IMMAGINE CONVESSA – POESIE a cura di Vincenzo Capodiferro
IMMAGINE
CONVESSA – POESIE
Una
raccolta che si spiana tra le spine che attorcigliano il cuore del
Sud
L’Italia
può essere immaginata come una persona, di cui il Nord è la testa,
le Alpi sono i capelli, il centro è il cuore, il sud sono le
viscere, la Calabria e la Puglia sono le gambe e i piedi. I versi di
Vincenzo D’Alessio, come al solito sono pungenti e diritti,
colpiscono al centro. Ma il centro, il cuore, è legato al Sud, al
basso, più che al cervello. Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra
nel 1950. Si è laureato in Lettere all’Università di Salerno. È
stato grande promotore culturale: basti pensare a proposito al Premio
Città di Solofra ed al Gruppo Culturale “Francesco Guarini”. Ha
pubblicato saggi di storia, archeologia e diverse raccolte poetiche,
tra cui segnaliamo La
valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara
2012, più volte ristampata). Io debbo ringraziare Vincenzo per
avermi, in questa ultima raccolta, Immagine
convessa. Poesie edita
da Fara, Rimini 2017, dedicato una bella poesia. Ha ricordato anche
le maestre, - nostre care - Ida e Teresa. Sono Ida Iannella e Teresa
Armenti, le nostre maestre che ci hanno seguito nella formazione
nella Scuola Media Ciro Fontana. È il pensiero di un padre, di chi
per noi è stato sempre una guida, un riferimento. Il circolo dei
poeti Irpini ci ha sempre ispirato. L’Irpinia e la Lucania sono
state da sempre in fraterno abbraccio. Come scrive Anna Ruotolo di
quest’opera: «Ciò che noi vediamo dell’occhio umano è una
forma convessa: è questo movimento del gettarsi in alto – avanti,
in un emiciclo che comprende e introietta tutto». Rileggiamo
brevemente anche il giudizio di Teresa Armenti: «C’è tanta
amarezza in questi versi, che riflettono la condizione dell’uomo
oggi – umanità sfatta senza suono: i giovani che crollano dentro
sogni vuoti, sono prigionieri delle nuove tecnologie e non riescono
più a dialogare con la natura. L’autore trova conforto nei ricordi
di un mondo contadino ormai scomparso». Sulla copertina si trova
l’immagine di un giovane, Antonio D’Alessio, figlio di Vincenzo,
scomparso prematuramente. È forse questa l’immagine convessa cui
Vincenzo si riferisce! Non è facile capire l’amarezza del dolore
della perdita: il tema del Sud si intreccia in questa terra della
perdita. Non si può guardare il mondo più allo stesso modo: è
difficile. Il dolore sconvolge la vista, l’immaginazione. E scrive
ancora Alessandro Ramberti nella prefazione: «Ecco, in D’Alessio
la poesia è dramma, mette in scena le condizioni del Sud e al
contempo le contraddizioni di ciascuno di noi (perché in ciascuno
c’è una parte violenta, un lato oscuro, il desiderio di imporsi,
di disfarsi di quel che in noi e negli altri può ostacolare
l’autoaffermazione …) …». Il tema centrale come sempre è il
Sud, terra di magia, ma nello stesso tempo di disillusione – la
magia intesa come facoltà illusoria – velo di Maya – terra di
magia bianca, rossa e soprattutto nera. Per uscire dal marasma del
Sud, colorato di modernità, ma ancestrale, Vincenzo si rifugia, come
tanti altri intellettuali, nel mito dei contadini scomparsi, questi
contadini tanto celebrati da Scotellaro e da Levi. Leggiamo i suoi
versi: «Dio maledica/ la terra dove/ non si affrancano/ i contadini
dall’ignoranza …». Ci sono solo quelli che sono rimasti: chi non
se n’è andato. Pochi siamo meglio siamo: cantava Arbore. Eppure
nei suoi versi si respira un’oasi di nostalgia, di romantica
sensucht: il ricordo senza ritorno. Un uomo senza origini è perso.
Ma siamo tutti figli di quei contadini spariti. «L’urlo della
trebbiatrice» (p. 23) ci ricorda le poetiche di Palazzeschi, e
perché no? Il pianto della scavatrice di Pasolini. «L’odore del
grano» (p.32) è commovente. Ci fa ricordare i tempi antichi, quando
anche noi andavamo a raccogliere i covoni dietro i mietitori. Una
volta ricordo che mio zio Carmine mi portò a mietere riponendomi nel
canestro dell’asino. Ma come possiamo dimenticare quel mondo dei
contadini, in cui siamo cresciuti nella nostra infanzia? Di fronte a
quest’ansia romantica dell’eterno non-ritorno si avverte
l’angoscia, la disperazione, il pessimismo, la noia, l’abbandono.
Il pessimismo cosmico d’alessiano è vicino al ciclo dei vinti di
Verga. Lo inter-leggiamo nei suoi versi, ad esempio: «Nei piccoli
paesi i gelsomini/ piangono dietro mura antiche/ l’edera rinnova il
patto con le case/ l’erba cedrina profuma il teatro/ del tempo …
». o nel ricordo dei pastori: «Tornano i lupi/ sulle montagne/
ovili vuoti si cibano/ di miti, muoiono solitari/ nei boschi di faggi
… ». Non deve farci scoraggiare questa immagine convessa. L’arte
è espressione del vero, oltre che del bello, o del sentimento, di
crociana memoria. L’arte si fa denuncia-annuncio. L’arte svela
ciò che è nascosto. Ciò che è nascosto sarà gridato sui tetti.
L’arte è vangelo, è buona novella, è alheteia:
svelamento
di ciò che era nascosto, dimenticato. Così questa immagine convessa
diventa stimolo per il cambiamento. La poesia del D’Alessio
d'altronde è votata alla prassi, proviene dalla letteratura del
socialismo, dell’avanguardia: «”I miei compagni mi/ aspettano a
Stalingrado!”». L’immagine che noi ci facciamo è l’Idea: da
“Vid”, “video”, “videor”. L’immagine convessa è
contraria di quella concava. Quella concava è accogliente
onni-abbracciante, quella convessa è respingente, è come uno
sperone che si scaglia sulla realtà. È una vista ostica, dura, che
colpisce. Ma quel ciclo dei vinti verghiani si trasfigura poi, alla
fine in un ciclo di vinti quasi manzoniani: Dio «parla al silenzio»
(p. 65) e «ci consola/ della salita dopo la croce» (p. 66).
Vincenzo
Capodiferro
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