Nel Medio Evo nasce la lingua volgare
- Piccolo
viaggio nella letteratura italiana -


In
quello che è forse il più bel film di Jean-Jacques Annaud colpisce
l'affermazione, probabilmente tratta dall'omonimo romanzo “Il nome
della rosa” di Umberto Eco e messa in bocca ad un vecchio padre
bibliotecario medievale, secondo la quale quella che andrebbe
perseguita nello studio è solo «la preservazione e non la ricerca
del sapere. Poiché non c'è progresso nella conoscenza, bensì una
mera, costante e sublime ricapitolazione».
Si
tratta di una tesi che oggi farebbe sorridere, soprattutto se
pronunciata da un monaco cieco e teatralizzata nell’ambiente umido
e buio di un'abbazia, proprio come avviene nel film. Si tratta però
al tempo stesso di un'affermazione sulla quale è bene riflettere,
poiché essa non è priva di un significato autonomo e di una sua
universalità. Non si può infatti negare al Medio Evo il merito di
aver chiuso con la classicità: con esso certo non muore, ma si
chiude la cultura classica, il primo cerchio della storia scritta e
della letteratura. E' forse proprio per questo che ancora oggi si
studiano ed immaginano i secoli attorno al Mille come se fossero un
antro oscuro nel quale è difficile orientarsi, come cioè se fossero
solo una conclusione e non anche l'inizio di qualcosa di nuovo.
Ma
che cosa dunque si stava muovendo nei meandri di una cultura così
chiusa e ripiegata su se stessa, come quella che il bibliotecario ci
rappresenta col suo pensiero? Saranno gli uomini di quelle
generazioni, animati dai loro slanci e dalle loro aspirazioni, a
farsi carico di una prima produzione letteraria in lingua volgare,
lingua che non aveva e per molto tempo non avrebbe avuto una
grammatica, ma che era più immediata e comprensibile a molti;
tuttavia il processo non fu semplice perché, anche se la
disgregazione dell'Impero Romano agevolava la rivoluzione
linguistica, le classi sociali culturalmente più elevate
continuavano ad usare il latino e conservavano un marcato distacco,
anche economico, nei confronti della popolazione comune.
In
un assetto sociale che era dunque privo di una permeabilità
culturale verticale, perché mancava ancora di una classe intermedia
in grado di fare da cuscinetto tra alta e bassa cultura, e nel quale
cominciava però a rendersi utile la traduzione in volgare quanto
meno degli editti e dei trattati di pace, condizione necessaria per
farsi comprendere da tutti, l'elemento di rottura si ebbe proprio con
l'emersione di nuove classi sociali.
Prima
di queste fu la cavalleria, una nobiltà minore che si era emancipata
con la guerra e che prometteva di portare in dote alla nuova società
i valori della cortesia, della prodezza e del vassallaggio, sia nei
confronti del signore feudatario, sia ove occorresse nei confronti
della donna amata.
La
cavalleria era probabilmente del tutto inconsapevole di dare il la,
divenendo soggetto di una buona produzione letteraria, alla
formazione di una nuova pregevole lingua scritta, la quale nelle
varie terre europee si sarebbe poi evoluta, levigata e chiamata
diversamente.
L'avanguardia
di un volgare che andava a sostituire il latino venne in Italia
principalmente dalla Francia, come risulta non solo dall'iniziale
produzione anonima delle cosiddette 'canzoni di gesta', nella quale
spicca la celeberrima “Chanson de Roland”, del XII secolo, ma
anche dalla contemporanea e più fine prosa in lingua d'oil.
All'interno di quest'ultima spicca la letteratura del cosiddetto
'ciclo bretone', il cui principale autore fu Chrétien de Troyes, il
padre del romanzo cavalleresco e delle storie magiche dei Cavalieri
della Tavola Rotonda.
Altro
importante riferimento per i letterati del tempo fu Arnaut Daniel, il
trovatore provenzale i cui testi in lingua d'oc dovevano certamente
essere giunti nella penisola italiana alla fine del XIII secolo, se
Dante lo lesse per poi citarlo nel XXVI canto del Purgatorio.
Per
una produzione italiana in un volgare che si rispetti ci vorrà più
tempo e, sebbene nessuno possa dubitare che ne sia valsa la pena, è
opportuno ricordare che le condizioni che portarono alla formazione
della prima scuola poetica italiana (poiché per prima venne la
poesia, poi la prosa) furono non poco singolari: in un contesto
culturale tra i più contaminati fecero la loro parte un sovrano
tedesco, la Sicilia, un papa intransigente e la più efficiente rete
culturale del tempo, quella dei notai operanti nelle diverse città
della nostra penisola.
Antonio
di Biase
Bibliografia:
“La
Letteratura” - Vol I – Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria –
Paravia - 2006
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Pubblicazione riservata a Insubria Critica.
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