24 settembre 2015

FRANKENSTEIN di Mary Shelley recensito da Miriam Ballerini

FRANKENSTEIN     di Mary Shelley
1818 pubblicato per la prima volta in modo anonimo
1823 ristampato e uscito col nome del marito
1831 uscito in modo definitivo.

Ho appena terminato la lettura di questo romanzo che appartiene alla letteratura dell’800. Più che farne una recensione, vorrei scrivere una serie di considerazioni che, in modo alquanto diretto, da quell’epoca sposano la nostra.
Più o meno tutti conosciamo la storia attraverso il cinema, anche se, il film che più è fedele alla storia scritta dalla Shelley, è “Frankenstein di Mary Shelley” uscito nel 1994 e interpretato da Robert de Niro.
In quasi tutti i film Frankenstein è il nome della creatura, in realtà, il mostro non ha nome, quello è il cognome del suo creatore.
Dalla prefazione del libro scopriamo che esso non nacque a imitazione degli horror tedeschi, ma dalle discussioni scientifiche che volgevano l’attenzione alla domanda: si può riportare in vita i defunti?
La Shelley abbandona i castelli infestati, i demoni, ecc. creando di fatto il primo romanzo fantascientifico che molto prende esempio dagli esperimenti di Galvani sull’elettricità animale.
Ed ecco il punto: la scienza da sempre è una di quelle materie in continua evoluzione, che porta l’essere umano a cercare soluzione che gli siano utili. Ma davvero tutte le ricerche sono così utili?
Oppure, come la Shelley vuole insegnarci, addirittura anticipando esperimenti quali i trapianti e la clonazione, non rischiano di diventare solo delle aberrazioni?
La creatura, una sorta di mostro cucito per dimostrare se sia possibile o meno tornare alla vita, ci dimostra che si è osato troppo.
Il dottor Frankenstein, dopo aver riacceso la luce nella creatura, inorridito se ne disinteressa, lasciando che essa vaghi per il mondo, senza scopo; reietta e rifiutata dalle persone per il suo aspetto fisico mostruoso. Qui troviamo altri due fatti che ci fanno riflettere: la diversità, dove gli uomini rifiutano gli uomini che appaiono diversi ai loro occhi. E la responsabilità di chi, con le proprie azioni, faccia esperimenti senza comprendere quanto questi possano portare agevolazioni, oppure solo dolore. Si vedano i tanti esperimenti fatti sugli animali, esseri che sentono dolore, ma che non possono esprimerlo e sono costretti a subire ogni genere di tortura allo scopo di facilitare il cammino di una scienza che è ormai consapevole delle differenze fra mondo animale e umano.
Un altro punto essenziale lo si scopre laddove la creatura ammette che, avendo nella mente e nel cuore solo pensieri buoni e buone intenzioni, se non fosse stata trattata in modo disumano, solo questi sentimenti avrebbe espresso. Invece, per come è stata allontanata e disprezzata, ecco che solo odio e distruzione saprà portare.
Azione = reazione. L’esperienza delle persone, conta moltissimo nella costruzione di una coscienza sociale. Tanto male ricevuto, ancor più dolore si restituisce.
La Shelley inneggia più volte al perdono e ben lo concepiamo, ad esempio, da alcuni frasi: “Quando una creatura viene assassinata, subito si priva della vita un’altra creatura in maniera lenta, tormentosa; poi i carnefici, le mani ancora umide di sangue innocente, credono di aver fatto qualcosa di grande. E chiamano tutto ciò «giustizia»!”
Quello che stupisce, per l’epoca intendo, è che il testo, seppure scritto da una donna, sia piuttosto rude laddove serve e non ceda al ribrezzo di quanto si va narrando.
Il romanzo è un testo horror, o fantascientifico, se lo si scorre con leggerezza, come lettura di un classico del suo tempo, ispiratore di film e libri futuri; ma ancora più interessante è se lo si osserva con un occhio attento a tutti i messaggi che in esso sono contenuti.
“Imparate da me – se non dai miei consigli, dal mio esempio – quanto pericoloso sia l’acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira a elevarsi più di quanto la sua natura consenta”.

© Miriam Ballerini

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