"Stanza di pernottamento" di Carmelo Musumeci
Mi
ha fatto amaramente sorridere in questi giorni una circolare del Dipartimento
Amministrativo Penitenziario che cambia il linguaggio burocratico delle carceri
trasformando il lessico e, tra le varie, disponendo di chiamare le “celle” in
“camere di pernottamento”.
Io
penso che nella stragrande maggioranza dei casi, sia già troppo chiamarle celle
perché le chiamerei piuttosto con il loro vero nome: tombe, o ossari, o fogne, o
loculi. La motivazione di questa circolare mi fa indispettire ancor di più
quando afferma che “Le Regole
Penitenziarie prevedono che la vita all’interno del carcere deve essere il più
possibile simile a quelle esterna e questa “assimilazione” deve comprendere
anche il lessico”. In questo modo
è come affermare che ci adeguiamo
a quanto ci sta chiedendo l’Europa, ma in realtà le istituzioni sovranazionali
ci chiedono ben altro. Purtroppo i nostri funzionari italiani sono convinti di
essere furbi e pensano di risolvere i problemi con la carta e la penna cambiando
solo il lessico. Tanto chi mai andrà a controllare come sono realmente le
“camere di pernottamento” delle nostre “Patrie
Galere”?
Ve
lo racconto io che, in 26 anni di carcere, ne ho girate tante di celle! Ecco
cosa ho scritto di alcune:
“Stanza
di pernottamento” a cinque stelle:
La
cella era stretta e corta. Il soffitto era basso. C’era un letto a castello su
un lato. Due tavoli murati dall’altro. Accanto ad essi, due stipetti lunghi e
due corti. Sopra la parete del cancello era murata una mensola sulla quale era
appoggiata una televisione. La finestra era a due ante. Un’anta non si poteva
aprire tutta perché sarebbe andata a sbattere sul letto a castello. La finestra
aveva anche doppie sbarre. In quella cella c’era poco spazio per muoversi. E
quasi nulla per respirare. C’era solo lo spazio per fare due passi. Due avanti e
due indietro.
“Stanza
di pernottamento” a quattro stelle:
Quando
arrivi in un carcere nuovo, devi imparare di nuovo a vivere perché ogni galera è
diversa una dall’altra. È come se ogni carcere fosse uno Stato a sé. Mi misero
in una sezione di “Alta Sicurezza”. I detenuti erano tutti in cella singola. Le
celle erano venticinque. Sembravano degli armadi in cemento e ferro. Erano
divise una dall’altra da uno spesso muro. E avevano un blindato e un cancello
davanti. Ogni blindato aveva uno sportello di ferro con una fessura per passare
il cibo dentro la cella. Poi c’era uno
spioncino rotondo nel muro dalla parte del bagno che consentiva alla guardia di
vedere l’interno senza essere visti. La stanza poteva misurare tre metri
d’altezza. Due metri di larghezza. E tre
di larghezza. Si potevano fare solo quattro piccoli passi in avanti e quattro
indietro. La finestra era piccolissima con enormi sbarre di ferro incrociate.
Muri lisci. C’erano una branda, un tavolo e uno sgabello. Per pavimento c’era
una gettata di cemento grezzo. Ognuno di noi stava chiuso in quello spazio
ristretto per ventitré ore su ventiquattro. Avevamo solo un’ora d’aria al giorno. In
quella sezione eravamo tutti detenuti condannati a pene lunghe. E la maggioranza
di noi alla pena dell’ergastolo. Mi alzavo ogni mattina alle sei. E leggevo per
tutto il giorno. E anche per buona parte della notte. Per mantenere in forma il
fisico facevo sempre ginnastica. Ogni venti pagine che leggevo facevo una pausa.
Poi mi mettevo a fare venti flessioni. E venti addominali. Una per ogni pagina.
E dopo ricominciavo a leggere.
“Stanza
di pernottamento” a tre stelle:
La
cella aveva il soffitto alto ed era lunga dodici passi e larga la metà. Più che
una cella sembrava una caverna. La muffa copriva quasi tutti i suoi muri
scrostati di bianco. In basso la muffa era verdastra, in alto grigia. Il
pavimento della cella era lastricato di pietra grigia. Aveva due letti a
castello a destra e due letti a castello a sinistra. I letti erano dei veri
telai di ferro con materassi sottili, artificiali, pieni di pulci e cimici. Il
blindato e il cancello erano al centro della parete che dava sul corridoio. Due
panche davanti alle sbarre della finestra e un tavolaccio nel mezzo. Quattro
stipetti grandi e quattro piccoli, un televisore in bianco e nero appoggiato a
una grossa mensola attaccata alla parete centrale. C’era un lavandino con sopra
un rubinetto arrugginito e accanto un cesso alla turca, con nessuna
riservatezza. Le formiche erano le padrone durante il giorno e gli scarafaggi
erano i padroni nel corso della notte. I topi erano i padroni sia di giorno che
di notte…
“Stanza
di pernottamento” a due stelle:
La
cella era umida. C’erano macchie di umidità alle pareti. La finestra era piccola
con un muretto davanti per impedire di vedere l’orizzonte. Si poteva vedere solo
uno spicchio di cielo. C’era un po’ di ruggine sulle sbarre. L’aria sapeva di
chiuso. I muri odoravano di muffa. Nella cella c’era un tavolo attaccato al
muro, uno sgabello impiantato nel pavimento, una branda inchiodata per terra e
uno stipetto fissato alla parete.
Nient’altro.
“Stanza
di pernottamento” di punizione a una stella:
Scendemmo
una scala stretta e rigida con i gradini di pietra. Poi
sbucammo in un corto corridoio che sembrava un sotterraneo. La guardia davanti
si fermò alla prima cella. Era chiusa con un pesante blindato di ferro e con
macchie di ruggine dappertutto. La guardia infilò nella serratura una grossa
chiave di ottone e la girò con fatica. La porta di ferro si aprì cigolando. Poi
la stessa guardia con un’altra chiave aprì il pesante e spesso cancello. E si
mise di lato per farmi passare. Aggrottai le ciglia ed entrai. Le guardie
uscirono dalla cella sbattendo il cancello. E chiusero il blindato con una
mandata. Mi colpì subito un forte odore di umidità. E di urina. La cella era
quasi buia. Per un attimo mi guardai intorno con lo sguardo spaesato. E mossi la
testa da un lato all’altro. Poi esaminai la cella. Era piccola. Misurava quattro
passi di lunghezza e due di larghezza. Faceva caldo. Le doppie sbarre della
cella scottavano sotto il sole rovente. L’acqua che scendeva dal rubinetto non
era potabile. Era marrone.
“Stanza
di pernottamento” di transito:
La
cella sembrava una scatola di sardine. Un fazzoletto di cemento, con la branda
piantata al pavimento. Un tavolino di pochi centimetri inchiodato al muro. Una
finestra con doppie sbarre. Una porta blindata spessa una spanna. Un bagno turco
aperto, senza nessuna riservatezza. A lato un piccolo lavandino. Lo spazio nella
stanza era minimo e a mala pena si riusciva a stare in piedi e si poteva fare
giusto qualche passo avanti e indietro. Probabilmente un animale vivendo in quel
modo sarebbe morto.
“Stanza
di pernottamento” di isolamento:
La
cella mi sembrò subito diversa da tutte le altre dov’ero stato. Le pareti erano
grigie, fradice di muffa, dolore e
umidità. Puzzavano di ferro, cemento armato, sudore e sangue. Il soffitto era
giallo di nicotina. Le sbarre della finestra erano le più grosse che avessi mai
visto. Mi sembrava di essere in un pozzo nero. In una vera e propria tomba.
Mancava l’aria e la luce. Dalla finestra della cella si poteva vedere solo una
fetta di cielo, solo dalla parte più alta. Nella finestra c’erano doppie file di
sbarre e, per completare l’opera, c’era
una rete metallica fitta.
Aprile
2017
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