GIACOMO ED ADELAIDE L’interpretazione della Natura leopardiana come personificazione della madre- a cura di Vincenzo Capodiferro
GIACOMO
ED ADELAIDE
L’interpretazione
della Natura leopardiana come personificazione della madre
La
Natura madre e matrigna non è altro che la personificazione della
madre di Giacomo Leopardi, Adelaide Antici. La condizione familiare
infuisce variamente sulla formazione del giovane Leopardi. Il padre,
Monaldo è un erudito, possiede una ricchissima biblioteca. La madre,
la marchesa Adelaide Antici, con un marito scialacquatore, prende in
mano l’amministrazione familiare, che conduce con una marcata
rigidezza. Lo zio Carlo Antici, era uomo colto, ma reazionario. A 15
anni il ragazzino aveva già studiato un sacco di libri, imparato
lingue, avviato gli studi in filologia. Perché? Il giovane cercava
una risposta al profondo dramma familiare. Il pessimismo cosmico e
storico di Leopardi in verità non è altro che il riflesso del
pessimismo e dell’angoscia della sua infanzia. La vita
dell’universo è un continuo ciclo di produzione e di distruzione.
A nulla vale rimproverare la Natura, madre e matrigna. A nulla vale
chiedersi il perché dell’infelice vita dell’universo. L’essere
delle cose ha come unico obiettivo il morire, mentre la Natura rimane
intatta, indifferente alla sorte dei singoli. Sul fondo di questo
assoluto pessimismo è vana la pretesa dell’uomo di poter sfuggire
all’infelicità: «piacer figlio di affanno». Il fondo naturale
dell’umore del giovane è il dolore: gli unici momenti di piacere
derivano dalla fatica, cioè da uno sforzo. Si rivela un giovane
depresso, angosciato. Nel “Dialogo della Natura e di un islandese”
l’abitatore delle regioni ghiacciate, alla vana ricerca di un luogo
più confortevole, deve constatare l’indifferenza della Natura alla
vita dell’uomo e l’irragionevolezza delle proprie rimostranze.
Come non vedere nell’abitatore dei ghiacci Giacomo e nella Natura
la madre Adelaide? Il ghiaccio è sinonimo di freddo di un amore
glaciale, di un odio covato dalla madre nei confronti del figlio.
Nello “Zibaldone” abbiamo una testimonianza indiretta della
madre. Non è il caso di riportarla. È una madre possessiva che odia
i figli. Voi immaginate cosa il povero Giacomo avesse dovuto subire
da questa madre-padrona, donna-domina, sadica, una Medea, che
esclama, come in Euripide: «non consegnerò mai i miei figli al
ludibrio dei miei nemici. Devono assolutamente morire: e se è così,
sarò io, che li ho messi al mondo, ad ucciderli». Così in quella
descrizione la madre odia talmente i figli che preferisce che
muoiano, pur di non farli cadere tra le mani dei nemici, cioè tra le
tentazioni del mondo, che dannano l’anima. La madre esalta il
figlio malformato: il “gobbo di Nôtre Dame”!. Meglio nascere
malformato che cadere tra le grinfie del mondo. O secondo il canone
giansenista: beato chi nasce e muore! C’è un risvolto quasi comico
del tragico destino dell’uomo: di essere vittima della sua stessa
aspirazione alla felicità. La stoltezza ti porta ad abbandonare le
belle immaginazioni della fanciullezza ed ad accogliere le vanità
dell’intelletto. Un altro esempio del dialogo interiore tra Giacomo
e la madre lo ritroviamo nel “Dialogo della Natura e di un’anima”:
qui la Natura rimprovera l’anima: sii grande ed infelice! -
rivelando la contraddizione tra grandezza ed infelicità. È la madre
che rimprovera il figlio di essere famoso, grande. Prova quasi un
senso di invidia verso di lui, che pur essendo malformato è riuscito
con la poesia e l’arte a diventare un grande. Pensate che questa
madre vieta al figlio perfino di scriverla. Riprendendo i testi si
avverte profondo sotto le righe questo senso di angoscia che prova il
giovane Giacomo, oppresso dalla madre. Lo ritroviamo ne “Il passero
solitario”, dove il poeta echeggia: «quanto somiglia/ al tuo
costume il mio!», molto diversamente dal nido pascoliano. Sollazzo e
riso, cioè divertimento e piacere sono lontani da lui. Non a caso il
poeta usa il termine “famiglia”: «Dolce famiglia dell’età
novella» e si sente quasi «romito e strano» al suo luogo natio,
cioè alla sua famiglia stessa. Lo rivediamo ne “L’infinito”
ove l’”ermo colle” rappresenta il seno materno che occlude lo
sguardo. Anche qui la dolcezza del naufragio, indica l’angoscia
traumatica del rapporto materno che si protrae all’infinito come un
mare che circonda la sua anima e lo annega. Il bambino prova una
terribile sofferenza già venendo al mondo, in quanto deve uscire dal
grembo materno con molti sforzi e questa situazione traumatica, che
si profila all’inizio della vita extra-uterina, imprime il suo
sigillo proprio nell’esperienza dell’ansia. La radice indoeuropea
di questo termine non a caso è “ang” - in latino “angustia”
- ed indica appunto un posto stretto, una porta stretta. Lo dice lo
stesso poeta in “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”:
«Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morte il nascimento./
Prova pena e tormento/ per prima cosa: e in sul principio stesso/ la
madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato». Il
bambino odia il genitore dello stesso sesso e questo finisce per
generare il sentimento di colpa. La noia è il sentimento dominante.
Il poeta trasferisce la propria esperienza nella situazione del
pastore che percorre i deserti, mentre la Luna, cioè la madre, è
sempre là, nel suo io, a tormentarlo. Questo poeta-pastore passa
infatti sempre in giro, da Recanati, a Roma, da Firenze a Napoli. La
descrizione della Luna, “silenziosa”, “pensosa”, etc. è
quella della madre triste, depressa, malata. La luna, come la madre è
impenetrabile, di qui la domanda senza risposta: «Che fai tu luna in
ciel? Dimmi che fai». Sarebbe come dire: perché mamma sei così,
sempre triste, perché? Che hai? Il pastore invidia il gregge, perché
“giammai tedio non provi”. Meglio sarebbe stato nascere come un
animale, che come un uomo! La colpa edipica in Giacomo la possiamo
avvertire in “A Silvia”, l’emblema dell’amore morto,
incompiuto, impossibile. Si sa che il giovane si innamora di figure
simil-materne. E ne “La quiete dopo la tempesta” si scorge ancora
la breve calma dopo gli attacchi isterici della madre: «Pene tu
spargi a larga mano; il duolo/ spontaneo sorge: e di piacer, quel
tanto/ che per mostro e miracolo talvolta/ nasce d’affanno».
Questo è il miracolo della gioia, che può spuntar fuori dal dolore.
Quindi c’è uno stato di dolore, e angoscia permanente. Questo
tableu umorale così tetro del giovane Leopardi è intervallato da
brevi spazi di gioia. Un fenomeno simile avviene nella sublimazione
filosofica di Schopenhauer, ma questo merita uno studio a parte. E
ancora ne “Il sabato del villaggio”: «Questo di sette è il più
gradito giorno,/ pien di speme e di gioia:/ diman tristezza e noia/
recheran l’ore, ed al travaglio usato …». Il “travaglio usato”
è l’angoscia quotidiana. La domenica è la giornata che si svolge
in famiglia. Anche in questo idillio c’è una rievocazione paterna,
quella dell’artigiano lavoratore. Il padre, grande Artigiano,
correlato con la madre Natura è presente in vari idilli. Un altro
esempio lo abbiamo, ne “La sera del dì di festa”: «Odo non
lunge il solitario canto/ dell’artigian, che riede a tarda notte/,
dopo i sollazzi al suo povero ostello». La fuga del giorno festivo
si ricollega alla longevità del sabato. La correlazione
Natura-madre, è presente, ad esempio, in “Alla Primavera o delle
favole antiche”: «Vivi tu, vivi, o santa/ natura? Vivi e il
dissueto orecchio/ della materna voce il suono accoglie?». Il poeta
chiaramente paragona il suono della Natura alla voce materna. E pure
nell’”Ultimo canto di Saffo”, il poeta esclama: «Negletta
prole/ nascemmo al pianto, e la ragione in grembo/ de celesti si
posa». In altri termini: siamo figli nati per piangere, per soffrire
a causa di nostra madre. Perche tutto questo? Perché ci è accaduto
questo destino? La ragione è trascendente: cioè non riusciamo a
spiegarcelo. Ma il carme più significativo, ove si prefigura il
rapporto figlio-madre è “La ginestra o il fiore del deserto”.
Anche qui è molto chiaro il simbolismo: lo “Sterminator Vesevo”
è la madre isterica, la “ginestra” è il figlio che resiste, la
social catena, o socialismo contro la Natura è l’unione dei figli
contro la madre. Il caso di Leopardi è uno strano caso, come “Lo
strano caso di Benjamin Button”, e la madre sarebbe come un
“Terminator”. Il fiore del deserto è Leopardi che resiste
all’aridità della madre, intervallata da eruzioni di ira. L’arte
nasce dal dolore. La poesia nasce dal dolore. Il pessimismo di
Leopardi nasce dalla sua vita, dalla sua infanzia perduta,
oltraggiata. Così si spiega un giovane ateo, materialista,
meccanicista, contro i genitori, invece, religiosi e cristiani.
L’unica speranza è la social-catena, nata dalla generalizzazione
del dolore. Siamo tutti figli di una madre malefica, che non ha
cuore, non ha pietà di nessuno. Anche Kant vede la Natura nello
stesso modo e stranamente Kant ha una madre pietista. Giacomo
Leopardi, bambino inerme, indifeso, ama la madre, che lo odia, però
la sua condizione infantile lo poneva in una situazione di abbandono
tra le braccia della madre, che a volta pone il figlio in una
situazione di abbandono. La visione della Natura madre, cioè
accogliente, e matrigna, respingente è la sublimazione del complesso
materno. Il giovane perde ogni fiducia e cerca nello studio la
risoluzione dei suoi problemi. Si perde nella biblioteca paterna, è
un bambino prodigio. Si rifugia nella filologia, nel materialismo
settecentesco: qui trova le sue risposte. È il meccanicismo freddo,
insensibile della madre odiante. Poi la poesia diventa il canto del
dolore, l’universalizzazione del sentimento ed in questo funge da
catarsi: rivelare simbolicamente il proprio tormento libera dai
complessi antichi. Solo un giovane così oltraggiato, violentato, può
capire appieno il senso della vita. Questo senso gli viene dato da un
dolore psicologico che viene universalizzato: diventa il dolore
cosmico. Il dolore interiore viene esternato fino al massimo grado.
Però da questo male estremo Dio ha potuto trarre il più gran bene:
la poesia, l’arte. Leopardi vive in un’atmosfera polare: l’odio
è mancanza di amore, il freddo è mancanza di caldo. Torniamo un
attimo a questa emblematica figura dell’”islandese”.cosa ha
potuto indurre una ,madre ad odiare talmente il figlio? Può capitare
- Dio non voglia - o che una donna cade in depressione post partum, o
perché odia il partner. Adelaide d'altronde aveva avuto morti
premature di infanti, aveva subito il dolore della perdita. Il padre
Monaldo è generoso, cioè prodigo, intelligente, disponibile con
tutti, un patriota, un buon cittadino. La madre è avara, fredda,
acida. Il padre è assente, la madre è onnipresente, la quale
aggredisce, divora. Adelaide non sopporta l’atteggiamento
scialacquatore di Monaldo. Prende in mano il potere della casa,
diventa una matriarca. Giacomo è un figlio che non doveva nascere,
che magari avrebbe abortito. È un aborto mancato. L’odio che la
madre riversa sul figlio diventa autodistruzione, rinnegamento,
disprezzo: non sono più una madre. Cade l’equilibrio felice del
rapporto genitore-figlio. Molte madri arrivano a buttare i figli
appena nati. D'altronde lo stesso Leopardi nella descrizione di una
madre dello “Zibaldone”, riporta una nota molto pungente: i figli
costano! Perciò è meglio non averne proprio! Il prototipo
padre-madre rappresenta così un dualismo tra due fedi diverse, una
improntata alla carità, l’altra al dogmatismo. Contro questo
dogmatismo si ribellò lo stesso Kant. Il microcosmo leopardiano
passa dal deserto di fuoco, tipico della “Ginestra”, al deserto
di gelo, tipico della figura dell’islandese. Il fiume d’arte che
sgorga dalle mani di questo giovane è come il filo della tessitrice
che dal telaio tira la trama e l’ordito. L’arte è
trasfigurazione della Passione. Questa passione del giovane umiliato,
crocifisso tutti i giorni, si trasfigura così nell’espressione del
sentimento. La Natura è madre e matrigna, cioè madre e non-madre.
Giacomo non riconosce più l’identità della madre. Ma la matrigna
è colei che fa i figli con un padre diverso: ci sono i figli e i
figliastri. Giacomo è simbolicamente un figliastro, cioè non è il
vero figlio della madre, non perché non lo è, ma perché,
psicologicamente non si riconosce come vero figlio. C’è
un’ambiguità profonda nella Natura leopardiana: è la stessa che
esprime la doppiezza del rapporto materno. Sfuggono ai lacci della
natura solo i figli ribelli, come sfuggono alla madre i figli
ribelli: di qui c’è l’esaltazione di Prometeo, anche se “La
scommessa di Prometeo” smantella sarcasticamente l’illusione
della perfezione del genere umano. Il pensiero leopardiano sembra
oscillare tra queste due visioni della madre che lo tormentano: la
Natura ora appare benigna, perché fornisce all’uomo
l’immaginazione, o perché lo colloca originariamente in un luogo
beato, come Dio nell’Eden, o perché essa stessa offre l’inganno,
come il velo di Maya di Schopenhauer, ora è maligna, perché
indifferente alla sorte dell’uomo. Questa provvede solo alla
conservazione della specie, se ne frega della felicità dei singoli.
Questa Dea, la Natura, è la personificazione della madre. La colpa
della Natura si riversa nella civiltà: qui l’uomo si allontana
dalla natura per creare una nuova natura: la Ragione, già celebrata
nei Lumi del Settecento. Questa crea infelicità, perché smantella
le favole dell’immaginazione. Il piacere, impossibile come realtà
attuale, diventa così sempre virtuale, ma fonte di dolore. Il senso
dell’abbandono provoca ritrosia, indegnità, indecisione,
sconcerto, dinanzi questa madre natura, aspra, selvaggia e forte. C’è
in Leopardi questa illusione, già illuministica, una tesi
provvidenzialistica per cui Dio, o La Natura, che è la Dea Madre in
cui crede Leopardi, pur attraverso l’infelicità dei singoli
individui, conseguirebbe la felicità dell’umanità. Questa
variante la troviamo nel mito positivo della civiltà moderna, che
assicura, se non la felicità degli individui, quella delle masse. Ma
è una vana illusione. In Leopardi non c’è la “mano invisibile”
di Smith. Anzi questa mano invisibile della natura in Leopardi porta
all’infelicità, perché da un lato porta alla conservazione della
specie, per cui la Natura sempre tende a questa attraverso l’istinto,
per cui il piacere è il mezzo illusorio attraverso cui la Natura
propaga la specie, dall’altro lato è stesso la Natura che produce
la civiltà, come illusione. Ma la lotta contro la Natura è
disperata. Non c’è speranza. L’illusione del piacere come mezzo
di propagazione istintiva della specie, cioè come mezzo della
Natura, altro non è altro che la condanna mascherata del rapporto
sessuale genitoriale. Il figlio condanna l’amore, maledice il
rapporto sessuale trai genitori: perché mi avete generato? Perché
mi avete condannato all’infelicità? Ma la Natura non se ne frega:
il suo scopo è quello di fare i figli. Questi figli sono generati
per dovere, non per amore! Questo è il dramma di Leopardi. Anche il
mito dell’età dell’oro, cioè della prima infanzia cade: lo
vediamo nella filosofia della storia leopardiana, espressa, ad
esempio, nella “Storia del genere umano”. Gli uomini prima come
fanciulli si pascono di speranze, poi si annoiano per la sazietà
della vita e chiedono a Giove la morte. Poi vengono rianimati per
volontà di Giove, che li culla con inganni dell’immaginazione. Poi
nasce la storia attuale, dominata dal “male di vivere”,
dall’incontentabilità, l’infelicità e il fantasma dell’amore.
Concludiamo riportando un passo meno noto in cui il poeta paragona
gli hegeliani eroi cosmici a pedine della Natura: «Alessandro e
cento altri tali sono, secondo la Natura e la fama grandi, secondo la
ragione pazzi, e la pazzia, secondo la ragione è sempre piccolezza;
che appena può succedere che altri sia grande e faccia cose grandi,
s’ei non è signoreggiato dalle illusioni, e che sia stimato
grande, se le illusioni non hanno forza in altrui; che quando
crescerà l’imperio della ragione, tanto, snervate e diradate le
illusioni, mancherà la grandezza degli uomini e dei pensieri e dei
fatti» (Dai “Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica”). All’età degli dei e degli eroi, come crede Vico,
succede poi sempre quella degli uomini. Ma poi la storia sempre si
ripete. Ma la storia è pura illusione rispetto alla Natura: gli eroi
muoiono, ma fanno sempre il gioco della Natura, che è duplice:
l’immortalità della specie e l’illusione della civiltà e della
ragione, che produce il perenne velo di Maia. La Natura madre e
matrigna è la personificazione della madre, Adelaide Antici.
Vincenzo
Capodiferro
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