17 dicembre 2008

"La virtù di Checchina" di Matilde Serao

Romanzo breve, La virtù di Checchina fu pubblicato per la prima volta in quattro puntate sulla «Domenica Letteraria» nel 1883, secondo le abitudini del tempo, e apparve successivamente in volume per l’editore Giannotta di Catania nel 1884 e poi nel 1906. Nonostante qualche critica iniziale e un certo scetticismo, alimentato dalla stessa autrice in lettere private, La virtù è uno dei testi più riusciti di Matilde Serao, un racconto borghese gradevole e coinvolgente, in cui l’innata simpatia della sua protagonista, i suoi ostentati timori, i vorrei ma non posso che ne animano di continuo le azioni e le esitazioni, riescono a creare una naturale empatia con il lettore che pur lasciandosi scappare magari più d’un sorriso dinanzi all’esibita ingenuità della donna, non può che divertirsi a sospirare e cospirare con lei, nella ricercata realizzazione di desideri tanto comuni quanto umani. La vita di Checchina, orientata verso un’ordinaria e grigia quotidianità, viene improvvisamente scossa dall’incontro col bel marchese d’Aragona, in cui trovano espressione quelle raffinatezze nobiliari di cui lei, donna sposata della piccola borghesia, avverte tanto il fascino quanto la distanza. La sensibilità di Checchina è in grado di cogliere con lucidità tutte quelle differenze che l’attraggono e mentre le sue azioni restano inibite da un senso di inadeguatezza e inferiorità che non l’abbandonerà mai, il suo sguardo indugia e approva la cura e l’eleganza del marchese, le calze di seta sul piede aristocratico, i mustacchi ben curati, il profumo, la voce dolce e musicale, la cravatta di raso bianco, e le altre mirabilie della sua costruita artificiosità. Si lascia così cullare da quel «bisogno del sogno» che il coetaneo d’Annunzio si appresta a codificare, e che appartiene un po’ a tutti, insinuandosi anche fra le pieghe del quotidiano. Dimentica pertanto il marito, un Charles Bovary all’italiana (come suggerisce Bruni nella sua prefazione al volume Il romanzo della fanciulla del 1985) tratteggiato come una macchietta rozza e senza stile, con poche azioni che si ripetono continuamente (mangiare, dormire, russare) e sogna un improbabile adulterio. La sua femminilità assopita si è risvegliata e Checchina, abituata a preoccupazioni di altra natura, la cucina, la spesa, e tutta una teoria di «incidenti volgari», riscopre il fascino della mondanità: perennemente costretta a fare i conti con il difficile bilancio della casa, con il suo carattere schivo e timoroso, e la congenita incapacità di difendersi dal giudizio degli altri, che sia un’amica o una serva non importa, Checchina prova, seppur mai con assoluta convinzione, ad armarsi di sana concretezza e operosità borghese, e giocarsi le sue carte, anche a costo di mettere a rischio la sua già proverbiale virtù. La storia, si diceva, è sicuramente gradevole e resiste al tempo: l’attenzione al vero, che è tratto peculiare della scrittura della Serao, ne colora efficacemente gli ambienti con oggetti e comportamenti ritratti con attenzione e spirito pratico. Resta il senso di una differenza che la conservatrice donna Matilde avverte e alimenta, nonostante il gioco letterario d’affidare a una scelta individuale la possibilità o l’illusione di affrontarla.
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