Dalla Sinistra alla dissoluzione nietzschiana di Vincenzo Capodiferro
CRITICA DELLA CRITICA AL CONCETTO HEGELIANO DI REALTÀ
Dalla Sinistra alla dissoluzione nietzschiana
Il concetto hegeliano di realtà, come sintesi di essenza
ed esistenza, cioè di un processo dialettico in cui tesi ed antitesi si
intrecciano e si compensano a vicenda fu fortemente criticato sia dai discepoli
della Sinistra che dagli avversari di Hegel. Tanto Marx quanto Lucàks
condivideranno però quel principio comunitario degli opposti, sebbene applicato
ad un ambito “capovolto” rispetto all’Idealismo assoluto e filtrato dalle
critiche di Feuerbach e di Kierkegaard. Per il primo la realtà è data
dall’esistenza sensibile ed immediata, testimoniata dalle passioni: «L’uomo è
ciò che mangia». Il secondo invece non può accettare la tesi feuerbachiana del
vero essere infinito: homo homini deus. La teologia è antropologia. Hegel
dice che ogni filosofia è idealismo, il finito non può esser preso in alcun
modo per vero. Kierkegaard non è materialista, per lui l’uomo non è ciò che
mangia. Il vero essere è Dio e Dio è il Dio personale del Cristianesimo, non lo
Spirito del Mondo hegeliano. La realtà è data dall’esistenza etica individuale,
dalla drammatica tensione all’esistenza. I grandi contestatori del sistema
hegeliano furono, in modi diversi, Herbart, Trendelenburg, Schopenhauer e
Kierkegaard. Schopenhauer dice di lui: «Hegel, insediato dall’alto, dalle forze
del potere, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo,
illetterato che raggiunse il colmo dell’audacia, scarabocchiando e scodellando
i più pazzi e mistificanti non-sensi». E di rimando tuona il filosofo danese:
«Ma Hegel! Qui ho bisogno del linguaggio di Omero. A quali scoppi di risa
debbono essersi abbandonati gli dei! Un così sgraziato professorino che
pretende semplicemente di aver scoperto la necessità di ogni cosa». Si denota
il profondo senso di invidia che anima queste espressioni, perché come si dice:
chi disprezza vuol comprare! E se non fosse esistito Hegel ci saremmo dovuti
scordare tutto il pensiero occidentale successivo, che fu una risposta a lui.
Anche gli hegeliani slavi, occidentalofili, secondo K. Löwith, di cui
rimandiamo, per questa lettura alla monumentale opera Da Hegel a Nietzsche,
Einaudi, Torino 1981, reagiscono ad Hegel. Kerenskij parla di scisma
d’Occidente: è lo scisma tra spiritualità e realtà, oltre allo storico scisma
d’Oriente del patriarca Michele. Questo scisma tra Spirito e Mondo accade in
Russia nel 1917. Mosca, la terza Roma, dopo Costantinopoli, diventa il nuovo
emblema dell’Anticristo. La cultura slava aveva criticato Hegel e il suo
pericoloso principio di contraddizione, che aveva portato a tante rivoluzioni,
contro, invece, l’assolutezza del principio aristotelico di
incontraddittorietà. Hegel stesso era diventato un uomo contraddittorio,
scisso. La filosofia hegeliana era diventata una nuova religione dell’Assoluto.
L’esperienza di questa scissione si avverte subito dopo la morte di Hegel
(1831), quando i suoi discepoli si divisero in due filoni: la destra e la
sinistra hegeliana. Le questioni su cui si divisero furono soprattutto due: la
religione e lo stato. La destra, di cui fecero parte il Rosenkranz e l’Erdmann,
interpretò il pensiero di Hegel come compatibile col cristianesimo, la
sinistra, invece, ne sostenne l’inconciliabilità. La destra proponeva la filosofia
hegeliana come giustificazione dello Stato esistente, la sinistra, in nome
della dialettica, intendeva negare lo Stato politico esistente. Della sinistra
fecero parte Bauer, Strauss, Stirner, Rouge e Feuerbach. Indirettamente anche
Marx possiamo considerarlo come un successore della sinistra. Intanto il
socialismo cosiddetto utopistico si era sviluppato in Francia con Saint Simon,
Fourier, Proudhon. Strass nella Vita di Gesù nega la storicità di
Cristo-Dio, ridotto ad un eccesso mito fideistico. Per Feuerbach, nell’ Essenza
del Cristianesimo, la realtà dell’uomo è data dall’individualità naturale.
L’origine della religine è psicologica, sentimentale. L’uomo è un essere
affettivo, perciò inconsciamente attribuisce alla natura il carattere della
personalità, la chiama Dio, la prega e l’adora: «Il desiderio è l’origine e
l’essenza della religione. Gli dei sono esseri soprannaturali, ma non sono
soprannaturali anche i desideri? Le lacrime del cuore evaporano nel cielo della
fantasia e formano le nuvole che raffigurano Dio». Siamo ad un’embrionale
teorizzazione di quella che diverrà la teoria freudiana della religione
nevrotico-allucinatoria di Freud e di quella oppiacea di Marx. Uno dei più
importanti capisaldi del pensamento hegeliano era stato quello di riconoscere
che la realtà è inabitata da un’intima razionalità. L’ardimento hegeliano è
quello di collocarsi tra Dio e mondo, tra pensiero ed essere, superando quel
dualismo della filosofia precedente, in particolare kantiana. Secondo una
concezione positivista dello sviluppo cosmico l’ultimo sistema filosofico è
anche il più perfetto, quello assoluto. Hegel è l’ultimo profeta; è, come
sottolinea Löwith, l’ultimo grande pensatore cristiano. Di che cosa deve
preoccuparsi la filosofia, se non di essenze ed esistenze? Siamo agli antipodi
dell’intellettualismo illuminista. Se la realtà e la razionalità coincidono,
secondo l’assioma «è reale ciò che è razionale. È razionale ciò che è reale.
Hic Rhodus, hic salta», nella realtà scompare ogni tensione, non si pone proprio
il problema della libertà. Il valore individuale diviene termine di riferimento
assoluto rispetto al mondo. Contro il determinismo hegeliano Kierkegaard pone
la riscoperta della realtà esistenziale, una filosofia della prassi fondata sul
cristianesimo, Marx, al contrario, una filosofia della prassi fondata
sull’ateismo. Marx non contesta il principio hegeliano di unità di ragione e
realtà, ma ne capovolge solo i termini, come aveva fatto prima Feuerbach.
Afferma una nota proprietà matematica: invertendo l’ordine degli addendi, il
risultato non cambia. Spiritualismo e materialismo sono due facce della stessa
medaglia. Marx accoglie pienamente la concezione processualistica e dialettica
di Hegel, una concezione ottimistica, comune a quella positivistica. Anzi se il
marxismo fu la filosofia dei proletari, il positivismo fu quella dei borghesi,
ma entrambe sono figlie di Hegel. Oggi la dialettica hegeliana è diventata
pericolosa, perché può provocare rivoluzione e guerre, perciò è stata bandita
dalla cultura dominante. Dice Marx: «Per Hegel il processo del pensiero, che
egli trasforma in un soggetto indipendente sotto il nome di Idea, è il demiurgo
della realtà, la quale né è solo il fenomeno esteriore. Al contrario per me
l’ideale non è nient’altro che il materiale trasferito e tradotto nel cervello
dell’uomo» (C. Marx, Pagine di filosofia politica, a cura di G. Pischel,
Garzanti, Milano 1947). In realtà al pari dell’idealizzazione dell’Idea in
Hegel, assistiamo all’idealizzazione, con conseguente adorazione della materia,
come Idea assoluta in Marx. Marx è stato avviato a quest’idea anche da
Feuerbach, eppure egli critica lo stesso Feuerbach: «Feuerbach risolve
l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è un’astrazione
insita anteriormente nei singoli individui. Nella sua realtà essa è l’insieme
dei rapporti sociali» (Glosse a Feuerbach VI). L’uomo è il figlio della
società in cui si forma: eppure, è la società che precede l’uomo, o l’uomo che
precede la società? Le sovrastrutture ideologiche, tra le quali dovremmo
inserire a pieno titolo anche quella marxiana stessa, rendono le classi
conservatrici, cocciute e sorde alle esigenze del continuo progredire della
storia. Così assistiamo sovente a questi processi in cui la sinistra da riformista
si imborghesisce e diviene destra, cioè conservatrice. Ed ancora una volta
Hegel aveva ragione: la concidentia oppositorum. Il materialismo storico
afferma: «La dottrina materialistica che gli uomini sono prodotto dell’ambiente
e dell’educazione, e che pertanto uomini mutati sono prodotto di un mutato
ambiente e di una mutata educazione, dimentica che sono proprio gli uomini a
modificare l’ambiente e che lo stesso educatore deve venire educato». È proprio
ciò che dovrebbe succedere: il giovane di fronte alla sinistra fallita dovrebbe
egli stesso prendere esempio e farsi promotore di una storia nuova. Proprio
come era successo ai tempi di Marx. Andremmo contro lo spirito di Marx se
assolutizzassimo il suo pensiero, come fecero con Aristotele fino al Cinquecento,
fedeli più alla lettera che allo spirito del maestro. Se l’uomo è frutto della
storia, la storia stessa ha giudicato anche Marx e i suoi frutti. Il giovane
Marx, nella Kritik del 1843, riconosce, come lo stesso Padre Hegel, che
l’essenza universale dell’esistenza politica consiste nello Stato, la Polis dei
Greci, già idealizzata dai romantici, a partire da Schiller, senza scissione
tra individuo e collettività. Il misticismo logico hegeliano è una pura
definizione di Dio, attraverso, poi, il misticismo ateo di Schopenhauer si
passa a quello materialistico di Marx. Schopenhauer aveva idealizzato la
Volontà impersonale rousseiana e kantiana. Non esiste una volontà, benché cieca
ed irrazionale, senza un soggetto, un Io assoluto, come aveva sottolineato anche
Edoardo von Hartmann nella sua Filosofia dell’Incosciente (1869). Hegel,
per Marx, ha colto il carattere precipuo dello stato borghese. Nel metodo
hegeliano è messa in rilevo una contraddizione tra Società civile e Stato.
Nella civiltà borghese l’uomo si trova scisso tra due dimensioni: quella del bourgeois
e quella del citoyen. Hegel si sarebbe accontentato di risolvere questa
questione apparentemente, attraverso sofismi retorici. Per Marx il contrasto
sta nella realtà, non nell’Idea. Perciò vi è una critica ferrata
all’astrattezza della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’89,
nonché all’ideologia liberale della Rivoluzione Francese. Questa è la “libertà
dei moderni” di Constant, fondata sulla rappresentanza. La libertà è intesa in
senso limitativo e negativo, come non impedimento, come affermazione di un
diritto individuale, come indipendenza. Ma questa indipendenza diventa
schiavitù. Nella concezione liberale è sovrano ogni singolo individuo, contro
ogni potere collettivo, o Stato. Lo Stato non ha il diritto di intervenire, ma
deve solo garantire le libertà del singolo, la sfera di liceità, o diritto. È
una libertà dallo Stato, non nello Stato. È l’affermazione del
giusto egoismo diventato legge: la proprietà, l’eguaglianza ante legem,
la sicurezza, la garanzia giudiziaria. I diritti proclamati dalla Rivoluzione
Francese, per Marx, non sono diritti dell’uomo, ma del borghese. Lo stato
rappresentativo si pone come termine medio tra le decisioni collettive e quelle
individuali, che lo Stato, in qualche modo deve garantire. Cambia anche la
concezione del lavoro: nel mondo borghese il lavoro è caratterizzato da
divisione e alienazione. Marx applica il concetto hegeliano di alienazione al
lavoro, così come aveva fatto Feuerbach con la religione. L’alienazione
marxiana punta verso il basso, quella feuerbachiana verso l’alto, ma entrambe
sono necessarie all’uomo. Dacché l’uomo esiste, infatti, lavora e crede, né può
vivere senza lavoro e fede. Feuerbach, Marx, Freud e Nietzsche non hanno soppresso
la religione, hanno solo cercato di sostituire alla religione naturale una
religione umanizzata, la quale naturalmente è imperfetta, perché l’uomo stesso
è imperfetto. È cambiata la dimensione del lavoro: nel mondo antico gli schiavi
lavoravano, mentre altri potevano dedicarsi all’otium. La storia stessa
del mondo e lo Stato nella sua evoluzione storica è concepito da Hegel come
un’evoluzione della libertà stessa, che avviene in tre tappe successive: a) nel
mondo orientale solo uno è libero, il sovrano, gli altri sono tutti sudditi; b)
nel mondo greco-romano, alcuni sono liberi ed altri sono schiavi; c) nel mondo
cristiano-germanico tutti sono liberi. Questo concetto, già vichiano di
“eterogenesi dei fini”, avrà poi molta fortuna, ad esempio nel neoidealismo
italiano: possiamo rammentare Croce e Gentile. Il mondo moderno paga i politici
e crea un organo intermedio tra Popolo, o Società civile e Stato. Come Lutero
professò il sacerdozio universale di tutti i fedeli, così Marx, sulla scia di
Rousseau, vuole estendere la politicità a tutti i cittadini. Rousseau diceva:
«I deputati del popolo non sono, né possono essere, i suoi rappresentanti; essi
non sono che i suoi commissari; essi non possono concludere niente in modo
definitivo. Ogni legge, che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla:
non è una legge» (Contratto Sociale, III,15). Ogni uomo è politico.
Torniamo alla visione universalistica estesa di Aristotele. Per lo Stagirita:
«Lo stato è un fatto di natura, e per natura l’uomo è un essere politico, e chi
rimane fuori dalla comunità, per naturale tendenza e non per qualche
circostanza fortuita, è certamente un sott’uomo o un superuomo». È la celebre
definizione dell’uomo come zoon polithikon, animal politicum.
Aristotele paragona le comunità umane a quelle animali, come delle formiche o
delle api. Ogni conformazione sociale fa parte di un processo naturale: prima
c’è l’individuo, poi gli individui si riuniscono in famiglie, le famiglie in
tribù, le tribù in villaggi, i villaggi nella Polis. La Polis che è il supremo
grado di conformazione sociale naturalmente le precede tutte, perché nella
logica di Aristotele si passa dalla potenza all’atto per mezzo di un essere che
già sia in atto. Cioè in pratica è necessario che venga prima la gallina e poi
l’uovo. Hegel sintetizzerà questi gradi dialetticamente nella famosa triade:
famiglia, società civile e stato. La libertà si attua solo entro i limiti della
Polis. Chi non vive in comunità è o una belva o un dio. L’uomo si trova in
mezzo a questi due regni estremi: quello della divinità da un lato e quello
della bestialità dall’altro. Al primo la libertà non può appartenere che in
senso assoluto, al secondo non appartiene proprio, perché le belve non
ragionano. Naturalmente Aristotele esclude dallo stato di cittadino, e quindi
di uomo libero, gli stranieri, i barbari, i meteci, la massa proletaria e
lavoratrice. Nel momento in cui però venissero annullati gli organi intermedi,
si applicherebbe il rasoio di Occam anche alla vita politica: entia non sunt
moltiplicanda praeter necessitatem.
Eppure neppure in idealtipi - per usare un termine weberiano - di
società perfetta, come quelle propugnate da Platone, Moro, Campanella, Bacone,
Rousseau e Marx non esiste una guida del popolo. Nella società ideata da Calvino
vi sono i pastori, i dottori e i diaconi. Nel modello comunistico di Marx vi
sono i rivoluzionari di professione. Il sistema perfezionato da Lenin in Stato
e Rivoluzione prevede un’élite di intellettuali al potere: ideatori,
esecutori e massa proletaria. È un modello teocratico rovesciato,
secolarizzato, laicizzato fino all’estremo del superumanesimo, già annunciato
dal profeta Nietzsche. Per Marx la rappresentanza è risultato della negativa
scissione tra Società e Stato tipicamente moderna. Questa non esisteva nella
Polis greca. E lo stesso vale per la libertà. La libertà positiva non è
antitetica alla legge, la libertà negativa è antitetica alla legge. Autonomia
è, già nel senso kantiano, dar legge a sé, eteronomia è dipendere dalla legge
altrui. La libertà negativa si muove tra indipendenza e partecipazione.
Entrambi i concetti si possono ricondurre all’autodeterminazione. Se si
estremizza da un alto abbiamo l’individualismo, se dall’altro, il
collettivismo. Però lo Stato, come sostiene Bobbio, deve lasciare certe
garanzie e bisogna cercare il giusto equilibrio tra questi due estremi. Se, per
esempio, in una democrazia pura, il popolo decide di abolire ogni forma di
religione, questa non è, paradossalmente, una decisione democratica. Le
conquiste del diritto individuale vanno conciliate con quello statuale, e
queste, oggi, con quello globale. Fino al Medioevo esistevano Signori e servi
della gleba. Col mondo borghese queste condizioni vengono scisse: tutti sono
uguali davanti alla legge. Tutti sono
tenuti al rispetto della legge e man mano: tutti hanno conquistato il diritto
al voto, etc. L’”onnicrazia” è un ideale irraggiungibile. Marx riconosce in
questo un progresso pubblico, civile, ma non progresso reale. C’è nel progresso
borghese un difetto di fondo: emancipazione solo politica, ma non
socio-economica. L’individuo è scisso tra sfera privata e sfera pubblica, tra
borghese empirico e cittadino. In questa constatazione Marx ancora una volta fa
la civetta di Hegel. Hegel ha messo in rilievo la scissione che si è venuta a
verificare nel mondo moderno, però, secondo Marx, ha sbagliato nel voler
superare questa scissione solo speculativamente e non realmente. La prospettiva
hegeliana era di un ritorno alla società pre-borghese, quella di Marx un andare
alla società ultraborghese. La soppressione pratica dell’ineguaglianza
economica sarebbe dovuta consistere nella costruzione di una società
rinnovellata, la società comunista, senza differenze tra governanti e
governati. In realtà di fatto questa società non è stata raggiunta da nessuna
rivoluzione. Anzi si è raggiunta una società anticomunista e totalitaria, forse
contraria all’ideologia dello stesso Marx, critico dell’Ideologia. Questo è
stato il fallimento del comunismo sul piano pratico, ma non su quello teorico. C’è stata un’ulteriore scissione tra
filosofia della prassi e filosofia della teoria. Anche questa è una teoria
assurda. Idea è filosofia della prassi, idea il singolo di
Kierkegaard, idea la società comunista di Marx, idea l’anarchia
di Bakunin, idea il superuomo di Nietzsche, l’Es di Freud e la Volontà
di Schopenhauer. Tutto è Idea. E torniamo ad Hegel. Hegel è il padre del
nazionalsocialismo e del comunismo, due fratelli gemelli e prima ancora c’è
Platone. Popper riteneva che la Repubblica è la madre di tutti i
totalitarismi. Sia i gerarchi nazisti che i rivoluzionari bolscevichi portavano
sotto l’ascella la Repubblica di Platone. È un’Idea. Nulla esiste al di
fuori delle Idee. Essere comunista vero, anarchico vero, democratico vero è
privilegio di pochi eletti, di pochi superuomini. La massa ha bisogno dei capi.
Il popolo è gregge. E così arriviamo alla dissoluzione del sistema hegeliano
nell’ultimo grido di Nietzsche. Nietzsche è l’ultimo tassello di quel processo
dialettico di dissoluzione, di fermentazione dello stesso processo dialettico
hegeliano, fino all’ubriacatura finale che ha portato ai nazismi da un lato ed
ai comunismi anticomunisti dall’altro. Di fronte all’esigenza teoricamente
ingiustificabile di dar lotta a fondo alla Volontà, avendo in essa riconosciuto
l’Assoluto, aporia fondamentale delle dottrine di Schopenhauer e di Hartmann,
maggiore consequenziarietà, se non minore violenza di esasperazione, ha il mito
nietzschiano della volontà di Potenza. Il progresso acuisce, anziché lenire i
dolori della vita. Moltiplica i bisogni, anziché eliminarli. La scienza altro
non fa che illuminare di più il dolore dell’esistenza (Qui auget scientiam,
auget et dolorem, dice l’Ecclesiaste). Per cui si giungerà all’età
dell’integrale pessimismo. Allora gli uomini preferiranno la pace di non essere
al travaglio dell’esistenza, rifiuteranno al vita stessa. Di qui l’assurdità
hegeliana: il vero democratico è un aristocratico, ma l’aristocratico è un
antidemocratico. Ma, come direbbe Hegel, tutto è dialettica, tutto si supera
nella sintesi. C’è stata un’alienazione totale dell’uomo nell’ideologia ed alla
fine questa si è diluita nella Società liquida di Baumann. Secondo lo
stesso principio marxiano della lotta di classe era inevitabile che la stessa
società comunista avrebbe prodotto il suo avversario storico: l’anticomunista,
figlio stesso del proletario, come il proletario era figlio del borghese. Sono
i figli che si ribellano ai padri, una generazione all’altra, come Giove a
Crono. L’unica realtà che resta è questa contraddizione, è la lotta. Eraclito
esclamava: Polemos Basilea panteon. La Guerra è regina di tutte le cose. La
realtà è l’antitesi e il superamento degli opposti. La critica al concetto
hegeliano di realtà è già una sua ammissione. Il fine e la fine del mondo è un
continuo andare a Dio. Dalla critica al concetto hegeliano di realtà invece è
sorto l’aureo vitello dell’homo homini deus (nelle teorizzazioni di
Feuerbach, Marx e Nietzsche) l’unico che avrebbe sconfitto il demoniaco homo
homini lupus, l’individualista L’Unico stirnieriano. Hegel aveva
ripreso questo principio di realtà dal cristianesimo: il povero diventa ricco,
il ricco diventa povero. Tutto in rapporto all’Assoluto. È la dialettica
servo-padrone, tanto osannata dai marxisti. Il padrone ha rischiato nella
lotta, ma nella vittoria è divenuto padrone. Il servo ha avuto timore della
morte e nella sconfitta, per aver salva la vita, ha accettato la condizione di
schiavitù. Il padrone allora usa il servo e lo fa lavorare per sé, ma è proprio
nel lavoro che si sviluppa un movimento dialettico, che finirà col portare al
rovesciamento delle parti: il padrone da indipendente diventa dipendente dal
servo, cioè diventa servo del servo ed il servo, invece, da dipendente diventa
indipendente, cioè padrone del padrone. È una trasfigurazione della stessa
novella cristiana: il Padrone diventa servo, affinché il servo diventa padrone.
Dio si è fatto uomo affinché l’uomo sia fatto dio: questi è il vero homo
homini deus. Non può esserlo il Superuomo nietzschiano, né l’uomo che
mangia di Feuerbach, né il rivoluzionario di Marx, né l’analista di Freud.
Anzi, tutti questi modelli di ominide possono esserlo: ma solo dopo un cammino
di ascesi che porta alla più completa Noluntas schopenhaueriana, perché
per essere homo homini deus occorre ascendere. Hegel certamente fu uno
di questi homo homini deus che la Provvidenza ha inviato.
Vincenzo Capodiferro
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