23 dicembre 2012

Piccolo viaggio nella letteratura italiana - Commento al Canto I dell'Inferno




Inferno di Dante I

Il canto della via più lunga

Dante si smarrisce in una selva e nel tentativo di ritrovare la strada incontra tre belve che
gli impediscono il cammino verso oriente. Compare Virgilio che gli suggerisce un'altra via.



Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura.
 
[1-6 Mentre mi trovavo nel pieno della vita mi ritrovai in un bosco oscuro e mi accorsi di
aver perduto la strada. Non saprei ben dire quale bosco fosse, poiché esso si presentava
così selvaggio, fitto e tenebroso, che al solo pensiero mi torna la paura.]


Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

[7-12 Era una selva così spaventosa che se invece di entrarvi fossi morto, ben poca
sarebbe stata la differenza. Poiché però alla fine l'esperienza mi portò giovamento, parlerò
anche delle altre cose che ho visto; non so ben dire come entrai nel bosco, so solo che
ero talmente smarrito da perdere la strada maestra.]




Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
[13-18 Proseguendo nel cammino giunsi ai piedi di un colle, collocato in fondo a quella valle tenebrosa che tanto mi aveva spaventato. Alzando lo sguardo vidi che dietro di essostava spuntando il sole, il pianeta che indica la giusta via agli uomini.]





Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
[19-27 Allora un poco si affievolì quella paura che per tutta la notte mi era rimasta in fondo al cuore e che mi aveva profondamente turbato. Così, come colui che ha appenascampato un grave pericolo e si volge a guardarlo, ecco che la mia anima ancora in fuga si girò a guardare i passi appena fatti per fuggire dalla selva e ad una morte certa.]



Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
[28-36 Dopo essermi brevemente riposato proseguii dunque, non senza fatica, il cammino lungo la distesa deserta. Ed ecco, quasi all'inizio della salita, vidi una “lonza”, un felinoleggero, veloce e dal pelo maculato. Questa mi si mise davanti ed impediva talmente il mio cammino, che fui quasi costretto a desistere dal mio intento.]




Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
[38-45 Eravamo nelle prime ore del mattino, ed il sole saliva assieme a quelle stelle (la costellazione dell'Ariete) che già avevano accompagnato l'amore divino nei giorni dellacreazione. Il momento propizio mi dava quindi speranza di poter superare la bestiamaculata, solo mi fermò di nuovo la paura quando vidi un leone.]



Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
[46-54 Questo leone sembrava volermi anch'esso ostacolare, con la testa diritta ed il volto rabbioso, al punto che pareva l'aria fremesse. Ed anche una lupa, che tutte le bramosieumane rappresentava con la sua magrezza, e che molte genti ha già reso infelici,appesantì talmente la mia condizione impaurendomi col suo sguardo, che io persi la speranza di salire.]


E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
[55-63 Così, come colui che in vita ha molto avuto e ad un certo punto perde tutto,ritrovandosi pensieroso, piangente e triste, questo effetto mi fece la bestia bramosa, che venendomi incontro poco a poco mi spinse giù nella selva. E mentre ricadevo indietro vidi una figura (Virgilio) che per il suo lungo silenzio pareva evanescente.]


Quando vidi costui nel gran diserto,
"Miserere di me", gridai a lui,
"qual che tu sii, od ombra od omo certo!".
Rispuosemi: "Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
[64-72 Quando vidi costui nella landa desolata – dice Dante -, “Abbi pietà!” gli gridai - “sia che tu sia un uomo od un fantasma!”. E lui (Virgilio) mi rispose:”Non sono un uomo, ma losono stato, ed i miei genitori erano lombardi, tutti e due di Mantova”. Nacqui al tempo diCesare, che morì quando ancora ero giovane, e vissi a Roma sotto la protezione di Augusto, al tempo degli dèi falsi e bugiardi”.]




Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?".
"Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?",
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
[73-81 “Fui un poeta – continua Virgilio – e cantai del figlio di Anchise (Enea), che arrivò da Troia dopo che la città venne incendiata. Ma tu perché torni nella selva? Perché nonsali sul colle dilettoso che è il principio e la strada per la gioa?”. “Sei quindi tu quel Virgilio(chiede Dante euforico, senza rispondere al quesito postogli) – che ha scritto rime con tanta eloquenza?”]




"O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi".
[82-90 “Oh onore e luce dei poeti – dice Dante – mi è dunque valso il lungo studio ed il grande amore per la tua opera. Tu sei il mio maestro ed autore preferito, sei quello da cuiho imparato lo stile poetico delle grandi occasioni. Guarda la bestia (Dante addita la lupa) che mi ha fatto fuggire. Aiutami da lei, uomo saggio, poiché la sua vista mi terrorizza.”]




"A te convien tenere altro vïaggio",
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
[91-99 “Ti conviene cambiare strada – dice Virgilio dopo aver visto Dante lacrimare - se vuoi sopravvivere a questa selva, perché la bestia della quale ti lamenti non lascia passarenessuno dalla sua strada, anche a costo di ucciderlo; essa ha anche una natura così malvagia che la sua voglia non è mai sazia e dopo ogni pasto ha più fame di prima.]




Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
[100-108 Essa (la lupa) si accoppia con molti animali, e continuerà a farlo finché il 'veltro' (un cane da caccia), verrà ad ucciderla con dolore. Questi (il 'veltro') non si ciberà né di terra, né di ricchezze, bensì solamente di sapienza, amore, virtù e la sua condizione sarà 'tra feltro e feltro' (vedi commento). Esso riscatterà l'Italia umiliata, per renderla degna delle ferite di Camilla, Eurialo, Turno e Niso (che sono eroi virgiliani).]




Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

[109-120 Questi (il 'veltro') caccerà la bestia da ogni strada, fin quando essa non tornerà all'inferno, là dove ebbe origine l'invidia. Ti consiglio dunque di seguirmi (dice Virgilio a Dante), io sarò la tua guida per il luogo eterno, dove ascolterai le disperate grida e vedrai gli antichi spiriti dolenti, ciascuno dei quali ambisce alla morte eterna. Vedrai poi coloro che sono contenti nel fuoco tenue (del Purgatorio) perché sperano un giorno di salire tra le beate genti (del Paradiso).]



A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!".
[121-129 E se infine in Paradiso vorrai salire – continua Virgilio -, dovrò affidarti ad un'anima più degna, poiché l'imperatore dei cieli, non avendo io conosciuto Cristo, non vuole che per mio tramite lassù si salga. Egli impera ovunque, ma il Paradiso è la sua città e lì c'è il suo trono: beati coloro che là son destinati!”]




E io a lui: "Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti".
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
[130-136 Allora io gli dissi (Dante parla a Virgilio): “Io ti chiedo, Poeta, in nome del Dio che tu non conoscesti e per fuggire da questo o peggior male, di essere accompagnato dove hai detto, in modo che io possa vedere la porta di san Pietro e quelli che tu dici essere così infelici”. Allora Virgilio si mosse ed io lo seguii.]
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Una terra di boschi, di anfratti e di laghi, come quella dalla
quale per lo più scrivo, che si insinua in una valle tra il Verbano ed il Ceresio, passando da Ganna e Ghirla per aprirsi, dal Poncione e da San Paolo, verso la Svizzera ed il Comasco, è particolarmente adatta ad un commento letterario. Se poi trattiamo la “Commedia” di Dante, l'argomento si fa stringente.
Il canto I dell'Inferno dantesco è il più universalmente noto, spesso non estraneo neppure a coloro che non l'hanno mai letto, ma che ne ricordano almeno i primi due versi come se fossero un ritornello, per averli più e più volte sentiti ripetere da altri; sono i due versi più conosciuti della nostra letteratura di tutti i tempi; raramente però, se non a scuola, ci si addentra nel contesto del poema e della prima cantica che proprio qui si vuole introdurre.
Dante si smarrisce in un bosco, non il Dante narratore che parla al passato come di un'esperienza già vissuta, bensì il Dante uomo, quello che proprio il grande poeta vuole raccontare come emblema di un viaggio dal peccato, o se vogliamo più laicamente dal torpore della ragione e della imperfetta umanità, verso la purificazione e la rettitudine di una vita pienamente vissuta alla luce della verità.
 
A questo proposito è bene sottolineare che la materia dantesca sviluppatasi nei secoli è immensa ed estremamente varia, così come le interpretazioni sia del poema sia delle singole situazioni sono moltissime; poche sono tuttavia, sebbene per fortuna più diffuse, le tesi sulla Commedia sostenute non dico con rigore scientifico (che anche nel mio commento vorrà lasciare maggiore spazio alla leggerezza e al desiderio divulgativo), ma almeno con piena onestà intellettuale. Proprio questa onestà, con la mia conoscenza odierna del poema basata sui testi che ho considerato migliori tra quelli disponibili, mi dice che il viaggio di Dante si muoveva verso una precisa verità religiosa, la quale se non altro per ragioni storiche non poteva che essere Cattolica romana. Poi c'è tutto il resto, che per carità vedremo è moltissimo ed anzi a mio giudizio molto più interessante, per le implicazioni storiche, letterarie, filosofiche e teologiche che la materia ci porterà a considerare, di un Dante semplicemente eletto a 'paladino della cristianità'. Partiremmo però molto male se iniziassimo l'itinerario con un simile dubbio, il quale invece va subito confutato. Poi magari
arriveremo a leggere i commenti romantici alla Commedia, le idee di Giovanni Pascoli e dei suoi discepoli, e riusciremo a
comprendere il perché all'itinerario dantesco può essere dato un taglio particolare. Come libero pensatore mi terrò dunque lontano, col metro dello studio, dalle palesi fesserie, molto meno scostato starò invece dalle suggestioni, che sono il vero cuore dell'argomento che ci apprestiamo a trattare.
Dunque dicevamo della selva, del colle illuminato al mattino, delle bestie incontrate e della paura che fa indietreggiare, fino all'incontro con Virgilio, il massimo poeta latino.
In questo canto a mio giudizio le questioni importanti da trattare sono due: la principale è la contrapposizione, che almeno all'apparenza Dante si sforza di rimarcare, tra l'orientamento del classico ed il proprio. E' Virgilio ad indicare al fiorentino che quella intrapresa non è la giusta direzione per la sua salvezza, inducendolo ad un viaggio diversamente
orientato, che lo porterà nei regni d'oltretomba. Si tratta di un'immagine grandemente suggestiva, sia perché Virgilio è poeta pagano nella cui lirica il sole è elemento centrale, sia perché nel libro della Genesi è chiaramente indicato che l'Eden si trova ad oriente, tanto è vero che non è affatto raro trovare persone che pregano secondo una geometria non banale, così come non è inutile ricordare che le prime carte geografiche avevano l'Est in alto.
Umberto Bosco inoltre, a riprova del forte condizionamento sul canto esercitato dall'Antico Testamento, ha ricordato anche che bestie come quelle qui incontrate da Dante, si trovano nel libro di Geremia (V,6).
Ultima interessante questione è quella della profezia del “veltro” che avrebbe dovuto salvare l'Italia umiliata, profezia che, come i maggiori commentatori insistono, è volutamente oscura. “Tra feltro e feltro” potrebbe essere una lusinga a Cangrande della Scala, i cui possedimenti si estendevano approssimativamente, tra Feltre e Montefeltro; oppure, ed io preferisco quest'ultima, potrebbe essere un'allusione alla condizione di estrazione umile del “veltro”: Dante ci vede forse un religioso, un frate, oppure in una qualche maniera allude a se stesso.
La nota finale riguarda poi le fonti letterarie minori del primo canto: il “Serventese romagnolo”, del quale accenneremo nel pezzo dedicato alla letteratura del Duecento settentrionale, contiene infatti proprio una rima in veltro, peltro e feltro, esattamente come quella qui introdotta da Dante. Non si può dimostrare che esso sia stato una fonte dantesca, è tuttavia possibile, oltre che suggestivo.
 
Antonio di Biase

Bibliografia:

  • Inferno – Canto I e commenti, “La letteratura”, Vol 1, Baldi Giusso Razetti Zaccaria , Paravia, 2006
  • “Dante Alighieri” di N. Sapegno, “Storia della letteratura italiana” di E. Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, 2001 (Edizione Corsera)
  • “Inferno”, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, 1991, collocazione B.I.4801 della biblioteca di Varese.
  • “Inferno”, a cura di U. Bosco e G. Reggio - Le Monnier – 1987
  • “Inferno”, BUR Superclassici, 1995, collocazione C.II.7103 della biblioteca di Varese.
     



 
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