25 aprile 2007

Boris Vian, il 'disertore'

Chiedo al “mio” libraio, che ha miriadi di “libri usati” di ogni sorta sistemati nei vari scomparti che corrono per diversi metri lungo il marciapiedi di via Cesare Borgia, se ha qualcosa di Boris Vian.
Scrittore russo? , mi fa. No, francese, dico io. Ah, scusi, non l’ho mai sentito prima d’ora.


Ma chi era Boris Vian , “il disertore”, il “malato di cuore”, “l’esistenzialista”?

Un angelo , che fece una breve corsa su questa terra, anzi un volo breve, ma intenso, pieno di luce vivissima, nel cielo di Parigi dell’immediato dopoguerra; o un demone trascinante che aiutava gli altri a ritrovare il sentiero perduto dell’abbandono dionisiaco, uno che visse con la voluttà di spensieratezza, di sgolata dissipazione, di dar libero sfogo alla fantasia in libertà, uno che visse di beffe, provocazioni, arditezze pornografiche, che ne fecero un protagonista indiscusso della stagione esistenzialista parigina, alla quale non si può negare che avesse partecipato (le foto stano lì a dimostrarlo, spesso seduto accanto a Jean Paul Sartre e Simone De Beavauir, ma anche a Breton, Prevert, a ciascuno dei quali dedicò una canzone), pur avendone preso a suo tempo debite distanze. “Eppure – dirà Marcello Pagliero, che gli è stato amico, - fissandolo negli occhi accesi da lampi imprevedibili si scopriva che il suo destino era quello di restare escluso dal giardino d’inventata baldoria che solo lui, con la sua tromba , sapeva scatenare”. Già, la sua tromba tascabile da cui non si separava mai, neppure a letto. Scrive nella sua autoironica, grottesca autobiografia: "Nel 1938 cominciai a studiare la trombetta a rosolio e immediatamente raggiunsi il livello di Armstrong, la mollai subito per non privare il poveretto della pagnotta: a causa dei soliti pregiudizi razziali ero avvantaggiato, la mia pigmentazione verde offriva un effetto piacevole". Appassionato di jazz, fu in "contatto" (tra gli altri) con Duke Ellington e Miles Davis coi quali suonò, a Parigi. Scrisse su diverse riviste francesi di jazz , pubblicando numerosi articoli sull'argomento conosciuti anche in America. Dove non era mai stato. Nonostante i temi e le ambientazioni del mondo americano si ritrovino così spesso nelle sue opere letterarie, tutte intimamente intrecciate al suo amore per il jazz. "Sono solo due le cose che contano: l'amore, in tutte le sue forme, con belle ragazze, e la musica di New Orleans e di Duke Ellington. Tutto il resto è da buttar via, perché è brutto, laido...". Dirà Ennio Flaiano, che era andato a vederlo suonare, nell’orchestra jazz di Claude Abbadie, al “Tabou” di Parigi : “Soltanto quando si ficcava fra le labbra la tromba Vian diveniva di una scatenata vivacità, resistendo alle sollecitazioni di chi si preoccupava d’invitarlo a ricordarsi del cuore.. , che dai giorni remoti di Ville d’Avray, dov’era nato, paradiso durato lo spazio di un mattino, ha sempre condizionato la sua giornata umana”. In effetti, l’insorgere di un’insufficienza valvolare dell’aorta fin dalla più tenera età, minaccerà costantemente la sua esisenza, aggravandosi col tempo. E ben presto (nel 1947) sarà costretto a lasciare anche la sua amata tromba, che faceva parte del personaggio, divenuto un mito, una leggenda circolante nei dintorni di Saint Germain des Pres, dove tutti conoscevano quella sua figura longilinea, dinoccolata (era altissimo) e il pallore del suo volto, la sua gentilezza distratta, il suo festoso controllo, la sua distaccata allegria, la sua incalzante timidezza. Il nitido e malinconico diagramma dello scetticismo che ha sempre accompagnato il suo lavoro e il disamore venato di superiorità fecero di lui una sorta di eroe moderno, così lo vedeva o lo sognava Raymond Queneau, che gli fu amico fino alla morte. Ma chi era questo ingegnere scrittore, solista e critico di jazz, attore e cantautore, soggettista cinematografico, traduttore e membro del Collège de Pataphysique, commediografo giornalista, esperto di fantascienza e di pornografia? Un artista dalla vulcanica genialità e dall’attività frenetica, capace di scrivere in meno di un anno (1946) tre romanzi, una commedia e una miriade di articoli e alcuni pezzi di cronaca, o un dilettante di talento all’affannosa ricerca di sensazioni inedite, uno che strizzava l’occhio alla platea, arresa al culto del divertimento? Secondo G.A. Cibotto, Vian era una sorta di poliedro dalle troppe facce, che si proiettano lungo le direzioni più bizzarre, - dalla matematica al teatro, alla poesia, alla musica alla cronaca, al tradurre, al cantare, alla regia, all’impresariato, all’oratoria, all’organizzazione, - con un gusto della novità che sempre diventava febbre, quella febbre che era una reazione al male che ha finito per trasformarlo in una fonte inesauribile di energia, per elevarlo a simbolo vitalistico e imprevedibile, mentre al contrario la sua natura e la sua struttura mentale pretendevano un ordine scrupoloso e metodico, un rispetto geloso del meccanismo logico. Ma talora abusava del suo talento e si faceva beffe della sua vena creativa lanciandosi in avventure folli, come quella, d’intesa con un editore parigino squattrinato, Jean d’Halluin, d’inventare di sana pianta qualcosa di clamoroso, che costituirà un caso letterario. In soli dieci giorni, dal 5 al 15 agosto del 1946, Boris scrive un romanzo all’americana ambientato nella mala di New York, carico di inusitata violenza espressiva, con una rabbiosa carica antirazzistica e scene di sesso, alcool e sadismo, intitolato “J’rai cracher sur vos tombes (“Andrò a sputare sulle vostre tombe”), facendo credere che lui è solo il traduttore di uno scrittore americano di razza negra, tale Vernon Sullivan, che per il suo stile narrativo viene accostato dalla critica ufficiale a Caldwell, Faulkner, Miller e Cain. Il libro suscita unanime indignazione, provoca uno scandalo di tale portata da mettere in moto una crociata morale e conseguente denuncia in sede giudiziaria, con l’ accusa di pornografia. Il processo si concluderà nel 1950 con una condanna dell’autore e dell’editore a centomila franchi di ammenda. Ma grazie a tale amplificazione il libro va a ruba, diventa un best-seller e l’incasso supera i quattro milioni di franchi. Il nome di Boris Vian, il trombettista dell’orchestra di Abbadie, risuona ora in tutta la Francia e anche all’estero. Finita la parentesi giovanile e scapigliata , ma in realtà a tratti “disperata” di aver avuto – come dice lui stesso – “il privilegio di non essere preso sul serio” da una critica letteraria che lo giudicava un animale notturno innamorato del gesto clamoroso, vittima di un’interna dissipazione che non perdeva mai l’occasione per trasformare in palcoscenico, insomma una critica – secondo Cibotto – che ha da sempre confuso la maschera con il volto autentico di Boris Vian, una critica che non ha mai capito il complicato geroglifico delle sue carte, il suo cercare e trovare nuovi valori, dare un senso schietto al linguaggio e alla parola tradita, il suo recupero culturale che passa per vie assolutamente impreviste, una critica che forse non gli ha mai perdonato d’essere stata messa alla berlina con il romanzo di Vernon Sullivan, e che ha adottato nei suoi confronti un’ attenzione assai distratta, una specie di rigore punitivo. Ma in Vian, al di là della posa eccentrica della provocazione deliberata, del graffio satirico, c’è la certezza dello scacco finale che lo esorta a voltare le spalle a un mondo che lo respinge, a cercare altrove rare schegge di felicità, proponendo la ricchezza della povertà, il rifiuto del compromesso, il senso profondo e vitale dell’esistenza. Canta la bellezza del sole, della donna, della nebbia, dei bimbi che ridono, dell’esercizio poetico, e lo fa con un linguaggio che gli concede di rimettere in discussione tutti i valori di un mondo che lo respinge. Basta modificarle, le parole, per ottenere una realtà meno deludente, addirittura per fondare su di esse un universo. Fonda su una sola parola due realtà verbali incompatibili, sconvolge l’ordine del tempo, modifica le convenzioni spaziali, s’abbandona al piacere del travestimento fino a raggiungere il traguardo dell’astrazione, e ciò lo constatiamo in tutte le sue opere, in particolare in quelle teatrali, ma alla fine si sente sempre come un “pesce profondo”, sospeso ad esplorare gli stessi fondali, quelli della certezza della morte che può arrivare da un momento all’altro:

Non vorrei crepare/nossignore nossignora/
prima d’aver assaporato/il piacere
che tormenta/
il gusto più
intenso/non vorrei crepare/
prima di aver gustato/
il sapore della morte...

Lui è “uomo contro”, ma non convenzionale, non retorico,è uno che medita sulla crisi di una società e di un costume lacerati nell’intimo dalla corruzione e dall’ipocrisia, dai miti del consumismo, dagli incubi dell’alienazione, è uno che anticipa le esigenze che avrebbero inquietato le nuove generazioni, alle quali non si stanca mai di ripetere la parola “cuore”, quel suo scordato strumento che avrebbe presto cessato di battere. E ciò lo ritroviamo ne L’erba rossa, in cui non sembrano esserci “vie d’uscita” al di là del suicidio, o ne nel suo capolavoro, L’écume des jours, “La schiuma dei giorni”, in cui al di là della comicità, dell’ironia e del sarcasmo distruttivo più apparenti, è possibile cogliere la sensazione netta di un dramma interiore, un lirismo lucido angoscioso e disperato popolato dalle ombre della malattia, dalla degradazione, dall’assurdità della morte, che conferiscono all’opera di Vian quell’atmosfera difficilmente definibile, sia che si tratti di romanzi, sia che si esaminino le raccolte poetiche (“Non vorrei crepare”) o le sue quattro opere teatrali (“L’inquadramento per tutti”, “La merenda del generale “, “L’ultimo dei mestieri” , “I costruttori dell’Impero”, il suo capolavoro), che hanno tutte come motivo comune la critica feroce alle istituzioni e alle convenzioni borghesi e una costruzione tecnica, un linguaggio, una visione lucida e disperata che richiamano il teatro dell’assurdo di Jarry e Jonesco.

Aveva scritto di sé stesso : “Sono nato, casualmente, il dieci marzo 1920 sulla porta di una clinica ostetrica che era chiusa per uno sciopero contro il calo delle nascite… Un prete, un sant'uomo che passava di lì, mi raccolse… e immediatamente mi riposò: in effetti pesavo un casino!! (è da allora che soffro della mia ben nota aspersoriofobia). Fortunatamente una lupa affamata mi prese sotto la sua protezione e mi diede qualcosa da bere". Un linguaggio fatto di neologismi onomatopeici e stravaganti, spesso ottenuti dalla fusione di più parole (celebre l'esempio del "pianocktail"), che quasi sempre non ci si aspetterebbe di trovare abbinate. Raymond Queneau ha definito La schiuma dei giorni 'la più "spezzacuorente", commovente storia d'amore moderna mai scritta', dotata però di una carica di surrealismo, piena di gioia di vivere, e di musica. Lo si vede fin dalla breve premessa, in cui Vian enuncia una specie di canone estetico ed esistenziale. “L’essenziale, nella vita, è dare giudizi a priori su tutto. In effetti, sembra che le masse stiano sempre dalla parte del torto, e che gli individui abbiano sempre ragione. Bisogna tuttavia stare attenti a non dedurre nessuna regola di condotta da questa constatazione: certe regole non hanno bisogno di essere formulate per essere eseguite”. Il romanzo racconta un po’ tutta la vita e le passioni di Vian, dal jazz alla buona cucina, entrano a far parte dell'opera nei modi piú inaspettati.

Daniel Pennac
definì la "schiuma dei giorni" un romanzo da leggere più volte nel corso degli anni: a diciotto anni prevale la griglia interpretativa della passione amorosa, a quaranta quella della critica sociale, a sessanta quella del pessimismo e della tragedia che tutto annulla. C’ è chi ha ravvisato in vari passaggi del romanzo lo stile “giungla” della musica di Ellington. Autore anche di libretti d’opera come Fiesta che, musicata da Darius Milhaud, fu rappresentata all’opera di Berlino il 3 ottobre 1958, Vian ha lasciato qualcosa come 400 canzoni, che non soltanto ha scritto , ma ha cantato egli stesso. La più famosa diqueste, "Le déserteur", dal testo spiccatamente pacifista, scritta durante la guerra d'Indocina, che lo pone all’indice. Il microsolco che aveva inciso dal titolo emblematico, Canzoni possibili e impossibili, viene tolto di mezzo dalla circolazione commerciale. Siamo alla fine della sua storia che, come osserva Jean Clouzet, per uno di quei tiri della sorte di cui si dubita, ma accadono si conclude con lo stesso libro – “Andrò a sputare sulle vostre tombe” - che gli aveva spalancato la porta della vita pubblica e procurato qualche soldo (successivamente per campare Vian ha dovuto fare molte traduzioni e giornalismo).


E la mattina del 23 giugno 1959, Boris Vian, anche se nessuno lo ha invitato, si trova al Cinema Marbeuf in occasione della proiezione della versione cinematografica del suo controverso romanzo J'irai cracher sur vos tombes. Aveva già combattuto con i produttori al riguardo della loro interpretazione del suo lavoro, denunciando pubblicamente di aver chiesto invano la rimozione del suo nome dalla pellicola, perché le immagini non erano aderenti allo spirito del romanzo, alla sua segreta speranza. Cinque minuti dopo l'inizio del film, pare che sia sbottato:

"Questi tizi dovrebbero essere
americani?...Sticazzi!".


Un attimo dopo, colto da infarto, viene trasportato all'ospedale, ma non c’è più niente da fare. Il suo cuore aveva cessato di battere per sempre…

…Chi era Boris Vian ? Un fascinoso impasto di tenerezza e di protesta, di gentilezza e intransigenza. Un paradossale burattino tragicomico, che non appartiene a nessuna corrente, a nessun “ismo”, che scrisse un’opera che non ha nessuna formula semplice e fissa, nessuna analogia… Un concentrato di tenerezza e violenza, lacrime e sorrisi, scherzo irriverente e profonda sagacia, scrive Margherita Muratore. L’iconoclasta Boris Vian non è, in fondo, che l’anima ancora pura e incontaminata dell’infanzia.
Uno che – dirà Prevert –

“giocava alla
vita/come altri giocano in borsa,
/a
guardialadri o a soldi,/ ma non da baro:
/da gran signore,/come la micia
col pesce/
nella schiuma di
giorni/come giocava di tromba/ o di crepacuore./
Ed era un bel
giocatore. Ogni volta rimandando la morte/all’indomani…”

“Solo due cose
contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington...”

Augusto da San Buono
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