che è diventato senza orizzonte. l’inoggettivabilità di Dio - come sosteneva Barth - porta inevitabilmente all’insoggettivabilità dell’uomo, perché l’uomo chiede di sé solo quando Dio vuol far conoscere sé stesso a lui, cioè quando la Parola di Dio gli si rivolge. Seguendo il metodo kantiano la sintesi a priori è possibile solo col materiale finito dei sensi, la visione delle cose ultime, cioè l’escatologia è ritenuta impossibile.
Perciò Mounier, di fronte alla figlia, un batuffolo condannato dalla malattia all’insensibilità, si chiede: Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi? Un figlio d’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai creato poco meno degli angeli. Di gloria e di onore lo hai coronato (Sal 8,5-6). Eppure è pur sempre una persona. Perciò Mounier condanna sia l’individualismo che il collettivismo marxista. Entrambi portano allo sterminio di massa. Che vuoi che sia? Un uomo in più! Un uomo in meno! Se questo è un uomo, si chiedeva Primo Levi. E noi che cosa rispondiamo a questa domanda: cos’è l’uomo? Quale è la risposta che dà più autenticità all’essere uomo? L’essere persona, non una personalità. La personalità è il complesso psicologico dei comportamenti. La personalità è un iceberg, fatto di Es ed Io. Ma l’uomo non è questo, è una persona integrale. Il passato, il presente e il futuro dell’uomo, della persona, non sono gettatezza, ma possono avere tutti e tre il carattere di autenticità o inautenticità, cioè possono diventare pro-gettatezza. E qui ci appelliamo di nuovo ad Heidegger. Il presente inautentico non ha significato, è la routine dei giorni che si susseguono rassegnati l’un l’atro all’infinito. Il presente autentico ha il carattere di vivere quel che ci è dato, è l’accettare l’angosciosa certezza della morte. Quindi è assai difficile intravedere l’orizzonte della storia. Essa non può aver luogo nell’esistenza inautentica: la banalità della vita quotidiana non ha valore per la storia. D’altro canto l’esistenza autentica si riassume nell’attimo dell’angoscia e l’uomo è solo di fronte all’unica certezza: la morte, di fronte alla radicale impossibilità ed inutilità dell’esistenza, che si può accettare, o non accettare. Ma noi, in quanto pensatori cristiani abbiamo anche superato questo scoglio della morte: ci rimettiamo in tutto e per tutto all’Assoluto nel salto nel Nulla, nel Vuoto, nel passaggio attraverso l’Oscura Notte di san Giovanni della Croce, attraverso la Selva Oscura di Dante Alighieri. Con ciò non è detto che siamo al sicuro: qui creavit te sine te, non salvabit te sine te. Possiamo rimanerci per sempre in quell’Oscurità senza fine che tormentava Heidegger, Nietzsche e Schopenhauer, e tutti i mistici atei. La prospettiva cristiana non è altrettanto confortante, come credono i miscredenti. Questo lo avevano ben capito Pascal e Kierkegaard. C’è il salto nel vuoto. L’autenticità avviene nello stadio religioso. Lo stadio estetico porta alla disperazione: guardate Dorian Gray, Andrea Sperelli e tutti gli altri? Lo stadio etico a lungo andare può portare all’esistenza inautentica, alla routine. Solo lo stadio religioso porta alla dimensione autentica, anche nel misticismo ateo di uno Schopenhauer o di un Buddha. L’autenticità è data dalla risposta, che è da un lato responsabilità e dall’altro responsività. Non è solo riconoscimento. Se corrispondiamo all’essere siamo noi. Siamo cioè ciò che dobbiamo essere, perché l’essere per noi è l’eterno futuro, non l’eterno ritorno dei Greci e di Nietzsche, non l’eterno presente di Parmenide. “Io Sono Colui che Sono” noi lo traduciamo come “Io Sarò Colui che Sarò”. “Io ci sarò”. Il principio stesso di identità e non contraddizione si rivolge alla futurità. A sarà A. La non contraddizione avviene, non è già data e basta. L’essere è un qualcosa che si muove, è uno Spirito che si verifica, si avvera. Diventa vero. Questa è l’”Aletheia”: lo svelamento nella temporalità dell’eternità latente, nascosta. Ciò che si manifesta è solo l’apparenza, il fenomeno. Ma nella fenomenicità dell’ente si rivelano già le sue strutture essenziali, come Husserl aveva già formulato nella sua Fenomenologia. Dobbiamo distinguere l’apparente dall’inapparente, l’invisibile, il metafisico, il trascendente. “Trascendentimento” è il discernimento dell’essere. Solo l’uomo può porsi questo interrogativo, perché possiede una dimensione invisibile, interiore. La fenomenologia così può essere ridotta a scienza della coscienza, l’unico luogo, intimo, dove si dà l’ente. Diviene così Coscienziologia. Come sosteneva Padre Filippo Catalano, mio maestro di filosofia, c’è un’evoluzione nel rapportarsi all’essere:

età antica – ens et verum convertuntur
età moderna – factum et verum convertunrtur
età contemporanea - agendum et verum convertuntur

Siamo figli del futurismo, o meglio, del futuro. Whitehead sosteneva che il soggetto è evento percipiente. La Natura è evento totale. Chiudiamo questa prima riflessione con un pensiero di Royce: «Una vita individuale, presente come un tutto, totum simul, come avrebbero detto gli scolastici. Questa vita è insieme un sistema di fatti, e il compimento di ogni scopo che ogni idea finita, in quanto è vera in rapporto al proprio significato, già incorpora frammentariamente. Questa vita è volontà completa, così come l’esperienza completa, corrispondente alla volontà e all’esperienza di ogni idea finita. Ciò che è non è più per noi una mera forma, ma una Vita; e nel mondo di ciò che prima era semplice verità, comincia finalmente a brillare la luce dell’individualità e della volontà. Il sole del vero essere s’è levato di fronte ai nostri occhi. Nello scoprire questo mondo non siamo noi già condotti alla vera definizione della vita divina?» (Il mondo e l’individuo, prima serie, lezione VII,9).


Vincenzo Capodiferro





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