SCHOPENHAUER E MAMMA VOLONTÀ Come le madri rovinano i figli … di Vincenzo Capodiferro
SCHOPENHAUER
E MAMMA VOLONTÀ
Come
le madri rovinano i figli …
Soffermiamoci
solo su una data per argomentare il nostro discorso: 20 aprile 1805.
Muore il padre di Arthur Schopenhauer Heinrich Floris: morte per
incidente, ma si paventa l’ipotesi di un suicidio per
l’insofferenza verso la moglie Johanna Henriette Trosiener. È una
donna vivace, amante dei salotti, scrittrice di romanzi. Ha un
carattere forte, energico: testarda verso il marito, possessiva verso
il figlio. Probabilmente il giovane Arthur non le ha mai perdonato
questo fatto. Litigava spesso con lei. Vero è che da buona
salottiera è lei ad introdurlo negli ambienti romantici e ad
avviarlo allo studio della filosofia, ma Arthur aveva fatto una
promessa al padre, di seguire l’azienda. E lo fece per un po’.
Aveva solo 17 anni: il fior fiore dell’adolescenza. Quale forte
disagio dovette provocare questo evento traumatico sul cuore del
giovane talento! Veniamo a noi: chi può rappresentare la Volontà se
non la personificazione e la trasposizione di Henriette, la mamma di
Schopenhauer? Una forza cieca ed irrefrenabile, deterministica,
totalmente irrazionale: questa è un’immagine perfetta della madre.
Un po’ come Leopardi: anche lì la Natura diviene la trasposizione
della madre, come abbiamo sostenuto già in un piccolo saggio
presentato appunto su Insubria Critica, alla quale siamo molto
affezionati. La madre fa morire il padre, non guarda in faccia a
nessuno. Carattere fondamentale di questa donna è proprio il
vitalismo, “la brama di vivere”. Immaginate un giovane
adolescente? Vede il padre morto! non sa come è morto! Forse
suicida! Per problemi economici? Per problemi di insofferenza verso
la sua amata? Quanto dolore ha dovuto subire il giovane Arthur! Tanto
da fare del dolore l’essenza stessa della vita! «Tra il volere e
il conseguire trascorre intera ogni vita umana. Il desiderio è, per
sua natura, dolore; il conseguimento genera tosto sazietà; la meta
era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione, sotto una
nuova forma si presenta il desiderio, il dolore; se no, ne segue
monotonia, vuoto, noia, contro di lui la lotta è altrettanto penosa,
quanto contro il bisogno» (“Il Mondo”, IV,57). È la famosa
legge del pendolo: «Fra dolore e noia viene qua e là rimbalzata
ogni vita umana». E chiedendosi da ove Dante avesse potuto trarre la
materia del suo “Inferno”, Arthur risponde: - Donde? Se non da
questo mondo? Guardate ai gradi di oggettivazione della Volontà:
dalla Natura all’uomo, in pratica tutto! La Volontà è l’immagine
della madre onnipossente, onniveggente. L’odio di questo giovane
per la madre lo notiamo soprattutto in due aspetti: 1) il ripudio
della procreazione. L’amore non fa altro che promulgare il dolore.
Non fate figli. Li condannate al dolore! Beato chi nasce e muore! 2)
Il rifiuto del suicidio. Chi si suicida fa il gioco della Volontà.
Cioè in altri termini: fa il gioco della madre. Papà non
suicidarti! Faresti il gioco della mamma! È Molto evidente la
correlazione tra mamma e Volontà. Una madre impulsiva, aggressiva,
invadente, non guarda in faccia a nessuno, una furia. Come liberarci
da questa Volontà? Le vie di liberazione dal dolore, esposte nella
seconda parte del “Mondo come Volontà e Rappresentazione”, altro
non sono che vie di liberazione dalla madre. La Rappresentazione è
il Padre, la parte razionale, ma un nulla, cioè un’illusione, un
Velo di Maya rispetto alla Madre: «Ogni rappresentazione, di
qualunque specie essa sia, è fenomeno. Cosa in sé, invece, Essa è
l’intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, e egualmente di
tutto; essa appare in ogni cieca forza della natura; essa anche
appare nella meditata condotta dell’uomo. La gran differenza tra la
forza cieca e la meditata condotta tocca il grado della
manifestazione, non l’essenza della Volontà che si manifesta»
(“Il Mondo”, II,21). Tutte le vie di liberazione (arte,
compassione, giustizia, ascesi) sono tutte vie di liberazione dalla
madre, e il processo culmina nella Noluntas, cioè la negazione
totale della madre, e quindi della propria essenza, proprio come
accade nel processo negativo dell’ultra-oltre-umanesimo
nietzschiano: «All’uomo non basta più di amare altri come sé
stesso e fare per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un ribrezzo
per l’essenza di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la
volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di quel mondo
conosciuto come pieno di dolori» (“Il Mondo” IV,68). In Leopardi
la madre è la Natura, in Schopenhauer è la Volontà. In entrambi i
casi la madre provoca il dolore dei figli. In Leopardi ci si difende
dal male colla social-catena dei figli contro la madre, in
Schopenhauer con la castità assoluta, cioè con l’astensione da
ogni rapporto sessuale colla donna, vista come simbolo del male. Le
donne perpetuano colla maternità il dolore del mondo nella
prosecuzione della specie. L’uomo non è l’animal
politicum,
o l’animal
rationalis,
ma l’animal
dolens,
l’homo
homini
lupus
di Hobbes. L‘animale, pur provando dolore, non è cosciente di
esso: «Giammai tedio non provi» poeta Leopardi, rivolgendosi al
gregge. L’uomo, invece, è un animale particolare, l’unico, dove
– dice Kierkegaard – il singolo è superiore alla specie. È
questo il guaio. Egli è l’ultima creazione di questa crudele mamma
Volontà: una creatura che è il dolore vivente. La Noluntas e chi la
raggiunge? Non certo il giovane Arthur, che nella sua vita si
abbandonò ai più sfrenati piaceri, per dimenticare la madre. Il
Nirvana buddista non c’entra niente, è solo un appoggio per
indicare un Limbo senza madri, l’unico paradiso che emerge nel
chiaramente offuscato misticismo ateo schopenhaueriano.
Vincenzo
Capodiferro
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