29 ottobre 2006

Le mille maschere di Gioacchino Rossini

di Augusto da San Buono

“Il fatto è, caro amico, che Rossini era un bipolare, come tanti altri geni “- mi dice il maestro Luigi Solidoro, che si è appena esibito al pianoforte con alcune ouvertures rossiniane. “Ma , in fondo, - ammicca sorridente - non siamo un po’ tutti bipolari?”.
Beh, in effetti viviamo un po’ tutti costantemente “in bilico”, come il protagonista di un celebre romanzo di Saul Bellow, tra euforia e apatia, tra gioia e disperazione, siamo il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, l’infanzia e la vecchiaia, l’esaltazione e l’abbattimento, con tutte le infinite gradazioni. Poi un giorno il cervello fa clic e tu cominci a sprofondare verso il nulla. Come capitò a Rossini, probabilmente dopo la morte della madre, Anna, che adorava. Il suo Mosè trionfava a Parigi, il pubblico lo reclamava con un uragano di applausi e lui, nell’inchinarsi, piangeva e mormorava: “Ma lei è morta”. Una sofferenza devastante che lo condusse sull’orlo della demenza.
A distanza di un anno Rossini avrebbe smesso di scrivere musica.

Il “mal di vivere”, lo “spleen”, la tristezza, la melancholia, non sono invenzioni di poeti decadenti, no. Sono solo una delle tante variazioni sul tema della sindrome maniaco-depressiva, che colpì diversi grandi personaggi della storia, da Adriano a Napoleone, da Shelley a Balzac, da Michelangelo a Van Gogh, da Caravaggio a Rossini: “Mi chiamano professore, anzi maestro, e sono già quasi vent’anni che di su, di giù, per diritto e per traverso io meno il mio pubblico per il naso; e vedo che proprio nulla ci è dato di sapere! Per poco non ne avrò consunto il cuore! E’ vero che ho più senno di tutti gli scipiti musicisti, professori, compositori e funzionari: io non sono tormentato da scrupoli e da dubbi, non ho paura del diavolo e dell’inferno. Ma in cambio mi è tolta ogni gioia: io non m’illudo di sapere qualcosa di vero, io non m’illudo di poter insegnare qualcosa per migliorare e cambiare gli uomini”.

Detestava i fanatici, le melo-checche, le esagerazioni, le aberrazioni celebrative, e questi pensieri faustiani lo attraversavano continuamente, ormai, da quando s’era fatto di sé stesso un finto mito: dopo Rossini sarà impossibile tornare al melodramma. Rossini incarna tutta la musica operistica del nostro secolo. Dicevano di lui. E lui rideva: sciocchezze, pure sciocchezze. Intanto aveva dimostrato come la musica possa raggiungere la grazie assoluta, che tutto si poteva mettere in musica (“datemi la lista della lavanderia e la metterò in musica”), da Il Barbiere di Siviglia -, realizzata in soli tredici giorni, tra piatti di riso, mortadella, vino rosso e allegra compagnia - , alla folle Italiana in Algeri; dalla moraleggiante Cenerentola allo scabro Maometto II infranciosato come Siége de Corinthe; dal sulfureo Conte d’Ory al michelangiolesco Mosè, dalla sua prima farsa (La cambiale di matrimonio) che odorava ancora tanto di settecento napoletano all’ultimo dramma, Guglielmo Tell, che più romantico non si può, anche se lui rimase un classico, che si sentiva più figlio di Mozart e Hayden e Gluk, che di Paisiello e Cimarosa. E la sua arte era di una grazia assoluta.
Portò strumenti umili e comprimari come il fagotto e il corno (dirà di se stesso: sono figlio di un corno, alludendo al padre Giuseppe, suonatore di corno e ispettore ai macelli, ma anche alla bellissima madre, Anna, cantante lirica autodidatta, che aveva diversi ammiratori e se ne compiaceva), all’esibizione solistica, all’esaltazione del protagonismo orchestrale; adottò tecniche provocatoriamente audaci, come il battere degli archetti dei secondi violini sul coprilampada del leggio (vds. Il Signor Bruschino), o l’ironica esplosione della Gazza ladra, e poi giochi strumentali inarrivabili, repliche e sberleffi di frasi già dette, o patetismi esagerati, ottenuti divaricando le altezze, lavorando sui contrasti, ostentando sferzate di ottavino, petulanze di clarinetti, borbottii di fagotti, lacrime d’oboe. Novità che verranno superate dal famoso “crescendo” rossiniano, che non è solo un abbellimento dinamico, ma un fatto strutturale. Sul cigno di Pesaro (prego, chiamatemi cinghiale di Lugo, corresse lui ironicamente, poiché il padre era originario di Lugo) tante battute, tanti episodi, tanti aneddoti, ma nulla di veramente chiaro sulla sua immagine autentica, sulla sua vera personalità.
Chi fosse veramente Rossini non lo dicono nemmeno le sue numerose lettere, spesso piuttosto banali, o di gran circostanza, né le cronache esaltanti di scrittori-amici come Stendhal. Ci dicono, se mai, le mille maschere che indossava Rossini: il Pigro, il Gaudente, il Disimpegnato, Il Rubacuori, il Battutista, il Dandy, l’Uomo di mondo, il Conservatore, il Tiepido, il Gourmet, ecc. Ma nessuna ci potrà dire dell’oppressione che gli veniva dalle cose del mondo e dal proprio genio, dalla propria intelligenza, dalla fatica creativa, dalla solitudine, della sua fragilità nervosa: “Oh, Dio come descrivere quel vuoto attorno a te stesso, quell’infinita solitudine, abissale senso di vuoto e di inutilità che ti dà la malattia nervosa?”.

Rossini faceva battute piene d’ironia dalla cadenza mezza marchigiana e mezza romagnola: “ Faremo un pranzo splendido, mangeremo un tacchino. Saremo solamente in due. Io e il tacchino”; Rossini discettava di mortadella e gorgonzola, partecipava agli scherzi di carnevale più esilaranti, come quella volta, a Roma, in cui, insieme a Paganini e Massimo D’Azeglio, si finse musico cieco e mendico e se ne andò girando per le vie della città eterna strimpellando la chitarra e cantando delle canzonacce da lui stesso musicate; Rossini si vestiva da elegantone, un Lord Brummel delle Marche, frequentava i salotti delle corti d’Europa, invitato da principi e monarchi, perfino da Metternich, l’uomo più potente del momento, che lo volle per celebrare il più sfarzoso dei congressi europei, a Verona, dove compose due cantate: La Santa Alleanza, e Il vero omaggio, che gli alienarono le simpatie dei patrioti italiani, ma non se ne fece un problema, tutt’altro. Peraltro era perfettamente d’accordo con chi aveva detto che Metternich “non era un fanatico né un despota, sebbene conservasse i despoti sui loro troni; non era crudele benchè l’attuazione della sua politica aiutasse a commettere imprese crudeli. Era un uomo di gradevole aspetto, elegante, gaio e sereno, pieno di gioia di vivere e amante dei divertimenti, della letteratura e della buona musica”. Per certi aspetti , il principe Metternich, che si sentiva “il medico del grande ospedale del mondo, il savio del manicomio”, gli somigliava.

Anche lui, Gioacchino Rossini da Pesaro, era ormai un mito in cui si addensava la storia che stava vivendo, lui stesso era la storia della musica che si faceva con l’inchiostro della sua esistenza. Ma nessuno sapeva quel che c’era dietro quel suo far musica, quanta impazienza, quanta insofferenza, quanta paura di annoiarsi, quanta paura di ammalarsi e di morire! Ogni giorno a dirsi ogni volta non vivrò mai più questo momento, questa emozione così scintillante, così pieni di divertimento e ogni fine d’opera era un‘altra opera che si creava nella sua mente piena di note perfide e deliziose, di ciprie divertite e velenose. Nessuno lo capì, neanche Beethoven, che era andato a trovare a Vienna, in quella casa penosa con il soffitto sfondato e il pitale sul pianoforte: “Non cercate di fare altro che opere buffe: voler riuscire in un altro genere sarebbe far forza alla vostra natura”, gli aveva detto. Possibile che anche lui, il genio che tanto ammirava, colui che aveva composto l’Eroica non aveva capito che lui era uno che eludeva i limiti, che ignorava le strettoie, gli schemi, della tradizione; non aveva capito che era un vecchio complice di spettacoli atemporali, che poteva scrivere qualunque tipo di musica; non aveva capito che lui era il manifesto dell’arte moderna e che dopo di lui non ci sarebbe stato più nulla da fare; non aveva capito che la sua semplicità veniva da tumulti, da tempesta e da cicloni; non aveva capito che la sua musica esplosiva e carica di ironia, con giochi strumentali inarrivabili, repliche e sberleffi, frasi già dette, patetismi esagerati, ottenuti divaricando le altezze, lavorando sui contrasti, ostentando sferzate di ottavino, petulanze di clarinetti, borbottii di fagotti, lacrime d’oboe, era una musica che non c’era mai stata prima ed era frutto della sua malattia. Non aveva capito che quella musica gli stava costando la salute mentale, altrochè opera leggera e buffa. Comunque tanto per smentire il genio di Bonn, pochi anni dopo quel loro incontro aveva composto il William Tell, un capolavoro romantico che farà dire a Donizetti: “Rossini scrisse il primo e l’ultimo atto del Guglielmo Tell . Dio scrisse il secondo Atto!”. Il più grande compositore comico di tutti i tempi, che aveva sempre dichiarato di detestare il romanticismo e anzi aveva nostalgia del classicismo e dell’illuminismo, aveva composto quel capolavoro di dramma romantico che di più non si poteva. La gente era sorpresa, sconcertata, ma lo sconcerto diventò incredulità quando lo stesso autore decise di ritirarsi a vita privata a soli 37 anni, nel pieno del successo.

"Ho esercitato troppo la fantasia, e per la mia sensibilità così fragile..." disse Rossini. Una mezza frase che diceva tutto e nulla. E pure era la verità. La sua vita, e la sua musica, caddero interamente sotto il cono d’ombra della “fragilità nervosa”, una forma di ipocondria che lo paralizzava e che gli faceva comparire lo spettro della morte dietro il più piccolo malessere, una costante condizione di debolezza nei confronti del reale, che segnò ogni suo gesto. Dirà che dopo aver scritto il Guglielmo Tell si sentì svuotato di ogni energia, con un deperimento fisico e psicologico che gli tolse ogni gioia. Da quel momento la musica fu la sua ossessione. Non poteva più ascoltare la sua musica. Ne era a tal punto emozionato da non poterne sostenere lo choc. Non era più in grado di percepire se stesso. Non andava a teatro a sentire le sue Opere, non gradiva neppure che nel suo salotto si cantassero le sue Arie più celebri.

Le sue opere erano piene di specchi mascherati, ritratti involontari, in cui parlava di sé stesso senza accorgersene. “Ora voglio specchiarmi nel mercurio pulito della stima, dell’amicizia. Che vale più di qualsiasi altra cosa. Anche volendo non potrei più scrivere, sono martirizzato da tredici mesi di crisi nervosa che mi ha tolto sonno, palato, alterato l’udito e la vista e gettato in tale prostrazione di forze che non posso né vestirmi, né spogliarmi senza aiuto”. Il musicologo francese Francois Fètis, che era andato a rendergli visita descrive la sua repulsione nei confronti del pianoforte che si trovava nella sala dove si erano intrattenuti. “Lo vidi scoppiare in un accesso di collera, come se la vista di quel pianoforte fosse insostenibile per lui, come se avesse chiuso per sempre e da tempo la porta della musica e ora quel maledetto strumento gliela richiamasse alla mente”. Era la stessa esplosione di tutta la musica che aveva scritto in vent’anni di trionfi. Una musica che sistematicamente incendiava tutte le convenzioni dell’Opera, portandole a un grado più alto di intensità nervosa, e di emozione, e di choc. La sua musica schiantava i vecchi steccati, era l’irrompere fragoroso eppur controllato di un universo sonoro mai udito prima. La sua era musica estrema. Il segno di una forza e di una energia superiore, “il sismogramma – scrive Alessandro Baricco - di una debolezza vertiginosa, lanciata in fuga, a velocità mai vista, lontana dal reale, con qualcosa di nevrotico, di ossessivo, o anche semplicemente di esagerato. Una vera e propria "follia organizzata". Intensità, caos puro, smarrimento, fuga schizoide. Rossini se ne scappava dalle parole dei suoi librettisti, disegnando nell’aria vocalizzi che le polverizzavano, dall’ideologia del suo tempo, la libidine del romanticismo. Scappava. E scappando tracciava traiettorie elettrizzanti, ipnotiche. Erano la forza della paura”.

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