08 luglio 2006

Una storia di Maometto

di Augusto da San Buono
Dopo i danesi e i francesi, anche Oriana Fallaci sta preparando una sua “cammellata”, una vignetta satirica su Maometto. Dice che lo raffigurerà con le nove mogli, fra cui la bambina che avrebbe sposato a 70 anni suonati (ma in realtà è morto prima, a 62 anni), nonché le sue sedici concubine. Ha detto che vuole metterci una cammella col burqa, forse la sua preziosa, storica cammella Qaswa , “colei cui è stato tagliato un quarto di orecchio”, che, lasciata senza briglie, scelse il primo luogo del culto musulmano, il più sacro dell’Islam dopo la Kaaba, ovvero la moschea di al-Medina, dove sono le spoglia del profeta di Allah, il principale edificio pubblico e l’emblema stesso della società e della “città dell’Islàm” nonché dell’intera Umma, ovvero la nazione musulmana, che è tornata a far sentire la sua voce non solo dall’Arabia, ma da tutto il mondo, dal Suriname alla Bosnia, dalla Francia all’Indonesia (sono oltre un miliardo e mezzo e la maggioranza è composta da musulmani non arabi).

“La matita, per ora, - ha detto la Fallaci - si è infranta sulla figura della cammella”. E ciò non è a caso, tenuto conto che di cammelli e cammellate è piena la storia del nobile beduino , che è stato un valente cammelliere e un capo “carovaniere”, una sorta di marinaio del deserto, abituato a orientarsi con le stelle, prima di diventare profeta. Ed in fondo, anche all’apice della fama e della gloria, rimase sempre tale, un beduino del deserto. Per questo modellò un sistema territoriale simile a quello delle stelle. Infatti, se ci fate caso, le città islamiche che punteggiano l’immenso territorio aperto dell’Arabia sono idealmente unite come a formare le figure delle zodiaco.

“Nobile è soltanto chi possiede un cammello”,dicevano gli antichi nomadi e il cammello (o, meglio, il dromedario) è un animale di fondamentale importanza per la vita dei beduini nell’Arabia del VI secolo, epoca in cui nacque appunto Muhammad, figlio di Abd Allah, nipote di Abd al-Muttalib, uno dei capi Clan dei Qurayshiti, ovvero della “tribù degli squali”, come quelli che infestano le acque del Mar Rosso e del golfo Persico, a est e ovest della penisola arabica. E il nome, - che significa “il più lodato” (ovvero il profeta annunciato da Gesù, secondo l’interpretazione musulmana di un passo del Vangelo di Giovanni) ,- glielo aveva dato proprio suo nonno, perché Maometto era rimasto orfano di padre ancor prima di venire al mondo. Com’era consuetudine, nei clan dei notabili, subito dopo la sua nascita, Maometto viene affidato ad una famiglia nomade , che lo forgia al clima e alle durezze del deserto, nutrendolo con il buon latte di cammella . Poi, tornato nel clan, si ritrova orfano anche di madre (muore quando il piccolo ha appena sette anni), e senza parenti in linea diretta, perché subito dopo gli muore anche il nonno. Si occuperà di lui lo zio Abu Talib, nuovo capo clan, commerciante abile e onesto, ma con una famiglia numerosa da mantenere, e senza eccessive risorse. Lo zio lo porta con sé, nei lunghi viaggi delle carovane attraverso il deserto, e Maometto cresce come tanti giovani beduini, senza particolari doti , ma diventa un profondo conoscitore di quei luoghi e quando è in groppa ad un cammello si sente felice, è sicuro di sé, ha il piglio del capo. E come tale si farà notare, più tardi, da una ricca vedova, che gli affida le sue importanti carovane e la sua preziosa mercanzia lungo le infide strade , a lui ben note, della Mecca, regione che si trova a metà strada tra l’Arabia del Sud e la Palestina bizantina, crocevia delle piste dirette verso l’Egitto, la Siria , la Mesopotamia e lo Yemen, passaggio obbligato lungo la via che attraversa l’Arabia, da nord a sud, celebre per la sua sorgente e, soprattutto, per il santuario della Kaaba (la casa di Dio), un enorme cubo di pietra, alto quindici metri, largo dodici e profondo dieci, che racchiude la Pietra nera che l’arcangelo Gabriele avrebbe dato ad Abramo e a suo figlio Ismaele, all’epoca della ricostruzione della casa di Dio( La prima casa era quella di Adamo, poi andata distrutta). Ma presso la Kaaba, - che rappresentava, nella concenzione geografica araba, il centro del mondo, - venivano allora adorate le più disparate divinità, da Hobal, l’idolo dalla cornalina rossa alla dea al-Lat , e al-Uzza, l’onnipotente, e ancora al-Manat , che recide il filo dei destini umani. Era una sorta di museo delle divinità, se ne contavano più di trecentosessanta, e ciascun pellegrino era libero di venerare i propri dei. In fatto di culto, gli abitanti della Mecca erano molto tolleranti. Più pellegrini affluivano e meglio era per le loro casse.

L’orfano e povero Maometto (ha quasi venticinque anni e ancora non è sposato perché nessuno del parentado gli dà una moglie) va e viene da quel mare di sabbia inospitale, che è il deserto, consumando i suoi giorni e le notti a dorso di cammello.
Durante queste lunghe “cammellate”, il giovane Maometto, tra l’infinita sabbia e l’infinito cielo sempre uguali, con un pugno di datteri e pane d’orzo, riflette sulla sorte degli uomini e degli animali e sul senso della vita. Il cammello, animale meraviglioso, capace di percorrere cento chilometri in un giorno, di portare carichi fino a duecento chili, di sopportare il fuoco della sabbia del deserto e la terribile sete… Si commuove per il pio cammello dal dolce sguardo, che porta merci e pellegrini nei luoghi santi, così generoso nel dare tutto di sé, latte, carne, lana per vesti, pelli per selle e sandali, fino ad essere offerto in sacrificio all’ospite di turno. “Non c’è dubbio che per il beduino il cammello rappresenta la prima vera ricchezza, quasi la vita stessa, la possibilità di sopravvivenza, ma subito dopo viene la “parola” (“L’inchiostro del sapiente è più sacro del sangue del martire”. E nel deserto la parola vale più dell’oro. Cosa sarebbe l’uomo, raggio di sole e ombra che cammina senza scopo e senza senso, se non ci fosse la parola? I grandi palazzi costruiti sulla sabbia, come a Palmyra, sono andati distrutti; un giorno le città diventeranno rovine, ma la parola è magica, potente e invisibile come il vento tra le dune. La parola trasforma. E distrugge. La parola è il verbo divino”. Maometto si è incantato ad ascoltare i poeti nella fiera di Okaz, intuisce quanta duttilità e ricchezza vi sia nella metrica della poesia araba, talmente rigorosa da rasentare la perfezione. Vede coi suoi occhi come la poesia riesca a commuovere profondamente i beduini, tocca le loro corde, la loro sensibilità, colpisce la loro immaginazione, esercita un tale fascino e una magia da far dire loro che sono i “ginn” (i demoni) che suggeriscono al poeta le sue mirabili espressioni. I beduini s’incantano ad ascoltare i racconti della madama un genere letterario tipico della prosa araba. Sanno che la parola può essere un’arma più temibile della sciabola, sanno che i versi del poeta, diffusi attraverso il deserto, rendono immortale un’impresa gloriosa, ma possono anche macchiare per sempre l’onore di una stirpe. Non c’è fortuna, dunque, per una tribù, senza poeti. Ma la fortuna di Maometto, al momento, non è quella letteraria (sosterrà sempre di “non essere poeta”), ma quella che gli deriva dall’essere un ottimo cammelliere, dotato di un certo fascino magnetico, tale da non far rimanere indifferente la sua datrice di lavoro che lo osserva dall’alto della sua torre mentre conduce la carovana e lo vede circonfuso da una nuvola d’oro, che lo ripara dall’ardore del sole. Insomma, Khadigia, la ricca vedova quarantenne s’innamora perdutamente di lui e nonostante il suo clan sia contrario alle nozze, lo sposa dopo soli due mesi, nel 595. Ed è così che Maometto viene introdotto nell’elitè della società del tempo e comincia a conoscere persone sagge e sapienti, ma anche influenti, che fanno parte del clan della moglie, e in pochi anni diventa anche lui persona stimata e influente, uno che fa sempre meno cammellate per applicarsi allo studio, all’approfondimento, alla riflessione; è uno che ha qualche idea in testa e la manifesta in modo critico, talora provocatorio per quella che era la società del tempo, che gli sembra interessata solo a questioni materiali. Ma fino a quarant’anni conduce, tutto sommato, un’esistenza abbastanza anonima, se pur agiata, niente a che vedere con le “cammellate” che verranno in seguito. Intanto la moglie sembra fargli dispetto e mette al mondo solo femmine, per cui viene disprezzato dagli altri membri del clan (le figlie sono un peso notevole, tant’è che se c’è carestia vengono sepolte vive appena nate). Per gli arabi non avere figli maschi è un grave disonore (è come essere mutilati, impotenti), tanto più che la consuetudine permette una poligamia quasi illimitata. Ma Maometto è troppo legato a Khadigia e vuole rimanerle fedele. Viene premiato, la moglie gli dà due maschi, ma sia il primo che il secondo muoiono dopo pochi mesi. Allora si mette il cuore in pace e decide di adottare due ragazzi, il giovane cugino Alì, e uno schiavo di nome Zayd, da lui affrancato. E’ ormai invecchiato e ingrassato, si sente oppresso da qualche cosa, è sempre teso, alla ricerca di risposte concrete all’ansia dello spirito che lo pervade. Si allontana sempre più spesso dalla città e se ne va a meditare in una grotta sul monte Hira, un luogo arido, spoglio, dove nulla può distrarre lo spirito, che dista qualche chilometro dalla Mecca. E su questa roccia nerastra che verrà chiamata “montagna della luce” gli appare l’angelo Gabriele, dotato di seicento ali, il messaggero di Dio, venuto per annunciargli il suo destino: “Tu sei l’inviato di Dio, il profeta di Allah”. E’ l’intermediario, la voce di cui Allah si serve. Ha la missione di “ recitare” agli uomini ciò che la Voce Divina gli ordina di trasmettere. Ed ecco il qu’ran, ovvero il Corano per la sottomissione alla parola di Dio, Islàm , che deriva dal verbo aslama ( sottomettersi) e il suo participio è muslim (musulmano), ovvero colui che si sottomette, che obbedisce. La novità, rispetto ai profeti che – secondo il Corano - l’hanno preceduto (Adamo, Abramo, Mosè, Gesù), è che la Rivelazione, l’Illuminazione, viene dettata in lingua araba, che, conseguentemente, viene elevata al rango di lingua sacra, come l’ebraico e l’aramaico (guarda caso, tutte lingue orientali). Ed ecco la scrittura farsi arte calligrafica, perché d’ora in poi le 27 lettere dell’alfabeto arabo rappresenteranno le parole sacre del Corano ed esprimeranno graficamente il nome di Allah e del suo Profeta, nomi che talora occupano gli interi muri di una moschea. “Ma ora – gli preannuncia il nipote di Khadigia, Waraqa ibn Naufal, che conosce bene le scritture ebraiche e cristiane – verranno tempi duri per te”. E infatti eccolo trattato dapprima con indifferenza, poi con disprezzo, ostilità e minacce da parte del suo stesso clan, che cerca di convertire alla nuova religione. I suoi primi discepoli rimarranno a lungo una cerchia molto ristretta, sua moglie, i suoi figli adottivi e un ricco mercante, Abu Bakr, che gli era amico, prima ancora che divenisse profeta. Poi s’aggiunge qualche artigiano, qualche schiavo riscattato dalla generosità dello stesso Abu Bakr, un pugno di gente umile e disperata, che non esita a credere non avendo niente da perdere. Maometto continua ostinatamente a predicare ai Qurayshiti : vi porto la felicità di questa vita e di quella futura, Dio mi ha ordinato di chiamarvi a lui. Chi di voi vuole sostenermi in quest’opera e diventare mio fratello, mio esecutore, mio vicario?

Questi, che all’inizio lo deridevano, col passare dei giorni non lo sopportano più, gli dicono che è diventato magnun (pazzo) a predicare di questo dio unico, nato dal nulla e che non ha figli, e che non tollera altre divinità e i ginn, gli dicono di tornarsene alle sue pecore e ai suoi cammelli. I più ostili oppositori temono che possa predicare l’abbandono del santuario della Kaaba, e la soppressione dei pellegrinaggi che costituiscono la loro fonte di guadagno. E fanno pressione sul capo clan, affinché conceda loro carta bianca. Ma questi resiste alle pressione. E continua a proteggerlo con spirito di solidarietà tribale dai continui assalti dei mercanti della Mecca, che mettono alla prova Maometto. Gli chiedono di far miracoli ( fai scorrere fiumi azzurri nel deserto, come in Siria, fai tagliare in due la luna) e lo deridono quando lo sentono parlare di resurrezione dei corpi, giorno del giudizio, abolizione degli idoli della Mecca. Alcuni lo considerano un indovino, uno stregone, un indemoniato. Altri dicono che è un uomo pagato dai cristiani e dagli ebrei della città. La sua vita è tutta nelle mani dello zio Abu Talib, colui che gli insegnò il mestiere di cammelliere del deserto. E ora, mentre sta pregando alla Kaaba, in segno di massimo disprezzo, sono proprio gli intestini di una cammella appena sgozzata che gli vengono gettati sulle spalle. Maometto è un uomo solo, senza clan, senza più risorse economiche (il commercio di Khadigia è rovinato), con pochi seguaci, i più poveri, i derelitti, gli stranieri e gli schiavi della Mecca duramente perseguitati dai Qurayschiti. Le cose non potrebbero andare peggio. Ci sono inevitabili conflitti all’interno della piccola comunità, la situazione è insostenibile. Devono andarsene, non c’è altra soluzione. Provvede affinché un gruppo di musulmani emigri in Abissinia dove verranno ben accolti dal Negus, un re cristiano, che ha simpatia per questa nuova religione che gli sembra non discostarsi troppo da quella cristiana. Da parte sua, ha intenzione di andare a predicare sulle alture di Taif, dove era stato da bambino. Nel frattempo, uno dei Quaryschiti più feroci, il gigantesco Omar ibn al-Khattab, decide di farla finita con Maometto. Sta venendo ad ucciderlo con le sue mani, ma lungo il percorso, ad Omar ( che diventerà uno dei più famosi califfi dell’Islam) succede quel che era accaduto a San Paolo sulla strada di Damasco: si converte, e questa importante conversione sembra dare nuovo entusiasmo e vigore alla giovane comunità. Ma non è così. Non ci saranno altre conversioni significative. La causa dell’Islam sembra condannata. Anche Maometto è ormai in pericolo, perché lo zio Abu Talib è morente e non ci sarà nessuno più a proteggerlo. Chiunque può impunemente ucciderlo, venderlo come schiavo, torturarlo, tanto nessuno lo difenderà o vendicherà la sua morte. I vicini gli tirano addosso frattaglie di pecora e, mentre prega, un ragazzo gli getta della sabbia in testa. Bisogna lasciare la città maledetta, tanto più che in quell’anno luttuoso, siamo nel 619, gli muore anche la moglie Khadigia, sua consigliera, amministratrice, fedele compagna, prima seguace. Maometto si reca finalmente a Taif, un’importante città commerciale legata allo Yemen situata su una collina, un rinomato e verdeggiante luogo di villeggiatura, in cui pensa di stabilirsi definitivamente. S’incontra con il clan dominante dei Banu ‘Umayr. Predica loro la nuova religione. Ma non solo non viene ascoltato, viene letteralmente cacciato. Mentre cammina gli abitanti gli tirano dei sassi, gridando vattene. Con le gambe coperte di sangue, dopo tre miglia si ferma in cerca di riposo in un giardino. Il proprietario, mosso a compassione, gli manda alcuni grappoli d’uva per mezzo di uno schiavo cristiano e il profeta allungando la mano verso il frutto dice: “Nel nome di Dio”. Sono le parole che ogni devoto musulmano pronuncia prima di iniziare qualunque lavoro e di toccare il cibo. Abbandonato da tutti, Maometto si rifugia sul monte Hira, poi ritorna alla Mecca nel periodo del pellegrinaggio e riprende a predicare alla folla convenuta da ogni parte dell’Arabia. Solo sei ascoltatori si mostrano interessati alle sue parole, sono uomini di un clan di Yatrib, un villaggio che era un insieme di capanne e di fattorie disperse in un oasi circondata da rocce e colline, che assunse poi il nome di Medina, o Città del profeta. L’anno seguente cinque di essi – convinti che Maometto sia il Messia atteso dagli ebrei e comunque l’uomo giusto per risolvere le beghe interne alla città – vanno di nuovo alla Mecca per il pellegrinaggio, insieme con altri sette e formano i tradizionali “dodici”, come gli apostoli di Gesù. Si riuniscono presso le montagne di Aqaba, nelle vicinanze della Mecca, e prestano il Primo Giuramento di Aqaba. Maometto chiede agli abitanti di Yathrib di proteggerlo come farebbero con le loro figlie e le loro donne. Per questo il giuramento fu chiamato in seguito anche “giuramento delle donne “. E’ la svolta. Maometto taglia definitivamente ogni legame con la propria famiglia e afferma che la legge del clan è superata: non sono i legami di sangue che contano, ma i patti di alleanza fondata su un ideale comune. Alla tribù succede la comunità, la umma. L’anno dopo, siamo nel 622, settantancinque pellegrini giungono da Yahtrib, settantatre uomini e due donne, e giurano a Maometto che combatteranno per lui. E’ il giuramento di guerra. Maometto è diventato un capo, non un capo tribù, ma il capo di un popolo, come Mosè. Maometto lascia la Mecca, sua città natale, verso l’esilio di Yathrib. E’ la famosa ègira, l’emigrazione, che per i musulmani segna l’inizio di una nuova era. Essa rappresenta una vera e propria cesura geografica, psicologica, sociale ed epocale. Il 22 settembre 622 dell’era cristiana Maometto raggiunge l’oasi di Yathrib, ma la tradizione musulmana fa cominciare il primo giorno dell’ègira il 16 luglio, cioè il primo giorno dell’anno lunare, che dura trecentocinquaquatto giorni, calendario su cui basano il loro tempo i musulmani, per ordine suo, l’uomo lunare. E sarà la cammella del profeta, Qaswa, che sceglierà il primo luogo di culto dei musulmani, la moschea, che costruiranno tutti i musulmani, cantando e ritmando le fasi di lavoro, ivi compreso il profeta di Allah. Ma quando veniva il suo turno, - si racconta – egli cambiava inavvertitamente l’ordine delle parole, facendo scomparire la rima obbligata. A dispetto del Corano, che è composto da 6243 ayat (versetti), a partire dalla prima sura (capitolo) medinese, “La vacca”, Maometto non era proprio dotato nell’arte demoniaca della poesia, tutta l’eloquenza gli veniva solo da Dio. Da qui in poi ci saranno dieci anni di affermazioni, per Maometto, una vera e propria poderosa escalation che lo vedrà, di volta in volta, nelle antiche vesti di beduino razziatore, indi di glorioso capo guerriero di Medina, con settantaquattro battaglie, quasi tutte vinte, per l’affermazione dell’Islàm, la proclamazione della gihad, la guerra santa, in cui i caduti diventano martiri e un quinto del bottino va al profeta, fino al trionfale ritorno nella sua terra e la riconquista della Mecca, la distruzione degli idoli e collocazione definitiva della pietra nera nella Kaaba, riconfermato luogo sacro per eccellenza dell’Islàm. E tutto ciò senza alcun spargimento di sangue. Sangue che Maometto aveva sparso, a profusione, prima, facendo massacrare oltre mille ebrei di Medina, perché si erano rifiutati di convertirsi, o facendo sgozzare dinanzi a sé un poeta che aveva osato incitare i Qurayshiti alla vendetta. Infine, Maometto uomo di stato, accorto, lucido, sagace, anche spietato quando occorre, che deve governare la sua comunità, dotare Medina di un sistema giuridico, promulgare nuove leggi, gettare le basi dell’impero islamico. Ecco i cinque pilastri dell’Islàm: la shahada (la professione di fede, che è anche la formula di conversione all’Islàm ); la salat (la preghiera, che va recitata cinque volte al giorno, ovunque ci si trovi, casa, lavoro, per strada, interrompendo la propria attività); la zakat ( l’elemosina legale, tassa obbligatoria , che alimenta le casse dei musulmani e serve a mantenere l’esercito) ; il sawn (digiuno, nel mese di ramadan, il nono mese dell’anno lunare, “quando il tempo si allunga , le case diventano profonde, l’ombra traslucida del corpo s’illanguidisce”) e lo hagg (il pellegrinaggio alla Mecca. Il bacio alla pietra nera della Kaaba, l’incontro trans-spaziale e trans-storico, come qualcuno lo ha definito, è in realtà molto costoso, anche per un’incredibile quantità di tasse imposte).

Tra i cinque pilastri manca quello forse più importante, che ha consentito ai musulmani di diventare un impero, quello della gihad, che significa sforzo verso uno scopo, teso al proprio perfezionamento morale e religioso, ma in realtà designa in senso storico e giuridico l’azione armata che mira alla difesa dell’Islàm, ma anche ad una sua espansione. Insomma, checché se ne dica, una vera e propria “guerra santa” che perdura sulla eco delle parole del Corano: “Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono…Uccideteli, ovunque li incontriate… combatteteli fino a quando non ci saranno più discordie e il culto di Dio sarà ristabilito. Se desistono, cessate di combattere, ma non contro coloro che sono iniqui”.
Per finire, potremmo dire che la legislazione del profeta , - pur sotto molti aspetti rivoluzionaria, - a ben vedere rivela la sua origine beduina. Si rifà, insomma, alla tradizione dei cammellieri del deserto. Un’altra “ cammellata”.

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