Le Cayenne italiane. Pianosa e Asinara: il regime di tortuta del 41 bis (a cura di) Pasquale De Feo
“Questo libro raccoglie
testimonianze di persone che hanno trascorso anni e anni in regime di 41bis. Di
cosa si tratta nello specifico capirete dai loro racconti.
È
cosa che va oltre quanto è possibile immaginare scorrendo le pur inumane
restrizioni a cui detenuti in regime di 41 bis sono sottoposti… Ma tanta
brutalità non nasce dal nulla. Nei miei lunghi anni di carcerazione ho letto e
riletto della storia d’Italia interrogandomi sulle cause delle condizioni del
nostro Sud e della gente che lo abita. È una storia, ho
capito, che parte da molto lontano...” Pasquale De Feo
Postfazione di Francesca de Carolis
a
Le Cayenne italiane. Pianosa e
Asinara: il regime di tortuta del 41 bis (a cura di) Pasquale De
Feo
Ho avuto fra le mani le bozze di questo libro nei giorni degli attentati
di Parigi. E di tutto quel che ne è seguito, a proposito di allarmi, emergenze,
invocazioni e promesse di misure “speciali”, annunci di modifiche di pezzi di Costituzioni…
Difficile in questi momenti non farsi sovrastare dalla commozione, non farsi
annebbiare la mente da paure, anche irrazionali. Ma ancora una volta ho tremato
al pensiero di reazioni e provvedimenti che vanno nel senso di sospensioni del
diritto, che spianano la via a violenze e orrori, da infliggere ad “altri”.
Nemici di turno, senza andare troppo per il
sottile.
E le testimonianze raccolte in queste pagine sono qui a ricordarci quello
che di inimmaginabile può accadere, come è accaduto, sull’onda dell’emergenza,
nel nostro passato prossimo. Cose, si sottolinea, che nessuno conosce. Cose che
se pure se ne è sentita l’eco, forse si preferisce cercare di non sapere…
Inviate a Pianosa e all’Asinara, negli anni ’90, persone appartenenti, o
presunte tali, ad associazioni di stampo mafioso, presero, dopo un breve
intermezzo, il posto lasciato da persone che avevano partecipato alle bande del
nostro terrorismo, per le quali quelle specialissime carceri furono allestite.
Sembra basti questo per giustificare un’alzata di spalle. La parola “mafioso”
sembra essere diventata una parola “magica” che a tutto ci autorizza, in termini
di repressione e violenza nei confronti degli individui. Ci autorizza ad aprire
pericolose aree di sospensione del diritto. Dimenticando che la negazione dei
principi dello stato di diritto nei confronti del peggiore di noi, non può che
aprire gravissime falle nella democrazia ed è cosa che prima o poi tutti può
toccare… Le leggi emergenziali, che tutto sembrano giustificare, diventano buchi
neri nei quali tutto può precipitare. A cominciare dalla nostra “civiltà”.
Basta
guardarsi appena alle spalle. C’è un filo rosso che lega quel che accadde a
Pianosa e all’Asinara ai fatti di Genova. Abbiamo dimenticato le inaudite
violenze della caserma Bolzaneto trasformata in un vero e proprio lager dagli
agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria? Il Gom… che in
realtà raccolse l’eredità di un altro reparto, lo “Scopp”
(Coordinamento delle attività operative di polizia penitenziaria), istituito nei
primi anni ’90 … Dunque non parliamo delle “mele marce” con cui
si giustificano, per quel che si può, singoli atti di violenza che qua e là pure
saltano fuori nell’ordinaria vita del carcere. Ma di corpi di polizia che hanno
agito su disposizioni precise. Come accadde anche nella scuola Diaz. E vittime
furono uomini e donne, giovani e vecchi. Di ogni nazionalità e lavoro. Studenti,
operai, qualche professionista. Lì dentro poteva esserci chiunque di noi.
Nell’aprile di quest’anno per quei fatti la Corte Europea ha condannato
l’Italia: fu tortura. Peccato che il nostro ordinamento non preveda il reato. E
il parlamento non trovi tempo e modo di colmare questo buco
nero.
Pianosa e l’Asinara… le violenze,
le vessazioni, le indecenze… E sappiamo che ci furono morti, “pentimenti”,
suicidi.
Credo ci sia voluto un gran coraggio a ricordare e raccontare di quel
tempo. Perché il timore è anche di non essere creduti (come accadde a molti dopo
Auschwitz). Perché quello che scatta è anche la vergogna profonda per aver
subito vessazioni che tendono ad annullare l’individuo ( come può accadere a chi
ha subito la contenzione negli ospedali psichiatrici, ad esempio).
Da alcuni anni scambio lettere con Pasquale De Feo, che questo libro ha
voluto e curato. Dal carcere di Catanzaro prima, dalla Sardegna, Massama,
adesso, dove De Feo è stato lo scorso anno trasferito, e dove ancora si trova
mentre andiamo in stampa. Cattivissimo “per sempre”. E c’è da chiedersi se c’è
da ragionare sull’irragionevolezza della carcerazione, se più di trentatré anni
non sono bastati a “migliorare” un uomo. Eppure, questo “cattivissimo” che le
leggi emergenziali, diventate come si sa ordinarie, vogliono inchiodato al
momento del reato, molto mi ha insegnato. Tutt’altro che cattivo maestro. Perché
Pasquale è persona che in carcere molto ha letto e studiato. E leggendo, e
studiando, e approfondendo, ha cercato e cerca nelle vie della Storia le ragioni
anche della sua storia individuale. Mi manda spesso, Pasquale, libri sulla
storia d’Italia e del Meridione, facendomi anche vergognare di mie ignoranze in
proposito, io che pure sono nata a sud del Garigliano, e lì mi è rimasto il
cuore.
E molto mi ha insegnato, e insegna a tutti noi con questo libro, sul
dovere della memoria.
Non dobbiamo permettere, ci dice, che le cose terribili commesse
all’Asinara e a Pianosa scivolino nell’oblio. Perché ciò che non si ricorda non
si corregge e si ripete. E l’abbiamo visto.
Ma siamo sempre in tempo a conoscere e scandalizzarci per gli episodi,
della nostra storia che è appena ieri, che ancora non ci fanno scandalo. Serve,
e questo è il punto, per cercare di stare bene attenti, almeno oggi, a non
accettare cose di cui potremmo scandalizzarci e vergognarci in futuro, accecati
da questa parola, “emergenza”, che tutto ( e quindi niente) sembra significare
ma tutto vuole giustificare.
Da quando mi è capitato di leggerne, sempre ricordo un memorabile
intervento dai banchi dell’aula del Parlamento, dove
sedeva fra le fila dei Radicali, di Leonardo Sciascia. In tempo di terrorismo,
intervenuto per invitare a non abdicare ai principi dello stato di diritto, era
stato accusato di “alleanza oggettiva” con i nemici di allora. Le sue parole:
“sono stanco di essere accusato di alleanze oggettive con questo o con quello…
queste alleanze, mosse in accusa a chi difende certi diritti civili che si
vogliono dimenticare, o a chi discorda da opinioni che si vogliono totalitarie,
è uno dei ricatti che più pesa nella vita
italiana”.
Chiedendomi
se questa convinzione avrebbe tenuto ferma anche nei confronti di mafiosi,
presunti e non, Sciascia che in maniera così profonda ha
indagato e
raccontato la Mafia e le sue violenze. La mia intima convinzione è che sì, che
restando sempre fedele all’uso della ragione, in nessun caso avrebbe acconsentito alla rinuncia dei
principi dello stato di diritto.
Cosa che
invece, purtroppo, nelle nostre carceri, sempre sull’onda dell’emergenza esplosa
un quarto di secolo fa, ancora accade. Penso ancora al regime del 41bis, regime
che perdura, e se non ci sono più
sistematici pestaggi ( ce lo auguriamo), continua la violazione di elementari
diritti della persona. E’ di questi giorni un’importante relazione della
Commissione Diritti Umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, che al
termine di quasi due anni di indagine conoscitiva sull’applicazione del 41bis,
chiede interventi che ripristino il rispetto delle garanzie previste da norme
nazionali e internazionali, e chiaramente
parla
di un “surplus di afflizioni, privazioni e restrizioni che non sembra avere
ragion d’essere nella logica, prima ancora che nella legge”.
Ho conosciuto persone che il carcere “duro” l’hanno subito per più di
dieci anni, ho letto scritti di persona a cui il regime è stato rinnovato dopo
il quindicesimo anno… sorvolando sulle condizioni fisiche e psichiche con le
quali si esce, se si esce, e se si esce vivi, da tale condizione, faccio mio il
dubbio espresso dai penalisti della Camera penale di Roma in una pubblicazione
in cui si denuncia il 41bis e le sue lunghe proroghe: “... visto che si tratta
di misura giustificata con la necessità di recidere i legami del detenuto con
l’associazione di appartenenza, se i lunghi anni non sarebbero bastati a
recidere quei legami, vuol dire che o il sistema è inefficace, o si vuole
ottenere altro…”
E per ottenere questo “altro” in Italia, ancora, c’è una non dichiarata
licenza di tortura… che altra definizione non
trovo.
Francesca
de Carolis
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